giovedì 5 novembre 2015

I Luoghi della Memoria e la Costruzione della Pace


www.pressenza.com/it/2015/11/giornata-della-tolleranza-16-novembre-napoli


Giornata della Tolleranza, 16 Novembre, Napoli

La Giornata della Tolleranza, 16 Novembre, compie vent'anni, dal momento che la Dichiarazione sui Principi della Tolleranza è stata adottata dall'UNESCO, a Parigi, nel 1995, quale strumento di sensibilizzazione del pubblico ai valori della convivenza.

Nell'occasione, l'Osservatorio Permanente del Centro Storico di Napoli - Sito UNESCO, realizza una conferenza, in cui sarà anche presentata la ricerca-azione dal titolo “La Pagina in Comune”, edita da “Ad Est dell'Equatore”, Napoli, 2015, sui luoghi della memoria e i giacimenti culturali quali luogo dello scambio inter-culturale e della convivenza pacifica.

Si tratta di una sperimentazione attivata anche grazie al protagonismo della Città di Napoli che ha approvato, prima amministrazione locale in Italia, il primo progetto di una città per CCP in zona di conflitto, i “Corpi Civili di Pace in Kosovo”, con la delibera n. 1029 (20.11.2011).

Approvando la Giornata della Tolleranza, dell'Accoglienza e della Convivenza, con delibera n. 4 (07.03.2012), la Città di Napoli, per iniziativa dell'allora vicepresidente del Consiglio Comunale di Napoli, avv. Elena Coccia, ha inteso coniugare i valori della tolleranza con i principi della salvaguardia della pace e della cultura dei diritti, dei luoghi della memoria e del patrimonio culturale, al fine di promuovere dialogo e convivenza tra popoli, culture, religioni.

La Conferenza del 16 Novembre ospita, nella splendida chiesa di S. Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco, nel centro storico patrimonio UNESCO della Città di Napoli, esperti e intellettuali per confrontarsi con il pubblico sugli argomenti proposti.

La conferenza avrà per tema: I Luoghi della Memoria e la Costruzione della Pace;

è organizzata dall'Osservatorio Permanente del Centro Storico di Napoli, Sito UNESCO, in collaborazione con gli “Operatori di Pace - Campania”, Associazione Memorie e Culture “Lidia Menapace”, IPRI - Rete CCP (Istituto di Ricerche per la Pace e Rete dei “Corpi Civili di Pace”), con il supporto della Opera Pia “Purgatorio ad Arco” ONLUS e dalla Casa Editrice “Ad Est dell'Equatore”;

e, con la presenza di Lidia Menapace, prevede gli interventi di:

    Maria Teresa Iervolino, cultrice della memoria, boemista,
    Edmond Ҫali, lettore di lingua e letteratura albanese,
    Persida Lazarević, ricercatrice di letteratura serba e croata,
    Andrea de Carlo, docente di lingua e letteratura polacca,
    Rosanna Morabito, docente di lingua e letteratura serbo-croata,
    Pasquale Voza, docente emerito di letteratura italiana,
    Imma Barbarossa, ex deputata, docente di lettere,
    Lidia Menapace, ex senatrice, staffetta partigiana, docente,
    Pino De Stasio, consigliere municipale, poeta,
    Arnaldo Maurino, presidente commissione scuola, Comune di Napoli, e
    Elena Coccia, presidente osservatorio Centro Storico di Napoli, sito UNESCO.

La Conferenza si terrà lunedì 16 Novembre, alle ore 16.00, alla Chiesa di S. Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco, in Via Tribunali 39, Napoli.

Segreteria Organizzativa

Osservatorio Permanente Centro Storico di Napoli, Sito UNESCO,
dott. Gabriele di Napoli - arch. Elena Pagliuca
tel.   0817959827

martedì 3 novembre 2015

"Carovane per Sarajevo"


Si riporta qui di seguito la riflessione di Giovanna Baracchi, del Circolo di Paderno Dugnano di Rifondazione Comunista, all'indomani della presentazione del volume di Francesco Pugliese, "Carovane per Sarajevo", presso la Biblioteca Civica di Nova Milanese, lo scorso 31 Ottobre. 

Lo scorso 31 ottobre 2015, a Nova Milanese (MB), si è svolta, all'interno della Biblioteca, la presentazione del libro “Carovane per Sarajevo” di Francesco Pugliese.
 
Laura Tussi scrittrice, giornalista del territorio, ha presentato l'evento assieme ad Alfonso Navarra “antigiornalista ed antiesperto” come lui ama definirsi, ma anche storico obiettore di coscienza, e Gianmarco Pisa dei Corpi Civili di Pace, scrittore e responsabile esteri del PRC di Napoli.
 
A volte ci si domanda quali siano le organizzazioni che operano per la pace ma, soprattutto, dove siano, vista la scarsa anzi assente informazione che viene trasmessa dai mass-media. L'importanza di essere operatori di pace e a favore della smilitarizzazione dei territori non è certo argomentazione gradita ai soliti circuiti informativi. “Quando si parla di pace, e anche di nonviolenza, ci si ferma spesso solo agli aspetti generali, di principio, morali”.

Francesco Pugliese, insegnante ed autore del testo, si occupa da anni di pacifismo ma soprattutto di opposizione popolare alla guerra. Il libro ripropone la memoria di una guerra che non va dimenticata, ricordando anche i numerosi operatori di pace italiani che sono stati presenti con la loro significativa solidarietà, senza precedenti, verso le popolazioni, soprattutto nell'aiuto e nel soccorso alle vittime.
 
ll dibattito fra i presenti, che ne è scaturito, ha raccolto ed evidenziato l'importanza di partire con una sorta di “educazione alla pace” da sviluppare con l'aiuto delle istituzioni scolastiche per divenire costruttori di pace. L'esigenza è quella di “declinare” l'impegno per la pace nei termini di una mobilitazione, al tempo stesso, per la pace e contro la guerra.
 
Alla presentazione del libro hanno partecipato il sindaco di Nova Milanese, Rosaria Longoni, assieme all'Assessore alla Cultura ed anche la nostra delegazione padernese del PRC Casaletti. “È attraverso la memoria che si supera la vendetta e si trascende il perdono, si stabiliscono le coordinate sociali, infine si progetta la riconciliazione e si definisce la convivenza” (Gianmarco Pisa). 

martedì 29 settembre 2015

Premio della Nonviolenza e Corpi Civili di Pace

Campidoglio, Sala della Protomoteca

Venerdì, 2 Ottobre 2015 ore 09.00 

ROMA... SPAZIO ALLA NONVIOLENZA!



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Comunicato Stampa

L'evento finale della IV edizione del Premio della Nonviolenza si svolge a Roma durante le celebrazioni della Giornata Internazionale della Nonviolenza, voluta nel 2007 dall’ONU nell’anniversario della nascita di Gandhi. 

“La Nonviolenza è la forza più grande a disposizione dell’Umanità” affermava il Mahatma Gandhi; ma la nonviolenza ha bisogno di far conoscere le sue potenzialità, relegata come è da questa società a fenomeno di costume, dall’alto valore etico e morale, ma poco usata nel risolvere i conflitti.

I Promotori - “Mondo Senza Guerre e Senza Violenza” e Greenpeace - incoraggiano e sostengono azioni che danno risalto alla capacità risolutiva della nonviolenza e contribuiscono al rafforzamento di questa consapevolezza nella coscienza di tutti, con particolare attenzione ai giovani. In questa IV edizione il Premio sarà ospitato a Roma, nella Protomoteca, la sala prestigiosa del Campidoglio.

Quest’anno, oltre a un riconoscimento a Livia Parisi per i reportage di AssoPacePalestina, saranno presentati i finalisti della sezione Action per i progetti ("La scuola dei diritti umani", la campagna "Un’altra difesa è possibile" e il Progetto P.U.L.S.A.R. - Project on Understanding and Linkages to Serbs and Albanians Reconcile), le scolaresche della Enrico Fermi di Macerata e della Bodoni - Paravia di Torino che partecipano ad Action Scuole, Erminia Scaglia e Stefania Daneluzzo che con le loro foto concorrono alla sezione Gandhi.

I vincitori delle tre sezioni sono stati scelti da una votazione avvenuta nel mese di settembre sulla pagina Facebook del Premio alla quale si può accedere dal sito www.premiodellanonviolenza.it

“Siamo molto orgogliosi della partecipazione che - sostengono gli organizzatori - mai come in questa edizione abbraccia veramente tutt’Italia, da Como a Palermo, da Torino a Napoli, non dimenticando Macerata e naturalmente Roma, che ospita l’evento”.

Comitato Promotore, Premio della Nonviolenza: info@premiodellanonviolenza.it
Evento FB: www.facebook.com/events/1470158923293778

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Per approfondimenti dedicati al progetto P.U.L.S.A.R. per Corpi Civili di Pace in Kosovo e alla ricerca-azione, per i tipi di Ad Est dell'Equatore, dal titolo "La Pagina in Comune":

www.corpicivilidipace.com
www.adestdellequatore.com/2015/05/la-pagina-in-comune-gianmarco-pisa
www.facebook.com/lapaginaincomune

domenica 20 settembre 2015

Giornata della Pace 2015: “l'Arte contro l'Oblio”


Istituita il 30 novembre 1981 dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite con risoluzione 36/67, allo scopo, com'è affermato nella risoluzione, «di rafforzare gli ideali di pace e di alleviare le tensioni e le cause dei conflitti», la Giornata Internazionale della Pace, il 21 settembre, è un'occasione di riflessione e di iniziativa, per la pace e contro la guerra, assai preziosa. 
Nell'occasione, essa ricorre all'indomani di una interessante conferenza a tema, presso il Museo di Storia della Jugoslavia, a Belgrado, sul tema “l'Arte contro l'Oblio”, nell'ambito della mostra “Recorded Memories”, tenuta lo scorso 19 settembre. 
Yannis Toumazis* ha introdotto la riflessione indicando che la rappresentazione della violenza nella guerra e nel militare attraverso la fotografia non fa ricorso alla “memoria” come antidoto al nazionalismo ed al militarismo, bensì usa la fotografia come propellente del nazionalismo e del militarismo. 
Dal punto di vista di Cipro, tre sono le angolature di questo orizzonte: Istanbul, Atene e Nicosia. Il Museo Militare a Istanbul si compone di tre sezioni prevalenti: la costituzione della Repubblica Turca di Kemal Atatürk, le sofferenze subite dal popolo turco nel corso dei primi decenni del Novecento e, infine, una sbalorditiva sala “Corea - Cipro”. Vi sono ripercorsi gli eventi del 1963 e del 1974 e la ricostruzione ha un sapore evidentemente glorificante e nazionalista. 
Nel Museo della Lotta di Liberazione Nazionale, a Nicosia, nella parte greca, vi sono numerose tracce ed oggetti dell'epoca degli scontri bi-comunali, della divisione e della successiva iniziativa militare turca, che portò alla divisione dell'isola nel 1974, che perdura tuttora, tra alterni tentativi di riappacificazione e riunificazione, da ormai quarant'anni a questa parte. 
Numerose, sono, qui, le carte di identità di militari greco-ciprioti: esse sono, nel loro insieme, una specie di monumento al “milite non-ignoto” e fanno venire alla mente una serie di domande: perché proprio quei militari, quali siano le circostanze della sottrazione di quelle carte di identità, cosa ha inteso significare la loro cattura e, quindi, la loro esibizione. Gli “oggetti militari da esposizione” rappresentano, in entrambi i casi, chiari esempi di “veicoli della memoria”, declinata come memoria nazionalista (e militare) e memoria divisiva (o della contrapposizione). 



Ad Atene, il Museo della Guerra è, di per sé, non solo per il suo contenuto, un luogo di tale genere di memoria: è stato realizzato durante il regime dei colonnelli e mostra i capisaldi del nazionalismo greco: aspetti della liberazione nazionale dall'Impero Ottomano, le gesta della Grecia durante le guerre mondiali, e, immancabilmente, una sala dedicata a “Cipro”, divisa in una sezione storico-archeologica e una sezione politico-ideologica, con aspetti legati alla presenza cipriota nella liberazione nazionale greca, la liberazione di Cipro dal potere imperiale britannico, mentre non compare nessun riferimento al colpo di stato contro il governo di Makarios, ispirato dalla giunta dei colonnelli, che fu tra le ragioni (pretesti) addotte dal governo turco ai fini della campagna (invasione) dell'isola. 
Tale approccio museologico, riscontrabile, con aspetti e cadenze diverse, in ciascuno dei tre casi, serve, al contempo, a preservare la memoria e a consolidare una sorta di “estensione artificiale” della memoria e, in questo senso, finisce per servire non tanto la “memoria”, quanto piuttosto una “ideologia”, concepita come vera e propria “manipolazione della memoria” stessa. 
Tanto è vero che nomi diversi vengono attribuiti ai medesimi fatti e circostanze: il “colpo” contro Makarios fu un'avventura nazionalista o non piuttosto, come asserito dai suoi ispiratori, un tentativo di “stabilizzazione” del Paese? L'intervento turco a Cipro, una invasione militare o, piuttosto, una “peacekeeping operation”, finalizzata a tutelare la minoranza turco-cipriota dalle violenze dei nazionalisti greco-ciprioti, come asserito, sino a tutt'oggi, dalle autorità e da gran parte dell'opinione pubblica turca? 
Il tema della contrapposizione della memoria, insieme con quello della fragilità della memoria, torna anche nelle relazioni successive. La memoria, viene ricordato, è qualcosa che ha a che fare con il passato ma che, nello stesso tempo, si volge (si proietta) nel futuro. 
Facendo riferimento alla sua installazione di video-arte, Marianna Christofides, illustra il significato della ripresa di un bambino che effettua capriole consecutive lungo tutto il percorso del muro che divide in due la capitale, Nicosia, tra il settore greco-cipriota (Lefkosia) e il settore turco-cipriota (Lefkoşa): l'apparente fissità (impenetrabilità) del muro fa da sfondo all'altrettanto apparente infinità (circolarità) delle capriole del bambino. 



Il muro di Nicosia, come tutti i muri residuati dai conflitti e dalle contrapposizioni del lungo XX secolo, conserva una fotografia del passato e ricorda che queste fotografie sono anche un tentativo di “limitare”, “confinare” o “manipolare” la memoria, che invece è, per sua natura, fluida, dinamica e cangiante. 
Il confronto con il passato non è in sé, semplicemente, una questione della “memoria”, ma allude continuamente alla posizione che ciascuno e ciascuna di noi decide di assumere in relazione a fatti, eventi e circostanze. Se una “raccolta” museale è, al tempo stesso, un archivio della memoria, allora i musei devono diventare aperti e vivi, luoghi in cui confrontarsi con il passato e prospettare un'immagine positiva per il futuro. 
Come ha ricordato, in chiusura, Nikola Radić Lucati, le raccolte e le mostre nei musei e nei luoghi di cultura, non possono sostituirsi ai media nel raccontare i fatti della realtà o nel creare una opinione pubblica diffusa; le esposizioni, semmai, hanno a che fare con la “rappresentazione” del passato o del presente e la “interpretazione” che l'artista offre di quel passato o di quel presente, ma anche di aspetti e contraddizioni della società. 
Il ruolo dell'arte può dunque servire a costruire una relazione tra l'artista e il pubblico e ad istituire un dialogo dentro la società, come un tentativo di scoprire nuove soluzioni o di aprire nuove vie.

* Info e biografie sugli artisti sono disponibili al sito: www.goethe.de/ins/gr/lp/prj/eri/ein/bsindex.htm .

giovedì 3 settembre 2015

Uno storico accordo: la Comunità dei Serbi del Kosovo

Zajednica Srpskih Opstina by Varjačić Vladimir CC BY 3_0 via Wikimedia Commons

Sebbene l'aggettivo sia perfino abusato, e il suo significato assai impegnativo imponga di disporne con estrema cautela, non c'è dubbio che il 25 Agosto del 2015 abbia rappresentato una giornata storica per la Serbia, per il Kosovo, per il miglioramento delle relazioni bilaterali e della vita quotidiana delle comunità kosovare (gli Albanesi Kosovari e i Serbi del Kosovo) e per un consistente avvicinamento della Serbia all'Unione Europea. 

Con gli accordi firmati in questa data, infatti, è mandato a compimento il più impegnativo, controverso e rilevante tra i punti previsti dagli Accordi di Bruxelles (Bruxelles Agreement), siglati, ormai più di due anni fa, il 19 Aprile del 2013, che prevedevano per la prima volta una piattaforma condivisa per la normalizzazione delle relazioni tra le due entità, la Repubblica di Serbia e il Kosovo, retto da un autogoverno a larga maggioranza albanese, che ha proclamato una propria indipendenza non riconosciuta dalla comunità internazionale ormai più di sette anni fa, il 17 Febbraio del 2008, e che, per il diritto internazionale e le Nazioni Unite, resta la provincia autonoma a maggioranza albanese della Serbia. 

Tale punto riguarda la cosiddetta Comunità dei Comuni Serbi del Kosovo o, in serbo, ZSO (la sigla sta per Zajednica Srpskih Opština, appunto Comunità delle Municipalità Serbe) mentre, in albanese, la dicitura corrente è piuttosto quella di Asociacioni i komunave serbe o Associazione dei Comuni Serbi: al di là delle designazioni, per le quali si farà di seguito riferimento a quella internazionalmente in uso, vale a dire di “Comunità dei Comuni Serbi del Kosovo”, si tratta della vera e propria “architrave” degli Accordi di Bruxelles, e, al tempo stesso, del cuore dell'autonomia serba all'interno del Kosovo, di cui, è bene ricordarlo, su una popolazione di circa due milioni di abitanti, i Serbi costituiscono una minoranza non superiore, secondo stime, al 7-8%, pari a circa 150 mila persone, di cui circa 120 mila all'interno del territorio della costituenda Comunità; una minoranza, al tempo stesso, diffusa sul territorio, con svariati problemi in termini di libertà di movimento, di circolazione e di espressione, ancora, come da più parti segnalato, sottoposta a minacce e vessazioni da parte di estremisti albanesi kosovari, e, inoltre, diffusamente enclavizzata. 

L'accordo raggiunto, a due anni dagli accordi originari e a circa un anno dall'inizio delle trattative sul punto, è frutto di una difficile mediazione, tra i rappresentati del governo serbo e dell'auto-governo kosovaro (nella fase finale le trattative sono state condotte in prima persona dai due “premier”, il premier serbo Aleksander Vucic e il primo ministro dell'autogoverno kosovaro, Isa Mustafa), sotto la mediazione, come di consueto, dell'Alto Rappresentante della Politica Estera dell'Unione Europea, Federica Mogherini, a Bruxelles. L'accordo raggiunto ha una portata effettivamente storica: prevede che la Comunità sia formata dalle dieci Municipalità a maggioranza serba del Kosovo (Kosovska Mitrovica, Zvecan, Zubin Potok, Leposavic, Gracanica, Strpce, Novo Brdo, Ranilug, Partes e Klokot), di cui solo due aree dotate di continguità territoriale (quella del Kosovo Settentrionale, con le Municipalità di Kosovska Mitrovica, Zvecan, Zubin Potok, Leposavic, e quella del Kosovo Orientale, tra i Distretti di Kamenica e Gjilane, vale a dire le Municipalità di Novo Brdo e Ranilug), per una superficie complessiva di circa 1200 km quadrati pari a circa l'11% dell'intera estensione del Kosovo. 

Da quanto si apprende, sia da fonti giornalistiche sia da riscontri dalla regione, l'accordo raggiunto consegna alla Comunità o ZSO una vera e propria autonomia (ovvero una “autonomia ampia ed effettiva”) nei campi dello sviluppo locale, dell'economia locale, delle infrastrutture di pertinenza locale, della istruzione e della sanità e, inoltre, assegna alla Comunità medesima una propria autonomia giudiziale, nel senso di avviare la costituzione di un “panel” di giudici a maggioranza serba nell'ambito della Corte di Appello di Pristina, per trattare le questioni giudiziarie relative alle municipalità serbe, e una “divisione” della medesima Corte di Appello da costituirsi a Kosovska Mitrovica, vale a dire quel settore della Municipalità di Mitrovica, a nord del fiume Ibar e separato dal resto della città dal noto “Ponte di Austerlitz” o “Ponte Principale”, abitato a larghissima maggioranza dai Serbi, il resto della città essendo invece ad amplissima maggioranza albanese. 

Non è forse un caso, che la “gestione” del ponte di Mitrovica sia entrata a pieno titolo anche nel confronto negoziale del 25 Agosto, raggiungendo, anche in questo caso, un accordo, per il quale si prevede che il ponte sia condiviso nella sua interezza tra le diverse comunità e aperto al libro passaggio pedonale, laddove oggi è ancora ostruito di fatto, dal cosiddetto “Parco della Pace”, in sostituzione delle precedenti barricate. 

Inoltre, l'autonomia della Comunità, o ZSO, è completata dall'istituzione delle figure del Presidente, dell'Assemblea, del Consiglio, e, inoltre, sarà dotata di un proprio stemma e di una propria bandiera, e sarà finanziata direttamente da Belgrado senza ulteriore aumento di tassazione. Qualcuno potrebbe obiettare che si ripete in Kosovo, con la stipula di questo accordo, un “modello bosniaco” in sedicesimo e che, pur riconoscendo il quadro legale vigente e l'integrità territoriale del Kosovo, l'accordo renda di fatto il Kosovo Serbo uno “Stato nello Stato”. 

Si tratta indubbiamente di una mediazione, forse della soluzione più efficace per garantire, con il riconoscimento dell'autonomia e dell'autodeterminazione, in un quadro legale, delle minoranze etniche, una prospettica di convivenza e coabitazione alle diverse comunità su quello che è il loro, comune, territorio.

mercoledì 29 luglio 2015

Ulpiana: monumental site and world heritage


Based on the Reportage by Zef Ndrecaj
Ulpiana in the hand of those who destroyed it
(the hand of  Turkish archaeologists)
http://www.revistadrini.com/?p=25013

Ulpiana is a city founded in the early II century by the Emperor Trajan. Ulpiana was a very famous Illyrian city, before the arrival of the Romans and the reconstruction after the invasion was only a continuation of the re-novation and the re-construction of Ulpiana as a city and an Illyrian settlement. The city is near the city of Pristina in today Kosovo.

Ulpiana10 di Atdheu - Opera Propria - Licenza CC BY-SA 3.0 - WIKI Commons


During the Roman occupation in the I century AD, Ulpiana was an extremely strong protective fortress from the Illyrian epoch and the Illyrian - Roman war caused a great damage of the city of Ulpiana. Roman rule brought a number of changes in cultural life and social life in Dardania. They arose towns, castles, villages, villas rustica, cult objects, as well as the ancient road network on the road routes of the previous Dardanian reign.

Even after the Roman conquest, among the most important cities, became Ulpiana again, now built on the devastating ruins that the invasion brought on it. That Ulpiana was an Illyrian settlement before the Romans as also testified by the recent discoveries in palafit residence, cemetery with Dardanian first phase ceramics and iron ornaments from IV century BC. These show that Ulpiana was filed on prehistoric layers Dardanian residence.

Goths invasions in Illyria, during the V century, would have included Ulpiana which again faced the experience of the greatest devastation by the earthquake that struck Dardania in 518 and caused great havoc and huge damage to the city. After the destruction, Emperor Justinian rebuilt the ruined walls and the destructed objects, while in tribute, the city was baptized with the name of new Ulpiana and “Secunda Justiniana” (Justiniana Secunda).

Walled city up to 3 mt. wide and with two semicircular towers of 27.5 mt. has irregular rectangle shape. It occupies the area of 35, 5 ha. About 50 mt. East of Ulpiana on VI century was raised a fortified settlement, which has identified with the city Justinopol. 

Ulpiana11.1 di Atdheu - Opera Propria - Licenza CC BY-SA 3.0 - WIKI Commons

 
In 1406, Prince Paul Dukagjini (1384-1446), referred to as "the wisdom", put on the top of the Principality of Dukagjini Ulpiana metropolis (new city founded again by him), which reigns on along with his brother Nikole Dukagjini, noted for his "bravery". Later on, in 1410 the heir Prince of Paul Dukagjini was born in Ulpiana, Leke Dukagjini, whose cultural background is supposed to be done in the most advanced developing centers of the time, such as Shkodra, Ragusa, Venice.

Dukagjini fought under the command of Skanderbeg against the Ottomans during the last two years of the legendary war of Skanderbeg. During times of peace they also fought against each another, as Albanian loyalties came and went during that period of their history. Dukagjini continued to fight with limited success against the Ottoman Empire, carrying on as the leader of the Albanian resistance after the death of Skanderbeg, until 1479, and becoming, with him, the most famous and welcomed Albanian Hero for Albanian People.

Overshadowed by the legend of Skanderbeg, Dukagjini is most well known for the set of laws ruling the highlands of Northern Albania, known as the "Kanuni i Lekë Dukagjinit". Although researchers of history and customs of Albania usually refer to Gjeçovi's text of the Kanuni as the only existing version which is uncontested, written by Lekë Dukagjini, it was actually incorrect. 

The text of the Kanuni, often contested and with many different interpretations which significantly evolved since 15th century, was only named after Dukagjini, not in the sense he effectively compiled the book but since his was the first attempt to collect and systematize customary norms of Albanian People. Whilst identifying Skanderbeg as the "dragon prince" who dared to fight against any foe, chronicles portray Dukagjini as the "angel prince" who, with dignity and wisdom, ensured the continuity of the Albanian identity.

It was estimated that in 1450 the capital of the Principality fell and the fighting that took place there completely destroyed Ulpiana. Evidence of the destruction and looting of everything from Ulpiana are the base in the Basilica in line with one more paleochristian basilica in Gracanica, close to Ulpiana buildings, whose foundations are made of reused stones, showing as well fragments of the “Stela Dardanian” inscriptions.  

Ulpiana16 di Atdheu - Opera Propria - Licenza CC BY-SA 3.0 - WIKI Commons

 
So the looting of the stones that Ulpiana basilica lasted in the centuries, helped raising the XIV century Gracanica monastery. Even this was a bargain between the Serbs and the Turks who had to do with the looting of everything from Ulpiana with the sole purpose to make radically disappear any autochthony Illyrian presence in that city. In 1458 Prizren, center of commerce and culture developments in the Principality of Dukagjini, fell, and, in 1458-1481, Leke Dukagjin built some strength in depth of his principality territories.

After the Turkish invasion on the big Illyrian centres, everything went to change for the structure of these cities. Construction of the Mosque of Sultan Murad, Sultan Pajaziti, Baths, etc. in the vicinity of Ulpiana - in today Prishtina - are recorded but also in other centers elsewhere Peja and Prizren.

Today we are not able, nor can restore a castle or a princely palace of Leke Dukagjin, while, much less, we could appreciate and admire what does not exist any more with superlatives: “the best in the world, in the Mediterranean, in the region”, because at that time “the castles in prosperous cities (Albanian) ... the mansions of monuments ... vanished from the earth ... remained as the beauty and the splendor of the old” (Fan Noli: 591-592).

As - again - this writing of Fan Noli, we not only care about the renovation but also allow the archaeological discoveries emanating from those who destroyed them, just those who looted, ransacked, and destroyed all that was Dardanian - Illyrian - Albanian.
 
Ulpiana17 di Atdheu - Opera Propria - Licenza CC BY-SA 3.0 - WIKI Commons


«Archaeological excavations conducted in 1953 allowed to bring to light the remains of the thistle, a temple, fortifications, some buildings and a basilica to one navata. It was detected a necropolis, in the north of the settlement, which returned epigraphs and several sarcophagi, which are still in situ, one of which in marble.

Shortage of funds, lack of specialized staff and location extremely uncomfortable have not allowed scientists to create a comprehensive study and a definitive one on this site, still used for cultivation by local farmers who, working fields, extract archaeological assets of every kind and involuntarily cause destruction of fragile or reversal stratigrafy. 

To these problems is added the presence of illegal immigrants who benefited from the total absence of police and the responsible for the area, stealing any finding to sell almost exclusively to foreigners.

During surveys to Ulpiana it has been possible to observe the deep state of degradation prevailing in the area of necropolis and the northern sector. In particular, some sarcophagi appear deliberately damaged for reasons still unknown. The covering slabs are also moved».

Ulpiana22 di Atdheu - Opera Propria - Licenza CC BY-SA 3.0 - WIKI Commons


So the research that will make the invaders showed we lose not only Ulpiana, but slowly we will lose history which makes us proud as being Illyrian, being Albanian. Today personally consider that invaders destroyed and killed us for 500 years. Dear reader once again the only question is ... 

Where are you going, this people, and what will be after a few year, in this nation? People disappeared in war but more in peace.

So, day by day, my people is dying, dying from that to not have history, and people without history is dead!

sabato 30 maggio 2015

Le ragioni di un peacekeeping civile non-governativo

Murals dedicated to Malala Yousafzai by N. Gemini Wikimedia 
Poco ci si sofferma, in generale, sull'importanza della commemorazione, ma oggi, 29 Maggio, è la Giornata Inter-nazionale del Peace-keeping delle Nazioni Unite, anche detta, in via istituzionale, la “Giornata delle Forze di Pace delle Nazioni Unite”, istituita, con Risoluzione 57/129, “per rendere omaggio a tutti gli uomini e le donne che hanno servito e continuano a servire nell'ambito delle operazioni di pace delle Nazioni Unite, per il loro alto livello di professionalità, di dedizione e di coraggio e, in particolare, per onorare la memoria di coloro i quali hanno perso la vita per la causa della pace”.
La data scelta è particolarmente impegnativa, sia per la sua rilevanza politica, sia per il suo valore simbolico. A poche settimane di distanza dalla data del 30 Marzo, nella quale i Palestinesi celebrano la “Giornata della Terra”, per ricordare la tragedia della occupazione e della colonizzazione israeliana della Palestina e per rivendicare il proprio diritto al ritorno e alla autodeterminazione, ricordando, in particolare, i tragici avvenimenti del 1976, quando i Palestinesi si mobilitarono per difendere il proprio diritto alla terra che sarebbe stata espropriata a favore dei coloni israeliani, il 29 Maggio, giornata internazionale del peace-keeping ONU, viene a ricordare il varo della missione internazionale, del 1948, destinata alla “Organizzazione delle Nazioni Unite dei Supervisori della Tregua” o “UNTSO”, con l'obiettivo di tutelare il piano ONU per la Palestina, travolto dalla guerra e dalla Nakbah del popolo palestinese, e di preservare una speranza di pace e convivenza. Come si vede, il destino del popolo palestinese, i diritti universali di autodeterminazione, di libertà e di non-ingerenza, in una parola di “pace con giustizia”, ed il principio del peace-keeping internazionale, in particolare di carattere civile e nonviolento, sono assai intrecciati, simbolicamente e concretamente.
Non sempre le missioni di peace-keeping delle Nazioni Unite rappresentano una storia di successo ma, senza dubbio, esse costituiscono una declinazione innovativa nei rapporti internazionali. Si tratta di una storia lunga e ricca, peraltro inedita nel sistema internazionale dei rapporti tra stati e comunità, che ha introdotto una innovazione forte nell'approccio alle controversie internazionali e nella prevenzione delle violenze belliche e che ha per la prima volta aperto la strada alla cosiddetta “diplomazia dei popoli”, un intervento sovra-statuale e non esclusivamente militare nella prevenzione dei conflitti armati e nella soluzione politica delle controversie internazionali.
Come in tutti i processi storici, d'altro canto, si alternano, parlando di peace-keeping internazionale, catastrofici fallimenti e “success stories”: la degenerazione della missione internazionale delle Nazioni Unite in Somalia, con il passaggio dalla UNOSOM I alla UNOSOM II, nel corso del 1993, ha portato non solo ad un deterioramento della violenza ma anche ad una diffusa instabilità, le cui drammatiche conseguenze sono ancor oggi più che evidenti; l'inconsistenza della recente missione internazionale in Kosovo, la UNMIK, varata all'indomani della Guerra del Kosovo del 1999 e, per gli aspetti legati alla promozione dello stato di diritto, ora sostituita dalla missione europea EULEX, non solo non è riuscita ad impedire le ripetute violenze etniche ai danni di persone, proprietà e beni, anche di grande valore storico e culturale, della minoranza serba ad opera di estremisti albanesi, ma non è neanche riuscita a stabilizzare l'autogoverno regionale e le prescrizioni della risoluzione 1244.
E' pur vero, d'altro canto, che l'insieme degli interventi di peace-keeping e peace-building delle Nazioni Unite rappresentano una valida alternativa alla politica di dominio delle singole potenze: come ha messo in rilievo il Worldwatch Institute, “da quando è stato inventato il peace-keeping, dopo la Seconda Guerra Mondiale, le Nazioni Unite hanno speso un ammontare di 124 miliardi di dollari per queste missioni, un importo che impallidisce in confronto anche ad un solo anno di spese militari mondiali, che hanno superato la soglia dei 1.800 miliardi di dollari. Gli eserciti del mondo non potrebbero operare neanche due giorni con il bilancio annuale del peace-keeping dell'ONU”.
Meglio delle singole missioni nazionali ad egida governativa, le missioni internazionali delle Nazioni Unite riescono a integrare funzioni civili, come l’assistenza allo svolgimento di elezioni democratiche, lo sviluppo di istituzioni democratiche, la riforma dei sistemi giudiziari, il monitoraggio dei diritti umani e la promozione del processo di pace; più delle singole missioni nazionali, esse hanno un tasso significativo di successo, in termini di conseguimento degli obiettivi istituzionali, pari al 70%. Quante missioni nazionali possono vantare delle percentuali analoghe?

venerdì 22 maggio 2015

Pace per decreto. La norma attuativa dei corpi di pace, tra traguardi e contraddizioni.

Ponte di Mitrovica, Kosovo, 2005
La pubblicazione in Gazzetta Ufficiale (Serie Generale n.115 del 20 Maggio 2015) del Decreto del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali recante misure inerenti alla «Organizzazione del contingente dei Corpi Civili di Pace, ai sensi dell'articolo 1, comma 253, della legge 27 dicembre 2013, n. 147», il cosiddetto, atteso, decreto attuativo di sperimentazione delle “azioni non-governative di pace” introdotte, nell'ambito del Servizio Civile Nazionale, con l'emendamento Marcon (SEL) in Legge Finanziaria 2014, segna, indubbiamente, una tappa rilevante nel percorso relativo alla sperimentazione e istituzionalizzazione degli interventi di pace della società civile del nostro Paese, dal momento che, insieme con l'appena citato emendamento, rappresenta il primo atto normativo compiuto, nel quadro della legislazione italiana, in materia di interventi civili di pace.
 
Il decreto attuativo viene così a rappresentare il momento culminante di una lunga stagione di impegno, nel corso della quale le formazioni della società civile organizzata, raccolte nelle reti tematiche impegnate sul tema della gestione nonviolenta e della trasformazione costruttiva dei conflitti (in primo luogo, la Rete Disarmo, la Rete della Pace, il Tavolo Interventi Civili di Pace), hanno maturato una progressiva evoluzione, impegnandosi nella riflessione sulle modalità ed i limiti dell'azione civile di pace, in Italia e all'estero, riflettendo sul carattere ed il profilo, le specificità e le caratteristiche, dell'intervento di pace della società civile italiana ed avanzando proposte volte alla sperimentazione sul campo e alla definizione normativa.
 
Non sarà del tutto inutile, a questo scopo, ricordare almeno, sotto il profilo della riflessione relativa alla impostazione generale, la redazione del documento, a cura degli attori del tavolo degli interventi civili di pace, dedicato a «Identità e Criteri degli Interventi Civili di Pace Italiani» (10 Giugno 2012), che, per la prima volta in Italia, ha definito le modalità dell'impegno nonviolento e le linee-guida per gli operatori di pace, impegnati in azioni, interventi e corpi civili di pace, in territorio nazionale e in ambito internazionale; nonché, sotto il profilo della sensibilizzazione pubblica e della promozione sociale, l'implementazione del progetto omonimo Info-EaS per la sensibilizzazione e l'educazione alla pace e alla gestione creativa dei conflitti, la costruzione di momenti di approfondimento e di advocacy a cura delle diverse organizzazioni delle reti tematiche e, in particolare a Vicenza, la realizzazione di un vero e proprio percorso di ideazione creativa per corpi civili di pace, sin dal 2011, in collaborazione con i gruppi e le associazioni della Rete CCP.
 
Né, certamente, meno importanti sono state le esperienze realizzate sino a questo punto dalle organizzazioni di società civile che, anche in un contesto di sostanziale vuoto normativo, almeno a livello nazionale, hanno saputo ideare ed innovare, sviluppando, nella concezione e nella pratica, esperienze pilota che hanno letteralmente aperto una prospettiva di futuro: dalle esperienze dei Caschi Bianchi e dei progetti di peace-keeping civile già incardinati, sin dal 2004, nell'ambito del servizio civile nazionale all'estero, sino al progetto “Raccogliendo la Pace” per interventi civili di pace in Palestina, a partire dal 2010, e al progetto dei “Corpi Civili di Pace in Kosovo” che, sostenuto dal Comune di Napoli nel 2011-2012, ha rappresentato un altro precedente importante, il primo progetto di un Ente Locale per Corpi Civili di Pace in zona di conflitto.
 
Su questo lungo ed esteso retroterra, viene dunque ad innestarsi l'articolato del decreto attuativo. Si tratta di un testo non occasionale né superficiale, articolato e dettagliato, che, attraverso nove articoli, definisce i caratteri salienti della sperimentazione delle azioni non-governative di pace, inquadrate nell'ambito del Servizio Civile, in base ai contenuti dell'emendamento Marcon. Tali articoli riguardano: la definizione e l'ambito di applicazione, i settori e le aree di intervento, la tipologia di progetti prevista, le caratteristiche e la formazione del personale, le disposizioni di sicurezza, il monitoraggio e la valutazione. Sin dai titoli e, a maggior ragione dalla lettura, vengono alla luce alcune tra le maggiori criticità e le più significative contraddizioni del testo del documento che, in estrema sintesi, riguardano proprio i temi della configurazione esclusivamente volontaria, delle aree di intervento e delle disposizioni di sicurezza. Procediamo con ordine.
 
Giustamente il decreto, nella sua premessa che è parte integrante del testo, dettaglia il quadro normativo di riferimento, sia a livello internazionale e comunitario, sia a livello nazionale, e opportunamente menziona, tra gli altri, il Rapporto del Segretario Generale delle Nazioni Unite «Una Agenda per la Pace» (17 Giugno 1992), la Risoluzione della Assemblea Generale «Sul diritto e la responsabilità degli individui, dei gruppi e degli organi sociali di promuovere e proteggere le libertà fondamentali ed i diritti umani universalmente riconosciuti» (8 Marzo 1999) e la Raccomandazione del Parlamento Europeo sull'istituzione di un Corpo Civile di Pace Europeo (10 Febbraio 1999). Non meno significativa, peraltro, la totale assenza di qualsivoglia riferimento alle sentenze della Corte Costituzionale che hanno, a più riprese, ricordato al legislatore la parità di livello tra la difesa civile e la difesa militare e l'esigenza di assicurare un'adeguata promozione ed un adeguato sviluppo alla difesa civile, a partire almeno dalla sentenza 164 del 1985.
 
Qui si innesta la prima contraddizione del decreto attuativo: recidendo il legame tra azioni civili di pace e difesa, in particolare difesa civile, si instaura una soluzione di continuità con il percorso che ha portato dalla obiezione di coscienza al servizio civile e dall'impegno per la pace e contro la guerra all'azione costruttiva per la promozione della pace e la prevenzione della guerra. Inoltre, si finisce per confermare non solo il primato, ma addirittura l'esclusiva del “militare” nel settore della difesa, relegando di fatto l'azione dei progetti, che saranno presentati in questa cornice normativa, ad azioni di solidarietà e di promozione sociale, pur se chiaramente legate ai temi della pace e dei diritti umani, slegate di fatto a compiti di prevenzione della guerra e della escalation. Se è vero che l'art. 2, comma 2, alle lettere a., b., c. ed e., adeguatamente elenca gli ambiti di impegno propri di tali azioni di pace (sostegno ai processi di democratizzazione, mediazione e riconciliazione; sostegno alle capacità della società civile locale per la risoluzione dei conflitti; monitoraggio dei diritti umani e del diritto umanitario; educazione alla pace), è pur vero che lo stesso comma, alla lettera d., inserisce “attività umanitarie”, genericamente intese, rischiando quindi di ulteriormente de-specificare il profilo ed il carattere di tali azioni di pace ed allontanandole dal “proprium” dei Corpi Civili di Pace.
 
La cornice che si è scelta per “inquadrare” la sperimentazione non è, d'altro canto, la più idonea o adeguata se si vuole traguardare, appunto, l'obiettivo dei Corpi Civili di Pace: si fa riferimento, infatti, come previsto nelle premesse normative ed esplicitamente segnalato dall'art. 4 del decreto, a giovani volontari tra i 18 e i 28 anni di età (art. 4, comma 1, lettera a.), in linea con il fatto che la sperimentazione si svolge attraverso progetti di servizio civile, in Italia o all'estero. Viene così messo in luce il duplice problema, di caratterizzare la sperimentazione esclusivamente nei termini dell'impegno volontario e di consegnarla ad una platea con un'età non superiore ai 28 anni. È appena il caso di ricordare che l'elaborazione condivisa all'interno delle reti e del movimento per i Corpi Civili di Pace ha portato a definire questi ultimi come una «azione civile, non armata e nonviolenta, di operatori professionali e volontari che, come terze parti, sostengono gli attori locali nella prevenzione e nella trasformazione dei conflitti (con l'obiettivo di promuovere) una pace positiva, intesa come cessazione della violenza ma anche come affermazione di diritti umani e benessere sociale». Non si tratta dunque -esclusivamente- di giovani volontari, ma di operatori professionali, professionisti e volontari.
 
Peraltro, a dispetto del fatto che, nella concezione condivisa dei Corpi Civili di Pace, questi ultimi «lavorano in squadra e prendono di norma decisioni strategiche e tattiche col metodo del consenso» e, inoltre, «possono attivare relazioni di collaborazione con altre ONG, …e istituzioni pubbliche, solo se tali rapporti non minano l'indipendenza e l'imparzialità della missione; con attori armati -regolari e non regolari- non sono ammesse forme di collaborazione o sinergia né scorta armata; può esserci dialogo finalizzato alla gestione nonviolenta del conflitto o scambio di informazioni sulla sicurezza, ove questo non pregiudichi la “legittimità nonviolenta” della missione, in termini di modalità d'azione e di ricezione presso le parti», il decreto attuativo “centralizza” le disposizioni in materia di sicurezza, rendendole persino cogenti per gli operatori.
 
Vi si legge infatti che «prima dell'impiego all'estero, i giovani volontari sono tenuti a partecipare ad attività di sensibilizzazione in materia di sicurezza organizzate dal MAECI (Ministero degli Esteri)» (art. 7, comma 2) e che «i giovani volontari partecipano a riunioni di sicurezza organizzate nella zona di intervento» su “disposizione” delle autorità italiane competenti (art. 7, comma 2). Come si evince chiaramente dalla lettura dei successivi commi 4 e 5, il MAECI è titolare unico della sicurezza del personale impegnato e può disporre misure non solo «in relazione alle condizioni di sicurezza prevalenti nel luogo» ma anche per -peraltro generiche- «gravi ragioni di opportunità». Preoccupante, inoltre, per progetti inquadrati in una così stringente cornice “governativa”, il riferimento del comma 6 in merito alla eventuale imputazione delle spese sostenute dall'amministrazione per il rimpatrio o altre azioni di soccorso. Da una parte, la figura classica del volontario in servizio civile; dall'altra, il ruolo preponderante del governo e una opzione esclusiva, da parte del governo, sul tema-chiave della sicurezza, tanto è vero che, a norma dell'art. 3 comma 3 del decreto attuativo, «i Paesi esteri in cui possono svolgersi i progetti sono individuati dal MAECI», minacciando non solo l'autonomia e l'unicità del rapporto di cooperazione tra gli attori dei diversi contesti, di provenienza e di destinazione, che condividono l'opzione nonviolenta nell'azione di prevenzione della guerra e di promozione della pace, ma prefigurando una ambigua e rischiosa sovrapposizione tra aree di destinazione delle azioni di pace e aree di proiezione degli interessi strategici del governo italiano. La stessa ambiguità e la stessa sovrapposizione che, come da più parti testimoniato, caratterizzano i profili di intervento tipici dei “Peace Corps” statunitensi.
 
In conclusione, pur recependo alcuni caratteri condivisi degli interventi di pace della società civile italiana, il decreto attuativo è lontano dal profilo dei Corpi Civili di Pace che intendono impegnarsi sul tema della trasformazione costruttiva e della “pace con giustizia”. Introducendo di fatto un ibrido all'italiana tra “Cascos Blancos” e “Peace Corps”, tale inquadramento normativo inevitabilmente finirà per ispirare due tendenze distinte, all'interno del movimento, a seconda che si aderisca o meno all'impostazione fornita dal decreto stesso.

lunedì 9 marzo 2015

Una proposta democratica e antifascista per l'Ucraina

Conferenza internazionale, il 12 Marzo, a Napoli 

La recente, e tuttora in corso, crisi ucraina può costituire un “caso di studio” singolare, sul modo come, nell'epoca della comunicazione in 140 caratteri e del dominio informatico dei media, odierna intersezione di guerra di “quarta” e “quinta” generazione, vengono letti le guerre e i conflitti e ricostruiti i fatti e le tendenze.
 
La guerra ucraina, molto più di altre vicende recenti e con qualche analogia, per alcuni aspetti, solo con la guerra del Kosovo del 1998-1999, rappresenta un formidabile esempio, da questa parte di quella che fu la “cortina di ferro”, di narrazione ideologica, in cui i fatti vengono accuratamente selezionati, le motivazioni proditoriamente nascoste, persino lo scenario dei fatti e dei protagonisti ampiamente mistificato. Torneremo dopo sulle analogie con l'aggressione imperialistica alla Serbia e la guerra del Kosovo. Conviene, sin dall'inizio, focalizzare gli elementi-chiave della tragedia ucraina, in modo da consentire un ordine alla lettura degli eventi, una precisazione dello scenario ed anche una qualche accuratezza nella ricostruzione dei fatti.
 
L'Ucraina non è nuova a sollevazioni di piazza come quelle che l'hanno accompagnata nel corso dell'inverno 2013-2014 e che sono poi culminate nel febbraio 2014: la più recente, tra quelle la cui eco perdura nella attualità, ha finito persino per assurgere a “paradigma” dell'insurrezione per la “libertà” e la “democrazia”, quando la cosiddetta “rivoluzione arancione” (2004) di Jushenko e Tymoshenko portò alla ribalta un nuovo potere (neo-liberale e filo-atlantico) e si concluse con una disfatta, dal momento che la sostituzione delle oligarchie al potere del Paese non soddisfece le aspirazioni che pure aveva suscitato e non concorse ad alcun miglioramento del regime di democrazia e di libertà di cui pure si erano riempiti gli slogan e le bandiere.
 
Il successivo ritorno al potere (2010) della frazione antagonista della borghesia dominante e delle oligarchie locali, insieme con i propri interessi materiali e le proprie ricadute territoriali, avrebbe dovuto di per sé mettere, una volta per tutte, in chiaro la fragilità e la delicatezza degli equilibri di potere in Ucraina: che è, al tempo stesso, uno “stato-limes”, a crocevia tra Oriente ed Occidente; uno “stato diviso”, tra una parte occidentale - a maggioranza ucrainofona e storicamente vicina all'Europa Centrale - ed una parte orientale russofona, storicamente legata alla Russia e ai suoi interessi; e uno “stato cuscinetto”, neutrale, non aderente alla NATO e “di fatto” non allineato, non avendo completato il proprio percorso di adesione all'Unione Euro-asiatica che invece vede già ad uno stadio avanzato altri Paesi ex sovietici, come la Russia, la Bielorussia e il Kazakistan, pur ospitando l'Ucraina, nella penisola di Crimea, una significativa presenza militare russa (Sebastopoli in Crimea, dove, dopo il golpe di Euro-Majdan, la maggioranza della popolazione ha votato largamente, in un referendum popolare tenuto il 16 marzo del 2014, per la confederazione alla Russia).
 
La stessa ricostruzione della insurrezione di “Euro-Majdan” svela la “falsa coscienza” dei circuiti occidentali legati all'Unione Europea e alla Alleanza Atlantica: è difficile leggere questa insurrezione, se non in alcune sue parti iniziali, come una sollevazione per la “libertà” e la “democrazia” nel Paese, essendo stata scatenata dalla mancata conclusione di un accordo negoziale che avrebbe dovuto portare l'Ucraina ad aderire non ad un semplice “Accordo di Associazione” con l'Unione Europea, bensì ad un “Accordo Globale Strutturato di Libero Scambio”, per la stipula del quale le cancellerie europee avevano tuttavia imposto alle autorità ucraine la liberazione immediata di Yulija Tymoshenko, colei che era stata una delle protagoniste della sollevazione arancione, poi salita al potere ed incriminata per corruzione, malversazione e abuso d'ufficio.
 
Si intravedono dunque, sin dall'inizio, tutti gli elementi che avrebbero determinato la precipitazione della crisi ucraina: le tensioni legate al suo avvicinamento verso l'Unione Europea e l'Alleanza Atlantica, lo scontro di potere interno con la questione etno-linguistica sullo sfondo e pronta ad esplodere (anche perché “economicamente strutturata”, dal momento che circa il 20% della produzione industriale del Paese è basata nell'Est russofono), le intromissioni interessate e le ingerenze esterne che avrebbero non solo configurato una grave violazione della sovranità ucraina ma anche un potente detonatore all'esplosione della crisi successiva.
 
In questa cornice, la “sollevazione di Majdan” diventa ben presto il “golpe di Euro-Majdan”: continui finanziamenti europei ed occidentali per sostenere la lunga durata della sollevazione; continui interventi in piazza di autorità e funzionari europei e nord-americani per sobillare la sollevazione e, finanche, incalzare la caduta del governo legittimo, e, infine, la vera e propria organizzazione militare della protesta con battaglioni dell'ultra-destra nazionalista e “banderista” (con aperte simpatie naziste, a partire da “Svoboda”, la cui denominazione originaria era quella di “Partito Nazionalsocialista di Ucraina”) a organizzare l'assalto ai palazzi del potere. Il resto è cronaca recente: il parlamento sotto schiaffo della sollevazione, la messa in stato di accusa ed il rovesciamento del governo legittimo allora in carica, l'avvento al potere di una nuova oligarchia, inquietante, un misto di neoliberismo e neofascismo in veste ucraina, nel cuore dell'Europa.
 
L'assalto, il 2 Maggio, alla Casa del Sindacato ad Odessa, ad opera di “Settore Destro”, altro gruppo neo-nazista nell'Ucraina attuale, è la pagina più tragica di questo scenario. Non solo per il suo portato simbolico, nel pieno della crisi ucraina e dello svolgimento militare che ha interessato le regioni centro-orientali del Paese, a cavallo tra due “luoghi” particolarmente simbolici della storia di questo Paese e di tutte le realtà democratiche, quali il Primo Maggio della Festa dei Lavoratori e delle Lavoratrici e il 9 Maggio della Festa della Vittoria, nella quale tutte le popolazioni ex-sovietiche celebrano la vittoria contro la barbarie nazista. Ma anche per il suo portato materiale, quello di una vera caccia all'uomo, culminata in una aggressione spietata che ha messo a ferro e fuoco l'intero Palazzo dei Sindacati e colpiti a decine i democratici e gli antifascisti che vi si erano rifugiati, dando corso ad una vera mattanza, segno plastico della barbarie che ha profondamente allignato fin dentro le stanze del potere a Kiev, sin dalla destituzione di Janukovich e subito prima delle presidenziali del 25 maggio che avrebbero sancito la presa del potere di Poroshenko e Jatseniuk.
 
Non che la violenza, nell'Ucraina del dopo-Majdan, si esprima solo in termini politici e militari, piuttosto essa si sviluppa in maniera altrettanto catastrofica sul terreno strutturale e culturale, come dimostrano l'apertura del nuovo governo, alle prese con il precipizio economico, l'inflazione galoppante e il crollo della valuta locale, ai piani di “aggiustamento strutturale” del Fondo Monetario Internazionale che minacciano di ripetere, in terra ucraina, gli esperimenti già compiuti in altri Paesi, portati al collasso materiale ed al depauperamento sociale; e come attestano le prime “iniziative” promosse dal governo golpista, dalla messa al bando del Partito Comunista di Ucraina, per ora sospesa in attesa di pronunciamento da parte delle autorità giudiziarie locali, peraltro, a loro volta, costantemente in tensione e sotto minaccia, fino alla proposta di mettere al bando, con una più recente proposta di legge “liberticida” e “maccartista”, la stessa “ideologia” comunista, nella propaganda e nei simboli, nella stampa e nelle effigi, nella sua divulgazione e diffusione.
 
Si tratta di colpi destinati ad incidere profondamente nel tessuto sociale e culturale di un Paese complesso, che, come si è detto, si regge su equilibri che sarebbe sbagliato ritenere “assicurati” una volta per tutte e su un retaggio della storia lungo e incisivo, portato dalla sua collocazione geografica e strategica, che porta tutte le popolazioni russofone a guardare, oggi molto più di ieri, all'indomani delle ingerenze euro-atlantiche e della aggressione militare sulle province orientali, molto più a Mosca che a Kiev. Quando, tra le iniziative liberticide ed ultra-nazionaliste, promosse dal governo golpista, vi è stata quella di minacciare direttamente ogni istanza di autonomia proveniente dalle regioni orientali e, perfino, di mettere al bando l'insegnamento e l'uso della lingua russa come lingua co-ufficiale sull'intero territorio nazionale, la reazione non poteva che essere decisa e la risposta non poteva mancare di manifestarsi prontamente, come poi è accaduto appieno.
 
Prima ancora delle ragioni geo-politiche, che determinano gli interessi russi e sono alla base dell'orientamento ufficiale russo nella vicenda ucraina, sono state infatti queste minacce alle libertà e ai diritti, in particolare nei confronti delle popolazioni del Donbass, ad avere fatto, letteralmente, precipitare la situazione. La guerra, lunga e sanguinosa, che ha opposto per quasi un anno l'esercito lealista, espressione del governo golpista con le sue milizie ultra-nazionaliste, tra i cui i famigerati battaglioni Azov e altri gruppi paramilitari di feroce ispirazione neo-nazista e “banderista”, contro le milizie autonomiste, variamente denominate “separatiste” (nei media occidentali) o “terroriste” (nella propaganda di regime), è stata una guerra perdurante e complessa proprio per questo sovrapporsi ed affastellarsi, sovente magmatico e complesso, di ragioni e di interessi.
 
Una guerra singolare, “vecchia” e “nuova” nello stesso tempo: non un classico esempio di guerra “per procura”, essendo profondamente locali le ragioni della contrapposizione (al netto dell'intervento statunitense e russo, in termini di equipaggiamenti e forniture alle contrapposte fazioni, e, nel caso occidentale, anche di consiglieri e di istruttori militari direttamente impegnati sul campo); ma anche, allo stesso tempo, una guerra, come non si vedeva da tempo, pienamente dispiegata su un nitido “campo di battaglia” e terminata con una netta vittoria sul campo, la campagna di Debaltsevo e la rovinosa sconfitta delle forse lealiste e golpiste.
 
Solo per alcuni aspetti, si diceva all'inizio, la campagna del Donbass mostra analogie con la guerra del Kosovo: da una parte, un'istanza di auto-determinazione che, a differenza del caso kosovaro, non si è concretizzata sulle armi dell'imperialismo (nessuna KFOR-NATO da queste parti) e che pure, di conseguenza, sembra possibile comporre sul terreno negoziale, alla luce degli Accordi di Misk-2; dall'altra, un nuovo tentativo per la NATO, dopo gli eventi balcanici, di ridefinire la sua capacità di proiezione e condizionamento e di aggiornare la nota teoria del “containment” e del “roll-back”, in chiave anti-russa, di antica memoria.
 
Oggi, a un anno di distanza dagli eventi di Majdan e alla vigilia degli svolgimenti attesi degli Accordi di Minsk-2, una prestigiosa conferenza internazionale, ospitata a Napoli, offre l'occasione per una riflessione puntuale ed un approfondimento di merito. Il convegno, dal titolo «Ucraina: ieri, oggi e ...domani? Per una proposta democratica e antifascista», promosso dalla Associazione “Russkoe Pole” con il supporto del CSV Napoli e del Comune di Napoli, è in programma giovedì 12 marzo, alle ore 16.00, presso la Sala “Giorgio Nugnes” nel Palazzo di Via Verdi del Comune di Napoli, alla presenza di Irina Marchenko, Ekaterina Kornilkova, Svetlana Mazur, Gianmarco Pisa (IPRI-Rete CCP), Francesco Santoianni (Rete Nowar Napoli), Carmine Zaccaria (WARP) ed Arnaldo Maurino, presidente della Commissione Educazione del Comune.