mercoledì 30 dicembre 2020

Sostegno alle vittime del terremoto in Croazia.

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Gravissimo il terremoto che ha sconvolto la Croazia centrale. La prima agenzia è battuta alle 12.35:

Un terremoto di 6.3 gradi della scala Richter ha scosso la Croazia martedì (29 dicembre) poco dopo mezzogiorno, secondo quanto ha riferito il Centro Sismologico Europeo-Mediterraneo.

Nelle ore successive il quadro della tragedia si viene via via delineando:

L’epicentro del terremoto che ha colpito martedì alle 12.19 è stato nella città di Petrinja, a circa 60 chilometri a sud-est di Zagabria, secondo quanto ha riferito il servizio di sismologia nazionale, aggiungendo che si possono prevedere danni ingenti. «L’intensità nell’epicentro di questo terremoto devastante è stimata in gradi VII-IX sulla scala EMS. Il terremoto potrebbe essere avvertito in tutta la Croazia. Si possono prevedere danni ingenti», ha twittato il servizio. Il centro del terremoto è collocato ad una profondità di 10 chilometri, mentre l’epicentro si trova a 46 chilometri a sud-est di Zagabria, nella città di Petrinja, situata nove chilometri a sud-ovest di Sisak, secondo quanto riferito dal servizio di sismologia. L’EMSC stima inoltre che circa sei milioni di persone abbiano avvertito il terremoto. Il Servizio Geologico degli Stati Uniti (USGS) stima che, a parte la Croazia, il terremoto possa essere stato avvertito in Austria, Bosnia Erzegovina, Germania, Italia, Montenegro, Rep. Ceca, Romania, Serbia, Slovacchia, Slovenia, Ungheria.

Si tratta di una delle regioni, tra l’altro, più belle di tutta la Croazia. Sisak, capoluogo della regione di Sisak-Moslavina, è famosa per la splendida Stari Grad (Città Vecchia) e per la sua singolare stratificazione storico-culturale: le note prevalenti del centro cittadino sono lo stile classico e lo stile art-nouveau. Il Ponte Vecchio sul fiume Kupa e il Veliki Kaptol sono tra i luoghi - simbolo, e, poco distante, il Museo Civico e il parco archeologico Siscia, con resti di età romana. Ma Sisak è importante anche per un fondamentale luogo della memoria jugoslava, lo Spomen Park di Brezovica, alle porte della città, completato da Želimir Janeš nel 1981, in memoria della Prima Unità Partigiana di Sisak, la prima politicamente organizzata della Resistenza. La poco distante Petrinja, sulla confluenza del Petrinjčica nel Kupa, ospita invece quattro bellissime piste ciclabili: la Zelena Dolina, la Kotar Šuma, la Strada del Lungofiume e la Strada delle Castagne.

Nella agenzia battuta alle 16.04 viene precisato il bilancio, in divenire, dei danni e delle vittime:

La polizia ha confermato che una bambina è rimasta uccisa nel devastante terremoto che ha colpito Petrinja a circa 60 chilometri a sud-est di Zagabria, e si aspettano ancora informazioni su quante persone possano avere subito ferite e sui danni causati agli edifici. Una bambina di tredici anni è rimasta uccisa a Petrinja. Per ora non ci sono informazioni ufficiali sui feriti, tuttavia, informazioni dovrebbero essere disponibili a breve. Secondo le scene raccolte sul campo, le strade di Petrinja sono piene di detriti e i soccorritori sono alla ricerca di sopravvissuti sotto le macerie. Circa 20 persone ferite sono state portate all’ospedale di Sisak e due di loro sono in gravi condizioni, secondo quanto ha riferito la TV N1 citando fonti ospedaliere. Il terremoto ha danneggiato anche diversi edifici nella capitale Zagabria, dove non sono, allo stato, segnalate vittime, secondo quanto riferito dal capo dei servizi di emergenza della città, Pavle Kalinic.

In questo momento, alle 17.00: Una bambina è rimasta uccisa e molti sono rimasti feriti nel grave terremoto che si è verificato martedì e si è fatto sentire a Sisak, Zagabria e in altre città croate e nei Paesi limitrofi, scrivono i media mondiali, sottolineando le drammatiche parole del sindaco di Petrinja che ha detto che la situazione nell’epicentro del terremoto è paragonabile ad una specie di Hiroshima. Il premier Andrej Plenkovic ha detto martedì a Petrinja che la maggior parte degli edifici nel centro della città sono inagibili a causa del terremoto e che il governo stanzierà più fondi per la ricostruzione. Ma al momento dell’invio del pezzo (18.00), le vittime sono già salite a cinque.

La Croce Rossa Croata ha aperto un fondo per aiutare le persone colpite dal terremoto a Petrinja e Sisak: tutte le informazioni si trovano in questa pagina
 
Gli aggiornamenti:  www.hina.hr/pretraga/Earthquake.

Il Radnička Fronta (Fronte dei Lavoratori) di Croazia ha diffuso tempestivamente un comunicato:

«Esprimiamo le nostre condoglianze alle famiglie delle vittime del devastante terremoto di oggi che ha colpito l'intera Croazia, in particolare Banija e Turopolje. Ci auguriamo che non ci siano più vittime nell'area colpita. Siamo vicini anche a tutti coloro i cui beni personali sono stati danneggiati. La zona più colpita è stata purtroppo devastata da 30 anni di negligenza statale, forse oggi meglio descritta dalle condizioni dell'ospedale di Sisak, attualmente in fase di evacuazione perché tutti gli edifici tranne uno sono vecchi e fatiscenti e ora gravemente colpiti e danneggiati dal sisma. Tali catastrofi mostrano quanto sia importante per noi come società investire nel sistema sanitario e in adeguati sistemi di protezione civile, e altri servizi sociali, ed essere solidali con i nostri vicini».

Condivisa infine una chiamata all’impegno collettivo per la solidarietà e il sostegno alle vittime. Condividiamo la richiesta che giunge dai volontari e dalle volontarie impegnati sul campo. Tutto va mandato a Petrinja. Ora siamo andati nei villaggi circostanti, le case delle persone sono state distrutte, è stata costruita una tenda improvvisata dove dormono, hanno bisogno di carburante per i generatori, di acqua e di cibo. Ci sono donne anziane in sedia a rotelle e bambini e bambine che dormono letteralmente nel prato. Le forze dell’ordine e tutti i servizi sono a Petrinja e nessuno si preoccupa dei villaggi circostanti, proviamo a mandare un messaggio per chiedere aiuti da consegnare alla gente. A Petrinja hanno consegnato pane e acqua mentre nei villaggi circostanti praticamente non c'è niente ...

Per chi può e per chi c'è. Le persone chiedono aiuto.

È stata condivisa la richiesta di aiuto per le vittime del terremoto. La pagina che indicata è la seguente: solidarna.hr/hitna-donatorska-akcija-zaklade-solidarna-i-fonda-5-5-solidarno-s-petrinjom-i-smz
 

mercoledì 2 dicembre 2020

Iconografie disperse. Jugoslavia, memorie degli eventi e creazioni monumentali.

Krumb77, Spomenik-Mozaik "Revoluciji", Ivanjica; Đorđe Andrejević Kun, 1957


La Festa della Repubblica, Dan Republike, è la festa nazionale della Jugoslavia Socialista, la celebrazione memoriale, pubblica, della Seconda Sessione dell’AVNOJ di Jajce (29 Novembre 1943) e della proclamazione della nuova repubblica jugoslava (29 Novembre 1945). Una festa, che ha sfiorato la soglia dei sessant’anni, come vedremo tra poco, ma che non esiste più. La prima celebrazione del 29 Novembre si tenne nel 1944; la celebrazione della giornata fu poi ufficializzata nel 1946; infine, con la fine della Jugoslavia Socialista, all’indomani della tragedia delle guerre balcaniche degli anni Novanta, non venne più celebrata negli Stati post-jugoslavi, con l’eccezione della “Terza Jugoslavia” (la Repubblica Federale di Jugoslavia, formatasi il 27 Aprile 1992 dall’unione di Serbia, con Vojvodina e Kosovo, e Montenegro), dove fu celebrata fino al 2002.

La Seconda Sessione dell’AVNOJ è una delle pagine salienti dell’epopea resistenziale jugoslava: si svolse il 29 Novembre 1943 a Jajce, in Bosnia, e portò alla costituzione dell’AVNOJ come organo rappresentativo con funzioni legislative ed esecutive della nuova Jugoslavia. L’impatto politico e organizzativo dell’evento non può essere sottovalutato ed è stato evidenziato come il programma dell’AVNOJ (la completa liberazione del Paese e la previsione del futuro assetto plurinazionale della Jugoslavia) non solo fu un fattore determinante nella Liberazione e per il futuro assetto istituzionale dello Stato, ma costituì anche un polo di attrazione della resistenza antifascista, consentendo al movimento socialista guidato da Tito di affermarsi come forza egemone.

Jajce, antica città medievale, al centro di lunghi combattimenti nel corso della guerra, fu una sede di conferenza di grande impatto simbolico. La Casa della Cultura fu letteralmente ricostruita dai partigiani, che provvidero ad allestirla, in poche settimane, per i lavori dell’AVNOJ. Fu anche una celebrazione simbolica: il podio era decorato con le bandiere della Jugoslavia, per la prima volta con la stella rossa, oltre che dell’Inghilterra, degli USA e dell’URSS; veniva issato, per la prima volta, il nuovo stemma della Jugoslavia; i ritratti alle pareti (Roosevelt, Tito e Stalin) furono dipinti dal grande pittore Djordje Andrejević Kun (1904 - 1964). A lui si devono, peraltro, anche i disegni degli stemmi della Città di Belgrado e della stessa Jugoslavia Socialista.

In quella sessione, non solo l’AVNOJ, Consiglio Antifascista di Liberazione dei Popoli della Jugoslavia, venne costituito come organo legislativo ed esecutivo rappresentativo della Jugoslavia e come rappresentante dei popoli jugoslavi, insieme con i comitati nazionali, con tutte le caratteristiche di un governo popolare di liberazione; ma si decise anche, insieme con il divieto del rientro in patria del re Pietro II Karadjordjević, di posporre la soluzione della “questione istituzionale” dopo la fine della guerra, quando una consultazione popolare avrebbe deciso se costituire una repubblica democratica o conservare la pre-esistente monarchia. In ogni caso, la futura Jugoslavia sarebbe stata costituita come unione statale di popoli liberi ed uguali.

La successiva, terza e ultima, sessione dell’AVNOJ si sarebbe tenuta nella Belgrado liberata nell’Agosto 1945. Ancora il 29 Novembre, a due anni esatti da quella leggendaria Seconda Sessione dell’AVNOJ, cioè nel 1945, l’Assemblea proclamò la costituzione della Repubblica Federale Popolare di Jugoslavia (RFPJ), poi trasformata, dal 1963, in Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia (RFSJ). La Jugoslavia divenne così, per la prima volta nella sua storia, un’organizzazione socialista plurinazionale di sei repubbliche uguali e dei rispettivi popoli e nazionalità su base di parità. Istituita la nuova forma di Stato, fondata la Jugoslavia Federale, e definita la nuova forma di governo, con un assetto plurinazionale e socialista, l’AVNOJ cessò di esistere e il 29 Novembre passò a diventare festa nazionale e fu inciso - 29 · XI · 1943 - sul nuovo stemma della Jugoslavia.

In questo stesso giorno, in questo 2020, una conferenza internazionale, online come sempre in questo periodo (Architecture. Sculpture. Memory. The art of Monuments of Yugoslavia 1945-1991), nell’ambito della omonima mostra itinerante, ha messo in luce l’oblio che grava sulla tutela di quel patrimonio storico-culturale, a partire dall’obiettivo dichiarato di «promuovere una ricognizione rispettosa del valore dei monumenti ex-jugoslavi e richiamare l’attenzione sul loro significato culturale, e quindi fornire supporto alla conservazione dei luoghi della memoria», nonché di «presentare il linguaggio creativo eccezionale, progressivo e tuttora contemporaneo degli artisti, che trascende la superficialità della ricerca del diverso o dell’esotico, del pittoresco e dell’ignoto.

«I monumenti sono infatti legami con il passato, ricordano la dignità della vita e della morte. E preservano il ricordo». Come ha ricordato il curatore, Boštjan Bugarič, «questi monumenti operano non solo come strutture astratte che ricordano un passato orribile e la vittoria contro il fascismo, ma anche come strumenti politici per articolare la visione del Paese di un nuovo domani». A fronte di progetti tesi a valorizzare la presenza dei luoghi della memoria nel loro contesto paesaggistico, si moltiplicano i casi di abbandono, tra carenza di politiche pubbliche di conservazione e «risemantizzazioni» più o meno abusive. Una pagina ancora aperta.

sabato 3 ottobre 2020

Agire, per la Pace

consensusafp, CC BY SA 4.0, commons.wikimedia.org


È davvero il caso di dedicare alcuni minuti del nostro tempo ad una lettura attenta e riflessiva dell’ultimo contributo tematico di Jan Oberg, che opportunamente il Centro Studi Sereno Regis ha pubblicato lo scorso 25 settembre, con il titolo, in italiano, «Il discorso smarrito sulla pace e le arti come possibile via d’uscita?». Jan Oberg non è nuovo a studi e riflessioni di tale profilo: cofondatore del TFF, il Transnational Foundation for Peace & Future Research, una delle realtà internazionali più solide nel campo della ricerca-azione per la pace, ispirata al motto galtunghiano della costruzione della «pace con mezzi pacifici», Jan Oberg è docente, come si direbbe in italiano, di Scienze per la Pace (Peace Studies), professore presso l’Università di Lund, già direttore dell’Istituto di Ricerca per la Pace del medesimo Ateneo (Lund University Peace Research Institute, LUPRI), in passato membro anche del Comitato per la Sicurezza e il Disarmo del governo danese. Esperto nella ricerca-azione, si è impegnato in iniziative e mediazioni di pace in ex-Jugoslavia, Georgia, Burundi, Iraq e Siria.

È questo il retroterra sul cui sfondo torna, nel “saggio breve” sopra richiamato, a interrogarsi (e interrogare noi in senso ampio, come comunità degli operatori e delle operatrici di pace e come opinione pubblica mondiale) su un paio di grandi questioni. Conviene passarle in rassegna, per estrarne il nucleo e portarne in evidenza la riflessione. Prima questione: la scomparsa della “pace”. Si tratta della sua riflessione di apertura ed è, al tempo stesso, il nodo con cui da decenni le forze e i protagonisti del movimento dei movimenti e, in particolare, dei movimenti per la pace e contro la guerra, si trovano a confrontarsi: «il discorso sulla pace o per la pace è prevalentemente sparito negli ultimi 20-30 anni. Vale per la ricerca - e le sue possibilità di finanziamento non-governativo - per la politica in generale e i media. Nella politica estera e di sicurezza, il livello intellettuale è ora tale che non pare neppure strano ai decisori di non procurarsi mai consigli sulla pace o consultare esperti di pace. L’ipotesi fantasiosa è che solo se ci sono sufficienti «mezzi di sicurezza» militari applicati ad abbastanza problemi della società, si instaurerà allora, automaticamente, la pace».

Si tratta di un’osservazione puntuale e pertinente, che rappresenta la condizione reale attuale, ma della quale è opportuno focalizzare le radici in profondità. La “militarizzazione” è diventata sempre più una dimensione profonda, strutturale, delle modalità di organizzazione delle relazioni sociali e dello spazio pubblico; capitalismo, patriarcato e militarismo sempre più intensamente si affermano come aspetti della medesima dinamica, una dinamica strutturale, che finisce inevitabilmente per generare anche radicali impatti culturali, nelle percezioni e nelle aspirazioni, negli immaginari e nei cosiddetti «stili di pensiero». Non solo l’approccio militare è diventato e continua sempre più ad essere l’approccio fondamentale ed essenziale nelle relazioni internazionali e nelle controversie internazionali (pensiamo solo alle politiche sulle migrazioni e alla continua, perfino ossessiva, associazione del tema “migrazioni” con il tema “sicurezza”). Ma anche funzioni e compiti del tutto “civili” vengono sempre più gestiti con strumenti e capacità “militari” lasciando trasparire una modalità o un disegno di continua rifunzionalizzazione e legittimazione del militare (esempi a iosa, dai soldati nelle strade a gestire l’ordine pubblico, alla protezione civile – appunto, civile – sostanzialmente affidata ai militari, fino alla presenza dei militari con funzioni di docenti o divulgatori nelle scuole, aspetto al quale ci richiama opportunamente la campagna del MIR per le «Scuole Smilitarizzate», contro «la presenza e l’incremento, in ambito scolastico, di molteplici attività, iniziative e progetti, in collaborazione con le Forze Armate e quindi in palese contrasto con le finalità educative, formative e culturali dell’istituzione scolastica»).

Seconda questione: la concretezza della “pace”. Si tratta, a leggere tra le righe, di un’allusione, neanche troppo velata, anche alle nostre responsabilità. Ancora parafrasando Galtung, sia in omissioni (tutte le volte che tutti questi eccessi di militarizzazione, in fondo, non ci hanno disturbato più di tanto), sia in azioni (tutte le volte che non ci siamo sforzati di immaginare la pace come da «costruire», più che da «declamare»). «Il 95% della gente in Occidente dedica il 95% delle proprie energie al mondo così com’è - criticando questo o quello, facendo diagnosi e prognosi, predicendo catastrofi, emanando avvertimenti e combattendosi reciprocamente sulla giusta interpretazione o montando cospirazioni e propaganda. Ma una tale energia negativa non ci porterà da nessuna parte». Durante una presentazione di un volume, qualche anno fa, mi sono imbattuto anch’io in quella spiacevole sensazione che nasce dalla sorpresa del tuo interlocutore: «Neanche sapevo che esistesse un lavoro come operatore di pace!». Ma il discorso si potrebbe estendere: quante volte la nostra azione è solo proclama e testimonianza, e si miscela con la propaganda e con la velleità? Forse, pensare alla pace «in azione» è un buon punto di partenza per cominciare a interloquire con quelle riflessioni, così esigenti, che il testo ci sollecita. 
 

mercoledì 30 settembre 2020

«I morti aprono gli occhi ai vivi».


Jasenovac, un «luogo della memoria».

Da Zagabria

Da Zagabria a Jasenovac il viaggio, servendosi del trasporto pubblico, non è semplice. Una successione di autobus o, meglio, almeno un paio di treni. C’è un cambio a Novska. Per la giornata scelta e per l’orario del viaggio, mi tocca la tratta con cambio a Sunja. Sunja è un villaggio, quasi a metà strada tra Jasenovac e Sisak, il cui parco, a Brezovica, ospita uno dei complessi memoriali dell’epopea partigiana sopravvissuti alle furie revisioniste e iconoclaste degli anni Novanta. Anche qui, nel villaggio di Sunja, appena fuori dalla stazione, sopravvive una scultura toccante, nello stile proprio del “realismo socialista”, quasi una fotografia che coglie il momento supremo di un partigiano, uno delle migliaia di eroi senza nome, della liberazione antifascista, solido presupposto memoriale del socialismo della Jugoslavia. Nei piccoli centri sopravvive, a volte, una memoria che le città hanno relegato all’oblio.

Lo scenario del viaggio rende onore al nome: Jasenovac, da “jasen”, significa «bosco di frassino», e una vasta area tagliata dalla linea ferrata è circondata da questi alberi, slanciati ed eleganti. Tra i rovi di una stazione praticamente abbandonata e di un edificio decrepito, ci si deve fare largo per raggiungere la strada, un esercizio di equilibrio e di cautela tra i mezzi pesanti in corsa. Ci si allontana dal paese, che si immagina poco distante per lo svettare di un campanile, per avvicinarsi al parco memoriale. C’era un campo di concentramento, a Jasenovac, attivo durante il regime genocida dello stato quisling, denominato, con menzognera puntigliosità, Stato Indipendente di Croazia. Una di quelle pagine della storia che chiamano in causa le responsabilità dell’Europa degli anni Trenta e Quaranta: capo dello stato, fino al 1943, un Savoia, il principe Aimone, duca d’Aosta; capo del governo e poi capo assoluto del famigerato regime, Ante Pavelić. Il movimento degli Ustaša aveva profondi legami ideologici con il nazismo in Germania ed era stato ampiamente sostenuto dal fascismo in Italia. Serbi, Ebrei, Rom; antifascisti, comunisti, partigiani; tutti, in gran numero, sono stati detenuti e uccisi nel campo, orribile e infamante, di Jasenovac. Era stato aperto nell’agosto del 1941 e diretto, per primo, da “Fra’ Satana”, quell’inquietante figura di frate criminale che rispondeva al nome di Miroslav Filipović. Ironia della storia: Miroslav, in serbo, sta per «colui che celebra la pace».

Sono tanti i frammenti che vengono alla memoria quando si prova a inquadrare la tragedia del regime ustaša, il fanatismo del nazionalismo etnico, l’orrore del concentramento, della segregazione e della pulizia etnica. Il programma razziale, ad esempio, in base al quale, nella “Grande Croazia”, un terzo dei serbi doveva essere “liquidato”, un terzo espulso, un terzo convertito con la forza al cattolicesimo. Oppure, il programma nazionale, in forza del quale lo stato croato sarebbe stato rifondato «con la lama e la rivoltella, la mitraglia e la bomba». Fino ad una polemica più recente, a suo modo significativa, sul “culto della memoria” e le strade che ancora restano intitolate, in diverse città croate, a Mile Budak, uno dei principali ideologi del regime ustaša. Il massacro fu tale, spaventoso per dimensione e proporzioni, che il numero esatto delle vittime non è mai stato determinato con esattezza. Una commissione jugoslava, a guerra finita, rese nota, in un rapporto al Tribunale Militare Internazionale di Norimberga, una cifra tra le 500 mila e le 700 mila vittime. Oggi si parla di centomila vittime. Da un’altra parte si può leggere che, a Jasenovac, i croati non soffrirono perché croati, né i musulmani perché musulmani, ma in quanto antifascisti, democratici, comunisti, o perché “colpevoli” di avere aiutato serbi, antifascisti, partigiani. Il conflitto sui numeri e la contrapposizione delle narrazioni è, sempre, uno dei frutti avvelenati della guerra.

Oggi il “Fiore di Pietra”, la scultura monumentale, bellissima, del grande artista jugoslavo Bogdan Bogdanović, uno dei capolavori del “modernismo socialista”, non è solo una rappresentazione simbolica della vita che rinasce dal fondo della morte, che qui così pesantemente ha imperversato; è anche una vera e propria celebrazione della resistenza e della liberazione. Al di là, per intenderci, delle riscritture revisioniste o riduzioniste che pure fanno breccia nella ricostruzione museografica del poco distante Museo, per questo oggetto di critica. È stata una notizia non da poco scoprire che, ad inaugurare il nuovo parlamento serbo, in qualità di “deputato anziano”, è stata, quest’anno, Smilja Tišma. Oggi più che novantenne, Smilja Tišma è una «bambina di Jasenovac». Vado a riprendere un pezzo di una sua intervista di qualche tempo fa: «Dicono sia un museo - ma non è un museo. Ho visto un pannello che afferma che sessantanove mila persone sono morte nel campo di sterminio di Jasenovac. Questa è solo una parte del numero reale. I serbi sono collocati al settimo posto nella lista dei gruppi uccisi, dopo altri, come sloveni e slovacchi, che di fatto costituivano una piccola percentuale delle vittime e che sono stati uccisi a causa della politica, non a causa della etnia, mentre centinaia di migliaia di serbi sono stati assassinati nel tentativo di eliminare il popolo serbo. La mostra non nomina nemmeno un leader ustaša; non mostra nessuna delle orribili armi dei crimini degli ustaša; non mostra alcuna prova del ruolo chiave della chiesa cattolica». All’ingresso del Museo, l’Installazione dedicata alle vittime del fascismo a Jasenovac, opera del grande scultore Dušan Džamonja, un altro campione del modernismo e dell’astrattismo jugoslavo, del quale avremmo poi interrogato quel capolavoro, spettacolare e negletto, che fa mostra di sé a Zagabria, il “Monumento alle Vittime del Dicembre”, in memoria degli antifascisti impiccati dai criminali ustaša il 20 dicembre del 1943. Sorprende la densità di questo spazio. Jasenovac finì poi nella Repubblica Serba della Krajina durante il conflitto più recente, quello degli anni Novanta. Ancora guerra e ancora devastazione.

Con la fulminea e terribile “Operazione Tempesta”, la Krajina fu sbaragliata, Jasenovac recuperata, a seguito delle operazioni militari croate, dall’intera regione di Dalmazia e di Slavonia 250 mila serbi furono, alla fine, costretti alla fuga. È necessario lasciarsi alle spalle i memoriali della guerra mondiale per interrogare i memoriali della più recente devastazione. È un crescendo, avviandosi, finalmente, verso il paese. Due strade si allontanano dallo “Spomen Park”, una poco più che sterrata, una sequela di edifici diroccati e di case distrutte da bombe e granate, crivellate di colpi e proiettili, case di serbi costretti alla fuga e all’abbandono dei lori beni che, qua e là, ancora fanno capolino tra le tegole scrostate e i mattoni diroccati. L’avvicinarsi al nucleo del paese è segnato dalla storica chiesa ortodossa dedicata alla Natività di San Giovanni Battista. È una chiesa nel tipico stile della metà o della seconda metà del XVIII secolo, organizzata intorno ad un impianto a navata unica, in stile barocco, con un ampio spazio semicircolare riservato all’altare, dominato oggi da una recuperata, bella, iconostasi, mentre, all’ingresso, svetta l’alto campanile, il punto di riferimento del tratto di andata, che avevamo intravisto uscendo dalla stazione.

Incendiato e distrutto dagli ustaša «fino alle fondamenta», già nel 1941, con una perdita di patrimonio incolmabile, distrutta l’iconostasi, vandalizzati gli arredi, bruciati i libri, saccheggiati i tesori, distrutti gli oggetti religiosi. Come spesso succedeva, fu anche luogo di prigionia; poi, all’inizio del maggio del 1942, praticamente tutte le famiglie serbe di Jasenovac furono mandate al campo, poco distante. Il delirio nazionalista riprese corpo negli anni Novanta. Nel 1991, il tempio viene danneggiato dagli assalti delle milizie a colpi di granata. Nel 1995, viene nuovamente colpito e devastato. Nel 2000, finalmente, prende avvio una vasta ristrutturazione. Oggi è luogo di culto, e preserva memoria, e luogo di incontro, per la piccola comunità serba del villaggio. In base al censimento del 1991, Jasenovac contava 3.600 abitanti; al censimento del 2011, meno di 2.000; sembra che due terzi della comunità del villaggio abbia più di 60 anni. La comunità serba è sempre stata una presenza storica del paese, oggi il 95% della popolazione è croato. Nessuno sa dire quanti siano oggi esattamente i serbi, con tutta probabilità alcune decine. Il racconto, che si svolge fuori e dentro le mura della chiesa, alterna e, talvolta, confonde gli eventi della guerra passata con la guerra recente, genocidi e massacri, preserva memorie e custodisce segreti, che intersecano morte e oblio, speranza e rinascita.

Durante l’attività del campo di Jasenovac, gli abitanti vivevano in regime speciale, perché “zona speciale” del campo, circondata. Jasenovac, secondo forse solo al complesso concentrazionario nazista dell’Europa Centrale, era il nodo del progetto concentrazionario ustaša. L’8 maggio 1942 la popolazione serba di Jasenovac fu portata al campo di Ciglana e le case saccheggiate e distrutte; le donne e i bambini furono invece deportati al campo di Stara Gradiška; gli uomini poi anche nel campo di Zemun, nell’area della Vecchia Fiera di Belgrado, Staro Sajmište, da dove furono poi deportati in Germania. Anche Staro Sajmište è un luogo della memoria di indubitabile potenza; purtroppo, ancora aspetta una adeguata sistemazione e un museo memoriale del lager, del quale si dibatte da anni. Il destino degli abitanti di Jasenovac era intrecciato all’attività del campo: hanno assistito al trasferimento dei detenuti; hanno sofferto le devastazioni della guerra e dello sterminio; hanno cercato di aiutare, per quanto hanno potuto, spesso a costo della propria vita: un pezzo di pane, un messaggio, una cortesia. Tra il 1941 e il 1945, 367 abitanti di Jasenovac furono uccisi nei campi, nelle prigioni e sotto le armi; tra questi, 54 bambini di meno di 12 anni. La tragedia dei bambini andava a prendere forma oltremodo macabra nei campi loro riservati, a Sisak e Jastrebarsko.

Una donna e un bambino compongono un altro memoriale, oltre la chiesa ortodossa, poco distante dalla chiesa cattolica, in quello che, finalmente raggiunto, si può considerare il centro del paese. Il Monumento onora la memoria degli abitanti di Jasenovac morti nella guerra mondiale, l’opera è di Stanko Jančić, la grande lapide porta la scritta: «I morti aprono gli occhi ai vivi», e l’iscrizione il ricordo per «le vittime del terrore fascista e i combattenti di Jasenovac». «I morti aprono gli occhi ai vivi». Il numero di quei 367 è inciso sulla pietra. Che resti a memoria. La strada verso la stazione chiude questo “circuito del ricordo”: porta il nome di Vladimir Nazor, una delle grandi figure del socialismo jugoslavo. Durante la guerra, presidente del comitato antifascista di liberazione nazionale della Croazia, poi, con Tito, presidente del parlamento croato; insieme, grande scrittore e poeta. Non solo una figura della celebrata «fratellanza e unità» jugoslava, ma anche da più parti ricordato come socialista e umanista. Torna, anche nel suo profilo, un messaggio così profondamente attuale, che lega le ragioni dell’umanità e della fratellanza alle speranze della trasformazione e della liberazione da ogni forma di oppressione, della giustizia e della libertà. 
 

sabato 11 luglio 2020

Srebrenica: 11 Luglio 1995 - 11 Luglio 2020


Michael Büker, CC BY SA 3.0, Wikimedia Commons, id.6405664


Le tappe della tragedia di Srebrenica sono ben note. Dal 16 Aprile 1993, la Risoluzione 819 rafforza la presenza del peace-keeping militare delle Nazioni Unite nelle città e nelle aree limitrofe; dal 6 Maggio 1993, la Risoluzione 824 istituisce le «zone protette» nell’area di Sarajevo, Tuzla, Žepa, Goražde, Bihać e Srebrenica; dal 4 Giugno 1993, la Risoluzione 836 autorizza l’uso della forza per la scorta degli aiuti umanitari e la difesa delle «zone protette» in Bosnia. 

Sebbene delimitata e demilitarizzata dopo gli scontri che già vi si erano registrati tra il 1992 e 1993 e dopo la promulgazione delle Risoluzioni ONU, le milizie bosniaco-musulmane, sotto il comando di Naser Orić, continuavano a tenere armi all’interno della zona protetta a dispetto di quanto sancito dall’accordo di cessate il fuoco: le rappresaglie e le stragi da questi ordinate contro i villaggi serbo-bosniaci, tra le quali l’eccidio di Kravica, nella notte del 7 Gennaio 1993, in occasione del Natale Ortodosso, assunsero il carattere di una vera e propria pulizia etnica, con stime che, a seconda delle fonti, variano tra i 705 e i 3.200 serbo-bosniaci uccisi tra il 1992 e il 1995. 

Se rispondeva al fine di sfollare le enclavi musulmane nel territorio a maggioranza serba della Bosnia Orientale, l’eccidio di Srebrenica maturò anche come reazione alle stragi precedenti da parte bosniaca musulmana e si inscrive nella logica perversa della campagna contrapposta di pulizia e contro-pulizia etnica. L’esercito serbo-bosniaco, sotto il comando di Ratko Mladić, entrava in città l’11 Luglio 1995. I morti furono migliaia, le cifre stimano le vittime tra le 3.568 (delle perizie analitiche dell’ICTY al 2001) e le 8.372 (dell’elenco del Memoriale di Potočari al 2015), la gravità dei fatti è innegabile. L’insieme degli eventi e la pulizia etnica avente epicentro a Srebrenica restano, senza dubbio, tra le pagine più sconvolgenti del nostro tempo. 

Nel giro di sei mesi, la guerra di Bosnia finisce e comincia la lunga stagione, non ancora conclusa, della «pace fredda» e della «costituzionalizzazione» dei rapporti sul campo, sia in termini di acquisizioni territoriali, sia in termini di separazione in entità mono-etniche autonome. L’accordo, stipulato a Dayton (Ohio) il 21 Novembre 1995, sancisce l’intangibilità delle frontiere esterne sulla linea di confine fra le repubbliche ex-jugoslave e la divisione interna della Bosnia (BiH) in due entità distinte: la Federazione di Bosnia ed Erzegovina (51% del territorio, 10 cantoni e 92 municipalità) e la Republika Srpska (49% del territorio, 7 regioni e 63 municipalità), al cui interno si staglia il distretto autonomo di Brčko. Le due entità sono entità statali a tutti gli effetti, dotate di poteri autonomi, salvo la politica estera, la difesa e la moneta. 

Nel 2015, in occasione del ventennale, nella seduta convocata per commemorare il ventesimo anniversario delle uccisioni e della pulizia etnica di Srebrenica, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite respinge, con il voto contrario della Russia, una risoluzione, fortemente promossa soprattutto dalla Gran Bretagna, con l’obiettivo di sottolineare che i tragici eventi potevano e dovevano essere qualificati come “genocidio”, definizione, nel caso di Srebrenica, controversa, e come prerequisito per la riconciliazione nazionale in Bosnia Erzegovina; nonché al fine di riaffermare l’importanza delle lezioni apprese dai limiti mostrati dalle Nazioni Unite nel prevenire l’eccidio e la sua determinazione ad adottare azioni efficaci per prevenire il ripetersi di tragedie di tale natura attraverso i mezzi a propria disposizione. 

Significativa la motivazione addotta dal rappresentante russo in Consiglio, Vitaly Churkin, che rimarcava come la Russia abbia sempre «chiesto indagini sui crimini commessi contro tutte le comunità etniche durante il conflitto nei Balcani. Il mondo ha l’importante compito di costruire pace, riconciliazione e stabilità nella regione ricordando il processo di pace di Dayton. La Russia accetta una risoluzione commemorativa basata sull’esigenza di andare avanti. Tuttavia, il progetto britannico è stato presentato in modo da cercare di attribuire la colpa a una sola comunità. Il popolo della Bosnia Erzegovina - e non solo - ha reagito alla bozza in modo molto doloroso. 

«Il ruolo del Consiglio è di rafforzare la pace e la sicurezza internazionali; lasciare quindi che gli storici giudichino gli eventi e che i tribunali emettano i verdetti. L’adozione di un documento distruttivo, in un momento simile, sarebbe controproducente, con ciò invitando i proponenti a non metterlo ai voti. Altrimenti, la Russia sarebbe stata obbligata a votare contro. Tale posizione, tuttavia, non sminuisce in alcun modo la sensibilità del Paese nei confronti del dolore delle vittime». 

Esattamente la tesi strumentalmente sostenuta, invece, dalla rappresentante USA, Samantha Power, per la quale sarebbe opportuno paragonare «i negazionisti del genocidio di Srebrenica ai negazionisti dell’Olocausto, poiché il rifiuto di riconoscere tali crimini non solo ferisce le vittime, ma la riconciliazione stessa». Una vera e propria “strumentalizzazione” delle vittime, di tutte le vittime, della guerra di Bosnia. 

venerdì 24 aprile 2020

Israele: un accordo sotto l’egida del «Piano Trump»

Trump «Peace Plan», Map Attached, Public Domain

Raggiunto, finalmente, l’accordo in Israele, dopo tre estenuanti campagne elettorali, per un governo di “unità nazionale” che, presentato come «governo di emergenza nazionale», rischia di trasformarsi invece in un vero e proprio «governo di emergenza democratica». L’accordo tra i due partiti maggiori, il Likud del premier uscente Benjamin Netanyahu (che alle ultime elezioni aveva ottenuto il 29% dei voti e 36 seggi), il partito più consistente nel variegato schieramento della destra nazionale israeliana, e il Kahol-Lavan o «Blu-Bianco», dell’ex capo di stato maggiore della difesa, Benny Gantz (che nell’ultima tornata elettorale aveva ottenuto il 27% e 33 seggi) non corrisponde, infatti, semplicemente, alla volontà di intercettare un’ampia base parlamentare a sostegno del governo, ma, più profondamente, ai desiderata di ampia parte dell’establishment israeliano per una soluzione utile a portare i due partiti maggiori ad una corresponsabilità nelle scelte del governo e ad una sostanziale conservazione degli equilibri politici e istituzionali, in una parola, dello status quo.

Lo ha dimostrato, alla vigilia dell’accordo, tra le altre cose, la scelta del presidente della repubblica, Reuven Rivlin, di non concedere un prolungamento del mandato esplorativo per la formazione del nuovo governo a Benny Gantz, ma di rimettere la scelta alla Knesset, in modo da sollecitare i parlamentari a individuare una soluzione, nel termine dei 21 giorni previsti dalla legge. E infatti, in una lettera, indirizzata a Gantz, riportata dai media israeliani, così Rivlin motivava il rinvio alla Camera: «alla luce della situazione che la terza tornata elettorale ha prodotto, nella quale nessuno dei candidati gode del sostegno della maggioranza dei membri della Knesset […], ed essendo obbligato dalla Legge Fondamentale del 2001 a realizzare il più presto possibile un governo che goda della fiducia della Knesset, non vedo altra possibilità che affidare il compito alla Knesset» augurandosi al contempo che i deputati «riescano a formare una maggioranza tale da dare vita a un governo il più presto possibile e impedire una quarta tornata elettorale».

Se è vero che la quarta tornata elettorale consecutiva è stata evitata, è altrettanto vero che la soluzione trovata conferma alcuni dei peggiori timori della vigilia: intanto, si concretizza ancora una vera e propria conventio ad excludendum ai danni di uno dei vincitori delle ultime elezioni, la Lista Congiunta (con Balad, Ta’al, la Lista Araba e i comunisti di Hadash) che, con il suo 13% e i 15 seggi ottenuti, è la terza forza dello spettro politico israeliano.

E poi, l’alleanza è tesa a costruire un rinnovato blocco nazionale, che, se da una parte conferma l’«orientamento a destra» dell’intero quadro politico israeliano (l’accordo non solo si regge sul compromesso tra la principale forza della destra, il Likud, e un partito centrista, come Blu-Bianco, ma prevede anche l’ingresso al governo di altre forze moderate, come quella parte del Labour, dello storico partito laburista israeliano, che, al prezzo di una severa discussione interna e a rischio di una nuova lacerazione, deciderà di accettare di fare parte dell’esecutivo, o conservatrici, come i partiti religiosi, lo Shas e l’Ebraismo Unito della Torà, mentre anche al partito di destra Yamina è stato proposto di fare parte della compagine di governo), dall’altra scarica tutti i suoi costi, come diversi osservatori hanno messo in luce, sulla pelle del popolo palestinese sotto occupazione. Uno dei temi dell’accordo, di carattere generale, è stata la decisione di concentrare la gestione dell’emergenza legata alla diffusione della pandemia da coronavirus in una sorta di vero e proprio «gabinetto di vertice», sotto la direzione sostanzialmente monocratica dei due leader, Netanyahu e Gantz, anche con l’obiettivo di approvare una legge di bilancio, come si apprende, mirata a «garantire la stabilità e la ripresa dell’economia dopo la crisi dell’epidemia da coronavirus».

Nell’ambito dell’alternanza al potere prevista dall’accordo, in base alla quale Netanyahu avrà l’incarico di primo ministro per la prima metà e Gantz lo stesso incarico nella seconda metà della legislatura, Gantz sarà vice primo ministro di Netanyahu nei primi 18 mesi, Netanyahu sarà vice primo ministro di Gantz nei secondi 18 mesi, mentre i 32 ministeri saranno ripartiti tra i due partiti maggiori, con una quota riservata ai laburisti (Amir Peretz all’Economia e Itzik Shmuli al Welfare). Ma il tema di maggiore sofferenza dell’accordo riguarda, ancora una volta, la vita e i diritti del popolo palestinese: nella sua parte di premierato, infatti, Netanyahu proporrà, a nome del governo, alla Knesset un piano per un accordo con gli Stati Uniti finalizzato alla annessione di parti della Cisgiordania (nel linguaggio israeliano, come «implementazione della sovranità israeliana su parti della Cisgiordania»). Così, il nuovo governo di Israele nasce sotto la stella dell’incredibile «Piano Trump», respinto dai palestinesi e dalle diplomazie di mezzo mondo, radicalmente fuori e contro la giustizia e il diritto internazionale. Un pessimo inizio, che rischia di annunciare, non solo per i palestinesi, un giorno ancora peggiore.

domenica 12 aprile 2020

L’aprile che cambiò il volto dell’Europa

Sarajevo: «L'Uomo Multiculturale costruirà il Mondo» (Foto di Gianmarco Pisa)

La primavera 1992 cambiò il volto dell’Europa e riportò all’ordine del giorno l’orrore dei nazionalismi. Preceduta dalla «crisi del debito» e dalle ingerenze da parte delle istituzioni finanziarie internazionali, la disgregazione della Jugoslavia ebbe formalmente inizio con la dichiarazione di indipendenza della Slovenia il 25 Giugno 1991, seguita dalla breve «guerra dei dieci giorni», condotta dall’esercito jugoslavo (JNA) nel tentativo di preservare l’unità della federazione. Tuttavia, dopo l’annuncio, lo stesso 25 Giugno, dell’indipendenza della Croazia, la JNA avviò una campagna volta a difendere, insieme, l’unità della federazione e i diritti delle comunità, peraltro in un quadro di profonde alterazioni degli equilibri tra i diversi popoli e nazionalità, equilibri su cui si era retta, sino a quel punto, l’originale esperienza jugoslava.
 
Se già l’8 Ottobre 1991 la Croazia formalizzò in via unilaterale la rottura di tutti i legami con il resto della Jugoslavia, la guerra sarebbe stata ancora lunga e sanguinosa, con le operazioni “Lampo” in Slavonia e “Tempesta” nella Krajina, con il supporto degli Stati Uniti, sino alla primavera-estate del 1995, che provocarono tra i duecentomila e i duecentocinquantamila tra profughi e sfollati, ai danni delle comunità serbe di Krajina e Slavonia, che avevano respinto la secessione croata e costituita la auto-proclamata Repubblica Serba di Krajina. Dopo la rottura dell’Ottobre 1991, gli eventi precipitarono anche in Bosnia, contesto multinazionale per eccellenza, con il 44% della popolazione musulmana, il 32% serba, il 17% croata, il 6% «jugoslava», e ancora Rom e altre nazionalità. 

Il parlamento bosniaco, con atto unilaterale e senza la partecipazione dei deputati serbi, emanò una legge per la «Sovranità della Repubblica di Bosnia-Erzegovina» il 15 Ottobre, con lo scopo di secedere da tutti gli organi federali e sospendere tutti i legami col resto della Jugoslavia. La risposta della comunità serbo-bosniaca si concretizzò nella ri-organizzazione dei municipi a maggioranza serba nella cosiddetta Regione Autonoma Serba. Partì allora la stagione dei “referendum unilaterali” contrapposti: il 9-10 Novembre 1991 fu sancita la formazione della Repubblica dei Serbi di Bosnia, il 12 e il 18 Novembre 1991, rispettivamente, i Croati proclamarono l’autonomia della Comunità Croata della Posavina e della Comunità Croata della Herceg - Bosna. Nel fatidico 1992, mentre il 9 Gennaio i Serbi proclamavano la Repubblica del Popolo Serbo di Bosnia Erzegovina, il 27 Gennaio le comunità croate proclamavano la Comunità Croata di Bosnia ed Erzegovina. Intanto, il 25 Gennaio, era stato indetto il referendum per l’indipendenza della Repubblica di Bosnia Erzegovina.
 
Si gettano così le basi non solo della guerra ma, specificamente, della dissoluzione etnica della Bosnia e della futura, post-bellica, ripartizione etnico - amministrativa. Si determinarono allora le circostanze specifiche per la deflagrazione della guerra: il 1 Marzo 1992, giorno del referendum per l’indipendenza della Bosnia, i Berretti Verdi, una delle formazioni paramilitari bosniache, spararono su un corteo nuziale serbo nel cuore storico di Sarajevo, la Baščaršija, uccidendo il padre dello sposo, Nikola Gardović. Aveva inizio, con questo attentato, la «strategia del terrore» inaugurata dal cecchinaggio e dal tiro incrociato: i bosniaco-musulmani presero il controllo del centro di Sarajevo, i serbo-bosniaci di Grbavica, Novi Sarajevo, Ilidža, e le colline intorno alla capitale. 

Un primo tentativo di mediazione in bello tra Radovan Karadžić (serbo-bosniaco) e Alija Izetbegović (bosniaco-musulmano) per il pattugliamento congiunto nelle città e formazioni miste (JNA e polizia bosniaca) fu travolto dalla prima campagna militare croato-musulmana, che portò le Forze Armate della Repubblica di Croazia e le forze paramilitari bosniaco-musulmane ad irrompere lungo la Sava ed effettuare un massacro di sessanta civili serbi (26-27 Marzo 1992). La reazione serba portò i paramilitari serbi della Guardia Volontaria a prendere la città di Bijeljina presso il confine con la Serbia, oggi seconda città della Republika Srpska, dopo la capitale Banja Luka.
 
I popoli, e il popolo di Bosnia nello specifico, non volevano la guerra: la Marcia per la Pace organizzata dai cittadini di Sarajevo contrari alla guerra etnica e alla soluzione militare portò decine di migliaia di persone nelle strade il 5 Aprile 1992. Si trattava di una grande manifestazione popolare, di chiara impronta anti-nazionalistica e democratica, ancora una volta stroncata dalle forze paramilitari che, nella città, spingevano sempre di più per una rapida quanto drammatica escalazione militare. Il tiro dei cecchini, che le diverse fonti attribuiscono ora ai bosniaco-musulmani ora ai serbo-bosniaci, colpì i manifestanti; la spirale che si innescò avrebbe fatto dilagare la carneficina, consolidando la stretta dell’assedio sulla città da parte delle milizie serbo-bosniache, che avevano preso il controllo delle aree collinari circostanti.
 
Proprio il 6 Aprile 1992, ventotto anni fa, iniziava a tutti gli effetti la Guerra di Bosnia: sotto il tiro dei cecchini (Berretti Verdi e Milizie), colpita dalle artiglierie serbo-bosniache, Sarajevo si trasformò in una «città fantasma», in cui il centro storico, e l’aeroporto, erano controllati dai bosniaco-musulmani, Novi Sarajevo, e i quartieri limitrofi, dai serbo-bosniaci. La città conobbe l’assedio sistematico, oltre mille e trecento giorni, tra il 1992 ed il 1995, l’«urbicidio pianificato», in cui si visse una guerra sconvolgente, vecchia quanto la I Guerra Mondiale e moderna come tutti gli odierni conflitti etno-politici: l’evento bellico più grave occorso in Europa dalla II Guerra Mondiale. 

Sul versante della diplomazia internazionale, prima dello scacco di Srebrenica, le Nazioni Unite tentarono più volte mediazioni per definire dei «piani di pace» (Carrington-Cutileiro, Marzo 1992; Vance-Owen, Gennaio 1993; Owen-Stoltenberg, Agosto 1993), fallendo ogni tentativo. Sul versante delle azioni sul campo, se all’inizio (1992-1993) bosniaco-musulmani e croato-bosniaci si trovarono “alleati” contro i serbo-bosniaci, successivamente, dopo il fallimento della proposta Vance-Owen, che, per la prima volta, aveva introdotto il principio della partizione etnica del Paese, in tre sezioni etnicamente distinte, i croato-bosniaci avviarono una «guerra nella guerra» contro i bosniaco-musulmani nei territori in cui erano presenti comunità croate (Bosnia Centrale ed Erzegovina). 

Un’accelerazione verso la precipitazione finale del conflitto avviene a seguito della tragedia di Srebrenica, che segnala uno dei punti più gravi in assoluto delle atrocità commesse. Le tappe della escalazione di Srebrenica sono note: dal 16 Aprile 1993, la Risoluzione 819 rafforza la presenza del peace-keeping militare delle Nazioni Unite nelle città e nelle aree limitrofe; dal 6 Maggio 1993, la Risoluzione 824 istituisce le «zone protette» nell’area di Sarajevo, Tuzla, Žepa, Goražde, Bihać e Srebrenica; dal 4 Giugno 1993, la Risoluzione 836 autorizza l’uso della forza per la scorta degli aiuti umanitari e la difesa delle «zone protette». 

Sebbene delimitata e de-militarizzata dopo gli scontri che già vi si erano registrati tra il 1992 e il 1993 e dopo la promulgazione delle Risoluzioni dell’ONU, le milizie bosniaco-musulmane, sotto il comando di Naser Orić, continuavano a tenere armi all’interno della zona protetta a dispetto di quanto sancito dall’accordo di cessate il fuoco: le rappresaglie e le stragi da questi ordinate contro i villaggi serbo-bosniaci, tra le quali l’eccidio di Kravica, nella notte del 7 Gennaio 1993, in occasione del Natale Ortodosso, assunsero il carattere di una vera e propria pulizia etnica (con stime che, a seconda delle fonti, variano tra i 705 ed i 3.200 serbo-bosniaci uccisi tra il 1992 ed il 1995). 

Se rispondeva al fine di sfollare le enclavi musulmane nel territorio a maggioranza serba della Bosnia Orientale, l’eccidio di Srebrenica maturò anche come reazione alle stragi precedenti da parte bosniaca musulmana e si inscrive nella logica perversa della campagna contrapposta di pulizia e contro-pulizia etnica; l’esercito serbo-bosniaco, sotto il comando di Ratko Mladić, entrò in città l’11 Luglio 1995. I morti furono migliaia, le cifre stimano le vittime tra le 3.568 (delle perizie analitiche dell’ICTY al 2001) e le 8.372 (dell’elenco del Memoriale di Potočari al 2015), la gravità dei fatti è innegabile. L’insieme degli eventi e la pulizia etnica avente epicentro a Srebrenica restano tra le pagine più sconvolgenti del nostro tempo.
 
Nel giro di sei mesi, la guerra di Bosnia finisce e comincia la lunga stagione, non ancora conclusa, della «pace fredda» e della «costituzionalizzazione» dei rapporti sul campo, sia in termini di acquisizioni territoriali, sia in termini di separazione in entità mono-etniche autonome. L’accordo, stipulato a Dayton (Ohio) il 21 Novembre 1995, sancisce l’intangibilità delle frontiere esterne sulla linea di confine fra le repubbliche ex-jugoslave e la divisione interna della Bosnia (BiH) in due entità distinte: la Federazione di Bosnia ed Erzegovina (51% del territorio, 10 cantoni e 92 municipalità) e la Republika Srpska (49% del territorio, 7 regioni e 63 municipalità), al cui interno si staglia il distretto autonomo di Brčko. 

Le due entità sono entità statali a tutti gli effetti, dotate di poteri autonomi salvo la politica estera, la difesa e la moneta. La Presidenza del Paese è collegiale per un mandato quadriennale, ripartito tra un serbo, un croato e un musulmano, che a turno, ogni otto mesi per due tornate, si alternano nella carica di presidente. L’organizzazione del potere dà un’idea della sofisticazione di questa «combinazione mono-etnica». Ciascuna entità è dotata di una presidenza, un parlamento e un governo: la Repubblica Serba (RS) di un governo e di un’assemblea monocamerale, la Federazione croato-musulmana di un governo e di una assemblea bicamerale, cui vanno aggiunti primo ministro, ministri e consiglieri dei cantoni. 

A livello statale complessivo, fanno parte della Camera dei Rappresentanti 42 deputati (28 eletti nella Federazione e 14 nella RS), della Camera dei Popoli 15 deputati (5 serbi, 5 croati e 5 musulmani). Se si considera che non si possono approvare i disegni di legge senza la maggioranza (con un sistema di quote) delle tre rappresentanze nazionali «costituenti» in entrambi i rami del Parlamento, che tra la federazione centrale, le due entità statuali e le ripartizioni amministrative, il Paese conta qualcosa come un centinaio tra ministri e simili, si può avere un’idea del «rompicapo di Dayton», su cui il giudizio storico sembra ormai assodato: uno strumento necessario per porre fine alla guerra, che aveva causato, secondo le stime, cento mila morti (il 68% bosniaci, il 26% serbi, il 5% croati, l’1% di altri gruppi), tra cui attivisti (Guido Puletti, Fabio Moreni, Sergio Lana il 29 Maggio; Gabriele Moreno Locatelli il 3 Ottobre 1993) e reporter (Marco Luchetta, Alessandro Ota, Dario D’Angelo, giornalisti della RAI di Trieste, il 28 Gennaio 1994), ma anche una drammatica conferma della separazione etnica e delle sue assurde disfunzionalità. 

In definitiva, uno tra i mille segnali dell’orrore della guerra, e delle sue conseguenze; ma anche, al contrario, della esigenza di verità e di giustizia, dell’istanza cruciale della pace, e del bisogno della convivenza pluriculturale.