sabato 29 maggio 2021

Peacekeeping: l'impegno degli operatori e delle operatrici di pace


Groov3, CC0, via Wikimedia Commons

 
Alla vigilia della pubblicazione, per i tipi della Associazione Editoriale Multimage, del volume Di terra e di pietra. Forme estetiche negli spazi del conflitto, dalla Jugoslavia al presente, Firenze, 2021: qui la scheda.

Quest’anno più che mai, la giornata del 29 maggio si tinge di significati particolarmente importanti e carichi di prospettive, alludendo alle contraddizioni del presente, ma anche segnalando gli impegni per il tempo che verrà. Nella ricorrenza della Giornata Internazionale del Peacekeeping l’occasione è, al tempo stesso, preziosa e inedita, per riflettere sul mondo che la pandemia ha ridisegnato e, inevitabilmente, sulle premesse che hanno portato agli sconvolgimenti e alle limitazioni, ma anche alle violazioni e alle perdite, di questo 2020 - 2021, nonché sulle speranze che si stanno accumulando in vista di un domani lontano e diverso dal passato che ci ha portato sin qui.

Il peacekeeping porta dentro di sé le ansie di queste preoccupazioni ed enuclea una gamma di significati che interrogano, insieme, la difesa della democrazia, della giustizia e della dignità, dei diritti umani, in uno scenario di emergenza e di crisi come quello che si è andato delineando e che ha a che fare, al tempo stesso, con l’equilibrio del mondo, le condizioni di benessere e giustizia sociale, di armonia e di cooperazione internazionale, di solidarietà e di amicizia tra i popoli, necessarie per prevenire violazioni ed abusi e per concorrere alla costruzione di un mondo di pace con giustizia e dignità, pace con giustizia sociale, in una sola espressione, «pace positiva». È questo, ad esempio, uno dei nuclei della lezione di Johan Galtung, tra i massimi esponenti e principali fondatori della moderna ricerca per la pace, quando sintetizza i fattori di costruzione della pace e di prevenzione dell’escalation, nella celebre formula della pace: PACE = [EQUITA’ x ARMONIA] / [TRAUMA x CONFLITTO].

La spiegazione è in un suo recente scritto: «Qualunque vera educazione dovrebbe preparare alla pratica, guidata da una teoria generale. Procedendo dalla destra del denominatore alla sinistra del numeratore, la formula significa: mediare soluzioni ai conflitti accettabili e sostenibili; conciliare le parti del conflitto bloccate in traumi del passato; empatizzare con tutti i contendenti divisi da linee di faglia sociali/mondiali; costruire cooperazione a beneficio reciproco e uguale». Da qui, nel senso appunto della preparazione alla pratica e quindi alla ricerca-azione per la pace, alla pace come pensiero/pratica di costruzione di relazioni e di trasformazione della società, il passo ulteriore dalla «pace» alla «costruzione della pace» (peace-building) e al «mantenimento della pace» (peace-keeping) che si sviluppano nel senso della interazione e della circolarità
 
«La pace si basa su rapporti equi, relativamente orizzontali. [...] La pace si basa sull’empatia, la comprensione profonda di tutte le parti. SunTzu ne faceva un elemento basilare della mentalità militare; la novità sarebbe la ricerca dei punti di forza, del buono, anziché delle debolezze, del cattivo, negli altri - e viceversa per sé, per sé stessi. [...] La pace si basa sulla riconciliazione, sullo sgombrare il passato, sul costruire un futuro. L’esperienza recente indica che i veterani su ambo i versanti sono meglio al riguardo che i politici, condividendo come appariva dall’altro lato, mettendo in discussione la saggezza della guerra. [...] La pace si basa sull’identificazione del conflitto soggiacente, sulla ricerca di soluzioni anziché l’affrontare, l’aggredire l’altro lato, in una ricerca rabbiosa di vittoria. Orientamento alle soluzioni anziché alla vittoria, che peraltro c’è comunque: della pace sulla guerra», definendo, peraltro, il peace-keeping, «una grande esperienza di apprendimento», oltre che uno strumento di prevenzione della guerra.

La giornata del 29 maggio serve dunque, a ben vedere, proprio ad allertare questo richiamo: «la Giornata ... offre l’opportunità di rendere omaggio al contributo inestimabile del personale civile e militare ... e di onorare gli oltre 4.000 peace-keeper che hanno perso la vita prestando servizio sotto la bandiera delle Nazioni Unite dal 1948 a oggi, di cui 130 solo lo scorso anno». Settantadue, in totale, le missioni di peacekeeping dal 1948 al 2020; dodici, le missioni attualmente in corso. Si tratta di un impegno, spesso ostacolato dagli interessi dominanti che si muovono contro la prevenzione degli interventi e delle aggressioni militari e quindi contro la costruzione di una pace giusta e duratura tra i popoli della Terra, che si sviluppa attraverso una quantità sorprendente di misure, quali la protezione dei civili, la prevenzione dei conflitti, la promozione dello stato di diritto, la costruzione di istituzioni di sicurezza e la protezione della funzionalità amministrativa, la tutela e la promozione dei diritti umani e il mantenimento delle condizioni di pace, oltre che il rispetto delle linee di tregua e di cessate-il-fuoco, nonché il rafforzamento del ruolo delle donne, la promozione dell’attivazione dei giovani, il supporto sul campo.

«I peace-keeper proteggono i civili, prevengono i conflitti, riducono la violenza, rafforzano la sicurezza e sostengono le autorità nazionali nell’assumersi tali responsabilità. Ciò richiede una coerente strategia di sicurezza e di costruzione della pace in grado di supportare la strategia politica. Il peacekeeping delle Nazioni Unite aiuta i Paesi ospitanti a diventare più resilienti ai conflitti, ponendo le basi per sostenere la pace a lungo termine». Ciò in base ai principi del peacekeeping che non possono essere né trascurati né relativizzati: consenso di tutte le parti; imparzialità; non utilizzo della forza, se non per autodifesa e a tutela del mandato ricevuto». Riprendendo qui la dichiarazione del Segretario Generale, «il peacekeeping aiuta a coltivare la pace in alcuni dei luoghi più pericolosi del pianeta». 
 

venerdì 28 maggio 2021

Le scuse per la guerra alla Jugoslavia

 
Monumento in Memoria delle vittime delle guerre 1991-1999, Kraljevo. Foto di G. Pisa


Alla fine, si è tramutato in un evento “storico” il vertice dello scorso 18 maggio tra il presidente serbo Aleksandar Vučić e il suo omologo ceco, Miloš Zeman, a Praga. Il primo a dare notizia dell’evento è stato il portavoce del presidente ceco, Jiří Ovčáček, quando ha confermato che «il presidente Miloš Zeman ha presentato pubbliche scuse al presidente Aleksandar Vučić per i bombardamenti [NATO] della Jugoslavia nel 1999» e «ha chiesto perdono al popolo serbo». Miloš Zeman, si ricorderà, era primo ministro in Repubblica Ceca nel 1999, quando il Paese entrò nella NATO e quando fu scatenata l’aggressione alla Jugoslavia.

Successivamente, è stato lo stesso Zeman a dichiarare che «stavamo disperatamente cercando almeno un altro Paese [della NATO] che si unisse a noi e si opponesse [alla guerra contro la Jugoslavia]. Siamo rimasti soli». Ma ha anche dichiarato che il suo governo avrebbe dovuto esercitare maggiore risolutezza nel chiedere, nel più breve tempo possibile, la fine dei bombardamenti. La Repubblica Ceca entrò a far parte della NATO, con Ungheria e Polonia, proprio nel fatidico 1999, anno in cui, tra l’altro, la guerra alla Jugoslavia mise al banco di prova il nuovo Concetto Strategico dell’Alleanza Atlantica. Come ricordò Živadin Jovanović, già Ministro degli Esteri della Jugoslavia, oggi presidente del Forum di Belgrado per un mondo di eguali, «l’aggressione della NATO segna un cambiamento strategico nell’essenza dell’Alleanza: essa ... ha introdotto una politica offensiva aggressiva, autorizzandosi a intervenire in ogni momento in ogni punto del globo» e, in particolare, un segnale nei confronti dei Paesi desiderosi di promuovere e sviluppare una politica estera indipendente.

In una intervista, pubblicata il 25 maggio, per il portale ceco Parlamentary Paper, Vučić ha confermato che Zeman è stato il primo presidente, primo dirigente politico di primo piano in carica, ad esporsi in una tale presa di posizione: pubbliche scuse per la brutale e illegale aggressione alla Jugoslavia. La Serbia «è stata attaccata da 19 Paesi stranieri, che continueranno a ripetere che hanno dato corso all’attacco a causa di una catastrofe umanitaria». «Allora bisognerebbe chiedere se l’uccisione di migliaia di persone, e in particolare di 72 bambini serbi, sia stata solo un danno collaterale». Ha ricordato che Madeleine Albright, segretaria di Stato in carica al tempo dell’aggressione alla Jugoslavia, quando le è stato chiesto della guerra NATO, ha risposto che doveva essere fatta per salvare vite umane. «Trovano sempre motivi per giustificarsi, ma si tratta chiaramente di un approccio unilaterale. Unilaterale e non corrispondente al vero». Tra i 19 Paesi partecipanti all’aggressione, anche l’Italia, in violazione dell’art. 11 della Costituzione, in base al quale «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».

Se le scuse per la guerra alla Jugoslavia di un capo di Stato risultano dunque un fatto inedito e, a suo modo, storico, non vi è dubbio che la guerra NATO alla Jugoslavia, oltre che una grave violazione internazionale, ha rappresentato anche una catastrofe di dimensioni impressionanti. Secondo il Rapporto sull’Impatto ambientale della guerra in Jugoslavia sull'Europa del sud-est, pubblicato dalla Commissione Ambiente dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa (2001), «i 1200 aerei militari della NATO hanno svolto oltre 34.000 missioni, compiendo circa 2.300 attacchi. La quantità totale di ordigni utilizzati dalla NATO è stimata tra le 22.000 e le 79.000 tonnellate. Ben 78 siti industriali e 42 impianti energetici sono stati distrutti o danneggiati. I bombardamenti hanno sottoposto gli ecosistemi, le acque superficiali, le falde acquifere, il suolo e l’aria nei Balcani a una contaminazione senza precedenti con la presenza di oltre cento sostanze tossiche. L’impatto ambientale della crisi del Kosovo sui Balcani si può suddividere in: a) danni diretti e indiretti causati dagli ordigni NATO; b) effetti della distruzione di infrastrutture e impianti industriali; c) danni al patrimonio naturale; d) conseguenze dello sfollamento della popolazione». Inoltre, «gli aerei militari della NATO hanno volato per un totale di circa 150.000 ore nello spazio aereo della Jugoslavia e nelle regioni limitrofe.

«Tale concentrazione di aerei da guerra su un’area relativamente piccola ha provocato alti livelli di contaminanti nell’aria e nelle precipitazioni. [...] Inoltre, a seguito della distruzione e degli incendi negli impianti industriali, si è verificata una grave contaminazione di aria, acqua e suolo con sostanze pericolose, tra cui diossine e composti tossici. [...] Inoltre, è stato confermato l’impiego di ordigni contenenti uranio impoverito (U238), utilizzato soprattutto, a causa della sua alta densità, nei proiettili perforanti, in particolare nei proiettili anticarro sparati dai jet d'assalto A-10 Thunderbolt. In base a informazioni ufficiali, sono state utilizzate circa 31.000 testate, con un carico totale di 10 tonnellate di uranio impoverito. [...] Oltre agli effetti radioattivi, l'uranio è un elemento altamente tossico e un potente cancerogeno e mutageno. Le particelle di ossido di uranio, che si formano dopo l’esplosione, vengono disperse dai venti e si depositano sul suolo e sulla vegetazione. [...] Concentrazioni di uranio possono causare danni irreversibili alla salute delle persone delle aree colpite»: migliaia i civili esposti alle contaminazioni, mentre solo «in Italia il numero dei militari ammalatisi di cancro ammonta a 7.600, di cui 400 sono deceduti. Si tratta di malattie provocate dall’uso di uranio impoverito».

Come scrisse Stefano Rodotà, «il potere di delineare l’assetto della comunità internazionale è sfuggito ai luoghi della democrazia e si è concentrato in quelli della forza». Il comune impegno contro la guerra e per la pace è anche la comune responsabilità di difendere gli spazi della democrazia e della giustizia, in definitiva, della vita. 
 

lunedì 17 maggio 2021

Napoli in piazza per la Palestina

Foto Pagina FB del Centro Culturale Handala Ali - مركز حنظله علي الثقاف

 
Come tutte le maggiori città del Paese, anche Napoli è stata attraversata da migliaia di persone che si sono riversate nelle strade per dare vita a una grande manifestazione contro l’aggressione israeliana a Gaza, contro le violenze e i raid delle forze di polizia in diverse località della Cisgiordania, e, in particolare, contro la brutale repressione delle manifestazioni che, a Gerusalemme, hanno accompagnato l’ordine di espulsione di diverse decine di persone, intere famiglie, spesso con bambini, dal quartiere di Sheikh Jarrah, nella zona occupata di Gerusalemme Est. 
 
La manifestazione a Napoli, che ha visto la presenza in piazza di alcune migliaia di persone e ha registrato una corale partecipazione unitaria di una variegata platea di associazioni, partiti, organizzazioni politiche e sindacali, comitati, collettivi, articolazioni di movimento, ha dapprima animato un presidio in Piazza del Plebiscito, una della piazze simbolo della “capitale del Mezzogiorno”, quindi dato vita a un corteo che si è diretto verso il porto, per rappresentare un blocco simbolico delle navi cariche di armi destinate a Israele e come ponte di solidarietà e di impegno con i lavoratori portuali di Livorno, che hanno manifestato contro la partenza della nave Asiatic Island, diretta, secondo quanto riportato dalla stampa, al porto di Ashdod, in Israele, con un carico che avrebbe compreso anche esplosivi e munizioni. 
 
Come ha specificato un comunicato dell’USB, infatti, «grazie alla segnalazione del Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali (CALP) di Genova e dell’associazione WeaponWatch, sappiamo che al suo interno vi sono contenitori carichi di armi ed esplosivi diretti al porto israeliano di Ashdod. Armi ed esplosivi che serviranno ad uccidere la popolazione palestinese già colpita da un duro attacco proprio questa notte che ha causato centinaia di vittime tra la popolazione civile, tra cui anche numerosi bambini». Anche allo scopo di rimarcare il carattere strategico dell’unità del mondo del lavoro e dell’impegno del movimento dei lavoratori e delle lavoratrici, in senso internazionalista, per la pace e contro la guerra, per porre fine all’occupazione in Palestina e sostenere l’autodeterminazione e l’amicizia tra i popoli, il comunicato ha specifico infatti che «contemporaneamente abbiamo avviato una campagna di sensibilizzazione con i lavoratori portuali livornesi affinché il coraggioso esempio che arriva dal porto di Genova possa essere riproposto anche sul nostro territorio. Il lavoro è importante, specie in questi tempi, ma questo non può farci chiudere gli occhi, o peggio ancora farci diventare complici, di massacri continui nei confronti della popolazione civile». 
 
Tornando a Napoli, tanto nel presidio, quanto nel corteo verso il porto, la richiesta di iniziative concrete e unificanti, capace di raccogliere la più ampia adesione delle forze di progresso e di traguardare una dimensione propositiva e costruttiva, sia di denuncia e di contro-informazione, sia di iniziativa e di programma, è stata scandita in maniera chiara: ritiro da tutti i territori occupati, dalla Cisgiordania, da Gerusalemme Est, dalle alture del Golan; smantellamento delle colonie israeliane e sospensione immediata della demolizione delle case e della pulizia etnica in atto a Gerusalemme, come ad esempio nel quartiere, appunto, di Sheikh Jarrah; fine dell’assedio di Gaza; libertà per i prigionieri politici palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. 
 
E poi, ovviamente, in termini complessivi, il rispetto del diritto e della giustizia internazionale con applicazione delle risoluzioni delle Nazioni Unite sulla Palestina, tra le quali, in particolare, la risoluzione 194 (1948) della Assemblea Generale che sancisce il diritto al ritorno nelle proprie case dei profughi palestinesi, la risoluzione 242 (1967) che ribadisce che l’occupazione israeliana della Palestina è illegale, fuori e contro il diritto e la giustizia internazionale, e ancora la cruciale, recente, risoluzione 2334 (2016) del Consiglio di Sicurezza, in base alla quale, «condannando ogni misura tesa ad alterare la composizione demografica, le caratteristiche e lo status dei territori palestinesi occupati dal 1967, compresa Gerusalemme Est, riguardante, tra l’altro, la costruzione ed espansione di colonie, il trasferimento di coloni israeliani, la confisca di terre, la demolizione di case e lo spostamento di civili palestinesi, in violazione delle leggi umanitarie internazionali [...] riafferma che la costituzione da parte di Israele di colonie nel territorio palestinese occupato dal 1967, compresa Gerusalemme Est, non ha validità legale e costituisce flagrante violazione del diritto internazionale; [...] insiste con la richiesta che Israele interrompa immediatamente e completamente ogni attività di colonizzazione nei territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme Est; [...] sottolinea che la cessazione di ogni attività di colonizzazione da parte di Israele è indispensabile per salvaguardare la soluzione dei due Stati e invoca che vengano intrapresi immediatamente passi positivi per invertire le tendenze in senso opposto sul terreno che stanno impedendo la soluzione dei due Stati [...]». 
 
Sono state avanzate altresì, in particolare, la richiesta al governo italiano di «sospendere immediatamente tutte le forniture di armamenti a Israele e di revocare tutte le licenze per armi in corso, nonché di farsi promotore di simile istanza presso i governi dei Paesi dell’Unione Europea» e la richiesta alla comunità internazionale di sospendere qualsiasi accordo militare con Israele e di promuovere un embargo militare a Israele come forma legittima di pressione internazionale per la cessazione delle violenze e la fine dell’occupazione della Palestina. 
 

lunedì 3 maggio 2021

Libertà di informazione e giornalismo di pace

UNESCO, CC BY-SA 3.0 IGO, via Wikimedia Commons


In occasione della Giornata Internazionale della Libertà di Stampa, il 3 maggio, una riflessione può essere utile, in generale, sulla libertà dell’informazione e, indissolubile da questa, sull’etica dell’informazione, ma anche, in termini più puntuali, su quella dimensione dell’informazione, specifica ed universale al contempo, che è la «informazione per la pace» («giornalismo di pace»). La ricorrenza internazionale rappresenta, infatti, una occasione preziosa per situare la riflessione all’interno di una cornice di contesto dalla quale possa trasparire il senso della giornata nonché i valori, la portata, gli obiettivi associati a questa forma di «scrittura costruttiva».

Com’è noto, la Giornata Internazionale della Libertà di Stampa è una ricorrenza delle Nazioni Unite: è stata infatti l’Assemblea Generale ad istituirla, nel dicembre 1993, dando seguito alla raccomandazione promossa dalla Conferenza Generale dell’UNESCO che, nel contesto del Seminario sulla promozione di mezzi di informazione indipendenti e pluralisti di Windhoek dell’aprile-maggio 1991, aveva redatto la “Dichiarazione di Windhoek”. Quest’ultima, nella cornice sancita dall’art. 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, afferma che «l’istituzione, il mantenimento e la promozione di una stampa indipendente, pluralistica e libera è essenziale ai fini dello sviluppo e del mantenimento della democrazia in un Paese nonché per lo sviluppo economico». 
 
Inoltre, stabilisce una serie di connotazioni essenziali della libertà di informazione, dal momento che (punto 6) «in molti Paesi i giornalisti sono vittime di repressione: assassinati, arrestati, detenuti e censurati, e sono limitati da pressioni economiche e politiche»; quindi (punto 11) «i finanziamenti dovrebbero mirare a incoraggiare il pluralismo e l’indipendenza». Infine, al punto 10, «la comunità internazionale, in via prioritaria, dovrebbe indirizzare il sostegno finanziario verso lo sviluppo e la creazione di giornali, riviste e periodici non governativi che riflettano la società nel suo insieme e i diversi punti di vista all’interno delle comunità».

È propriamente in questa cornice che si inscrive anche quello spaccato specifico della libertà di informazione che è l’informazione per la pace, come si è accennato poc’anzi, il «giornalismo di pace». Imprescindibile, da questo punto di vista, la riflessione che a questo aspetto, come ad altri, del lavoro per la trasformazione sociale, ha dedicato Nanni Salio (1943-2016) che non a caso è curatore, con Silvia De Michelis, del volume Giornalismo di pace, pubblicato dalle Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2016, con contributi di Stuart Allan, Birgit Brock-Utne, Johan Galtung, Jake Lynch, Dov Shinar, Elissa J. Tivona. Una riflessione che Nanni Salio condensa in una sintesi rapida quanto efficace: «Il giornalismo di pace si basa su tre passi fondamentali: mappare tutti gli attori del conflitto; individuare i loro obiettivi legittimi (quelli che non violano i bisogni e i diritti umani fondamentali); elaborare soluzioni concrete, costruttive e creative per soddisfare gli obiettivi legittimi di tutte le parti in conflitto». 
 
Una definizione pratica, come si vede, che non si dilunga su una ricognizione astratta, ma si sofferma su una dimensione propriamente operativa, una definizione operativa si direbbe, in cui a prevalere non è tanto il “descrivere”, quanto piuttosto l’“agire”, in coerenza con la prassi tipica della ricerca-azione per la pace che fa dei contenuti del lavoro di pace non degli schermi attraverso cui contemplare la realtà, bensì degli strumenti con i quali intervenire nelle contraddizioni, agire dentro e sopra i conflitti, cimentarsi nella trasformazione.

Dunque, il giornalismo di pace non è semplicemente una “forma della scrittura”, quanto piuttosto una modalità di lettura e di ricostruzione degli eventi, utile a supportare un’azione costruttiva di trascendimento del conflitto e di trasformazione sociale. Più complessivamente, si tratta di una “pratica della scrittura” che avverte, al tempo stesso, la propria responsabilità sociale e una propria dimensione etica, che impegna in prima persona la responsabilità dell’autore/autrice, specie nella individuazione degli eventi da rappresentare e degli elementi (gli atteggiamenti, le contraddizioni, le azioni) su cui soffermare l’attenzione, e che, proprio in virtù di tutto questo, non si conforma al paradigma dominante del potere, del dominio, della violenza, ma intende contribuire attivamente a promuovere, sviluppare e costruire la pace. 
 
È cioè, nell’ambito delle misure di promozione dell’informazione e di costruzione della comunicazione in contesti di conflitto, una delle dimensioni più significative del lavoro di pace e, in particolare, del peacebuilding. In pratica, è una scrittura che si rivela fondata dal punto di vista argomentativo ed esauriente dal punto di vista espositivo; puntuale nei suoi riferimenti alle 5W (chi, cosa, quando, dove, perché); capace di individuare le contraddizioni in maniera chiara all’insegna dell’approccio nonviolento (imparziali rispetto alle persone, mai rispetto alle ingiustizie), mettendo in luce le molteplici dimensioni del conflitto e della violenza (fisica e diretta, strutturale e culturale) e sfuggendo alla tentazione della polarizzazione (rappresentando le complessità di tutti i fenomeni e di tutti i soggetti); che fa ricorso, infine, ad un linguaggio comprensibile, né sciatto o scialbo, né enfatico o moralistico, evitando, da un lato, tuttologie ed accademismi, nonché, dall’altro, personalismi e approcci manipolatori.

Dedicata alla informazione come “bene pubblico” (public good) la giornata del 3 maggio 2021 richiama dunque ad una assunzione di responsabilità, «nel produrre e diffondere le informazioni, contrastando la disinformazione e altri contenuti dannosi», come si legge nel messaggio di Audrey Azoulay, Direttrice Generale dell’UNESCO.