sabato 30 maggio 2015

Le ragioni di un peacekeeping civile non-governativo

Murals dedicated to Malala Yousafzai by N. Gemini Wikimedia 
Poco ci si sofferma, in generale, sull'importanza della commemorazione, ma oggi, 29 Maggio, è la Giornata Inter-nazionale del Peace-keeping delle Nazioni Unite, anche detta, in via istituzionale, la “Giornata delle Forze di Pace delle Nazioni Unite”, istituita, con Risoluzione 57/129, “per rendere omaggio a tutti gli uomini e le donne che hanno servito e continuano a servire nell'ambito delle operazioni di pace delle Nazioni Unite, per il loro alto livello di professionalità, di dedizione e di coraggio e, in particolare, per onorare la memoria di coloro i quali hanno perso la vita per la causa della pace”.
La data scelta è particolarmente impegnativa, sia per la sua rilevanza politica, sia per il suo valore simbolico. A poche settimane di distanza dalla data del 30 Marzo, nella quale i Palestinesi celebrano la “Giornata della Terra”, per ricordare la tragedia della occupazione e della colonizzazione israeliana della Palestina e per rivendicare il proprio diritto al ritorno e alla autodeterminazione, ricordando, in particolare, i tragici avvenimenti del 1976, quando i Palestinesi si mobilitarono per difendere il proprio diritto alla terra che sarebbe stata espropriata a favore dei coloni israeliani, il 29 Maggio, giornata internazionale del peace-keeping ONU, viene a ricordare il varo della missione internazionale, del 1948, destinata alla “Organizzazione delle Nazioni Unite dei Supervisori della Tregua” o “UNTSO”, con l'obiettivo di tutelare il piano ONU per la Palestina, travolto dalla guerra e dalla Nakbah del popolo palestinese, e di preservare una speranza di pace e convivenza. Come si vede, il destino del popolo palestinese, i diritti universali di autodeterminazione, di libertà e di non-ingerenza, in una parola di “pace con giustizia”, ed il principio del peace-keeping internazionale, in particolare di carattere civile e nonviolento, sono assai intrecciati, simbolicamente e concretamente.
Non sempre le missioni di peace-keeping delle Nazioni Unite rappresentano una storia di successo ma, senza dubbio, esse costituiscono una declinazione innovativa nei rapporti internazionali. Si tratta di una storia lunga e ricca, peraltro inedita nel sistema internazionale dei rapporti tra stati e comunità, che ha introdotto una innovazione forte nell'approccio alle controversie internazionali e nella prevenzione delle violenze belliche e che ha per la prima volta aperto la strada alla cosiddetta “diplomazia dei popoli”, un intervento sovra-statuale e non esclusivamente militare nella prevenzione dei conflitti armati e nella soluzione politica delle controversie internazionali.
Come in tutti i processi storici, d'altro canto, si alternano, parlando di peace-keeping internazionale, catastrofici fallimenti e “success stories”: la degenerazione della missione internazionale delle Nazioni Unite in Somalia, con il passaggio dalla UNOSOM I alla UNOSOM II, nel corso del 1993, ha portato non solo ad un deterioramento della violenza ma anche ad una diffusa instabilità, le cui drammatiche conseguenze sono ancor oggi più che evidenti; l'inconsistenza della recente missione internazionale in Kosovo, la UNMIK, varata all'indomani della Guerra del Kosovo del 1999 e, per gli aspetti legati alla promozione dello stato di diritto, ora sostituita dalla missione europea EULEX, non solo non è riuscita ad impedire le ripetute violenze etniche ai danni di persone, proprietà e beni, anche di grande valore storico e culturale, della minoranza serba ad opera di estremisti albanesi, ma non è neanche riuscita a stabilizzare l'autogoverno regionale e le prescrizioni della risoluzione 1244.
E' pur vero, d'altro canto, che l'insieme degli interventi di peace-keeping e peace-building delle Nazioni Unite rappresentano una valida alternativa alla politica di dominio delle singole potenze: come ha messo in rilievo il Worldwatch Institute, “da quando è stato inventato il peace-keeping, dopo la Seconda Guerra Mondiale, le Nazioni Unite hanno speso un ammontare di 124 miliardi di dollari per queste missioni, un importo che impallidisce in confronto anche ad un solo anno di spese militari mondiali, che hanno superato la soglia dei 1.800 miliardi di dollari. Gli eserciti del mondo non potrebbero operare neanche due giorni con il bilancio annuale del peace-keeping dell'ONU”.
Meglio delle singole missioni nazionali ad egida governativa, le missioni internazionali delle Nazioni Unite riescono a integrare funzioni civili, come l’assistenza allo svolgimento di elezioni democratiche, lo sviluppo di istituzioni democratiche, la riforma dei sistemi giudiziari, il monitoraggio dei diritti umani e la promozione del processo di pace; più delle singole missioni nazionali, esse hanno un tasso significativo di successo, in termini di conseguimento degli obiettivi istituzionali, pari al 70%. Quante missioni nazionali possono vantare delle percentuali analoghe?

venerdì 22 maggio 2015

Pace per decreto. La norma attuativa dei corpi di pace, tra traguardi e contraddizioni.

Ponte di Mitrovica, Kosovo, 2005
La pubblicazione in Gazzetta Ufficiale (Serie Generale n.115 del 20 Maggio 2015) del Decreto del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali recante misure inerenti alla «Organizzazione del contingente dei Corpi Civili di Pace, ai sensi dell'articolo 1, comma 253, della legge 27 dicembre 2013, n. 147», il cosiddetto, atteso, decreto attuativo di sperimentazione delle “azioni non-governative di pace” introdotte, nell'ambito del Servizio Civile Nazionale, con l'emendamento Marcon (SEL) in Legge Finanziaria 2014, segna, indubbiamente, una tappa rilevante nel percorso relativo alla sperimentazione e istituzionalizzazione degli interventi di pace della società civile del nostro Paese, dal momento che, insieme con l'appena citato emendamento, rappresenta il primo atto normativo compiuto, nel quadro della legislazione italiana, in materia di interventi civili di pace.
 
Il decreto attuativo viene così a rappresentare il momento culminante di una lunga stagione di impegno, nel corso della quale le formazioni della società civile organizzata, raccolte nelle reti tematiche impegnate sul tema della gestione nonviolenta e della trasformazione costruttiva dei conflitti (in primo luogo, la Rete Disarmo, la Rete della Pace, il Tavolo Interventi Civili di Pace), hanno maturato una progressiva evoluzione, impegnandosi nella riflessione sulle modalità ed i limiti dell'azione civile di pace, in Italia e all'estero, riflettendo sul carattere ed il profilo, le specificità e le caratteristiche, dell'intervento di pace della società civile italiana ed avanzando proposte volte alla sperimentazione sul campo e alla definizione normativa.
 
Non sarà del tutto inutile, a questo scopo, ricordare almeno, sotto il profilo della riflessione relativa alla impostazione generale, la redazione del documento, a cura degli attori del tavolo degli interventi civili di pace, dedicato a «Identità e Criteri degli Interventi Civili di Pace Italiani» (10 Giugno 2012), che, per la prima volta in Italia, ha definito le modalità dell'impegno nonviolento e le linee-guida per gli operatori di pace, impegnati in azioni, interventi e corpi civili di pace, in territorio nazionale e in ambito internazionale; nonché, sotto il profilo della sensibilizzazione pubblica e della promozione sociale, l'implementazione del progetto omonimo Info-EaS per la sensibilizzazione e l'educazione alla pace e alla gestione creativa dei conflitti, la costruzione di momenti di approfondimento e di advocacy a cura delle diverse organizzazioni delle reti tematiche e, in particolare a Vicenza, la realizzazione di un vero e proprio percorso di ideazione creativa per corpi civili di pace, sin dal 2011, in collaborazione con i gruppi e le associazioni della Rete CCP.
 
Né, certamente, meno importanti sono state le esperienze realizzate sino a questo punto dalle organizzazioni di società civile che, anche in un contesto di sostanziale vuoto normativo, almeno a livello nazionale, hanno saputo ideare ed innovare, sviluppando, nella concezione e nella pratica, esperienze pilota che hanno letteralmente aperto una prospettiva di futuro: dalle esperienze dei Caschi Bianchi e dei progetti di peace-keeping civile già incardinati, sin dal 2004, nell'ambito del servizio civile nazionale all'estero, sino al progetto “Raccogliendo la Pace” per interventi civili di pace in Palestina, a partire dal 2010, e al progetto dei “Corpi Civili di Pace in Kosovo” che, sostenuto dal Comune di Napoli nel 2011-2012, ha rappresentato un altro precedente importante, il primo progetto di un Ente Locale per Corpi Civili di Pace in zona di conflitto.
 
Su questo lungo ed esteso retroterra, viene dunque ad innestarsi l'articolato del decreto attuativo. Si tratta di un testo non occasionale né superficiale, articolato e dettagliato, che, attraverso nove articoli, definisce i caratteri salienti della sperimentazione delle azioni non-governative di pace, inquadrate nell'ambito del Servizio Civile, in base ai contenuti dell'emendamento Marcon. Tali articoli riguardano: la definizione e l'ambito di applicazione, i settori e le aree di intervento, la tipologia di progetti prevista, le caratteristiche e la formazione del personale, le disposizioni di sicurezza, il monitoraggio e la valutazione. Sin dai titoli e, a maggior ragione dalla lettura, vengono alla luce alcune tra le maggiori criticità e le più significative contraddizioni del testo del documento che, in estrema sintesi, riguardano proprio i temi della configurazione esclusivamente volontaria, delle aree di intervento e delle disposizioni di sicurezza. Procediamo con ordine.
 
Giustamente il decreto, nella sua premessa che è parte integrante del testo, dettaglia il quadro normativo di riferimento, sia a livello internazionale e comunitario, sia a livello nazionale, e opportunamente menziona, tra gli altri, il Rapporto del Segretario Generale delle Nazioni Unite «Una Agenda per la Pace» (17 Giugno 1992), la Risoluzione della Assemblea Generale «Sul diritto e la responsabilità degli individui, dei gruppi e degli organi sociali di promuovere e proteggere le libertà fondamentali ed i diritti umani universalmente riconosciuti» (8 Marzo 1999) e la Raccomandazione del Parlamento Europeo sull'istituzione di un Corpo Civile di Pace Europeo (10 Febbraio 1999). Non meno significativa, peraltro, la totale assenza di qualsivoglia riferimento alle sentenze della Corte Costituzionale che hanno, a più riprese, ricordato al legislatore la parità di livello tra la difesa civile e la difesa militare e l'esigenza di assicurare un'adeguata promozione ed un adeguato sviluppo alla difesa civile, a partire almeno dalla sentenza 164 del 1985.
 
Qui si innesta la prima contraddizione del decreto attuativo: recidendo il legame tra azioni civili di pace e difesa, in particolare difesa civile, si instaura una soluzione di continuità con il percorso che ha portato dalla obiezione di coscienza al servizio civile e dall'impegno per la pace e contro la guerra all'azione costruttiva per la promozione della pace e la prevenzione della guerra. Inoltre, si finisce per confermare non solo il primato, ma addirittura l'esclusiva del “militare” nel settore della difesa, relegando di fatto l'azione dei progetti, che saranno presentati in questa cornice normativa, ad azioni di solidarietà e di promozione sociale, pur se chiaramente legate ai temi della pace e dei diritti umani, slegate di fatto a compiti di prevenzione della guerra e della escalation. Se è vero che l'art. 2, comma 2, alle lettere a., b., c. ed e., adeguatamente elenca gli ambiti di impegno propri di tali azioni di pace (sostegno ai processi di democratizzazione, mediazione e riconciliazione; sostegno alle capacità della società civile locale per la risoluzione dei conflitti; monitoraggio dei diritti umani e del diritto umanitario; educazione alla pace), è pur vero che lo stesso comma, alla lettera d., inserisce “attività umanitarie”, genericamente intese, rischiando quindi di ulteriormente de-specificare il profilo ed il carattere di tali azioni di pace ed allontanandole dal “proprium” dei Corpi Civili di Pace.
 
La cornice che si è scelta per “inquadrare” la sperimentazione non è, d'altro canto, la più idonea o adeguata se si vuole traguardare, appunto, l'obiettivo dei Corpi Civili di Pace: si fa riferimento, infatti, come previsto nelle premesse normative ed esplicitamente segnalato dall'art. 4 del decreto, a giovani volontari tra i 18 e i 28 anni di età (art. 4, comma 1, lettera a.), in linea con il fatto che la sperimentazione si svolge attraverso progetti di servizio civile, in Italia o all'estero. Viene così messo in luce il duplice problema, di caratterizzare la sperimentazione esclusivamente nei termini dell'impegno volontario e di consegnarla ad una platea con un'età non superiore ai 28 anni. È appena il caso di ricordare che l'elaborazione condivisa all'interno delle reti e del movimento per i Corpi Civili di Pace ha portato a definire questi ultimi come una «azione civile, non armata e nonviolenta, di operatori professionali e volontari che, come terze parti, sostengono gli attori locali nella prevenzione e nella trasformazione dei conflitti (con l'obiettivo di promuovere) una pace positiva, intesa come cessazione della violenza ma anche come affermazione di diritti umani e benessere sociale». Non si tratta dunque -esclusivamente- di giovani volontari, ma di operatori professionali, professionisti e volontari.
 
Peraltro, a dispetto del fatto che, nella concezione condivisa dei Corpi Civili di Pace, questi ultimi «lavorano in squadra e prendono di norma decisioni strategiche e tattiche col metodo del consenso» e, inoltre, «possono attivare relazioni di collaborazione con altre ONG, …e istituzioni pubbliche, solo se tali rapporti non minano l'indipendenza e l'imparzialità della missione; con attori armati -regolari e non regolari- non sono ammesse forme di collaborazione o sinergia né scorta armata; può esserci dialogo finalizzato alla gestione nonviolenta del conflitto o scambio di informazioni sulla sicurezza, ove questo non pregiudichi la “legittimità nonviolenta” della missione, in termini di modalità d'azione e di ricezione presso le parti», il decreto attuativo “centralizza” le disposizioni in materia di sicurezza, rendendole persino cogenti per gli operatori.
 
Vi si legge infatti che «prima dell'impiego all'estero, i giovani volontari sono tenuti a partecipare ad attività di sensibilizzazione in materia di sicurezza organizzate dal MAECI (Ministero degli Esteri)» (art. 7, comma 2) e che «i giovani volontari partecipano a riunioni di sicurezza organizzate nella zona di intervento» su “disposizione” delle autorità italiane competenti (art. 7, comma 2). Come si evince chiaramente dalla lettura dei successivi commi 4 e 5, il MAECI è titolare unico della sicurezza del personale impegnato e può disporre misure non solo «in relazione alle condizioni di sicurezza prevalenti nel luogo» ma anche per -peraltro generiche- «gravi ragioni di opportunità». Preoccupante, inoltre, per progetti inquadrati in una così stringente cornice “governativa”, il riferimento del comma 6 in merito alla eventuale imputazione delle spese sostenute dall'amministrazione per il rimpatrio o altre azioni di soccorso. Da una parte, la figura classica del volontario in servizio civile; dall'altra, il ruolo preponderante del governo e una opzione esclusiva, da parte del governo, sul tema-chiave della sicurezza, tanto è vero che, a norma dell'art. 3 comma 3 del decreto attuativo, «i Paesi esteri in cui possono svolgersi i progetti sono individuati dal MAECI», minacciando non solo l'autonomia e l'unicità del rapporto di cooperazione tra gli attori dei diversi contesti, di provenienza e di destinazione, che condividono l'opzione nonviolenta nell'azione di prevenzione della guerra e di promozione della pace, ma prefigurando una ambigua e rischiosa sovrapposizione tra aree di destinazione delle azioni di pace e aree di proiezione degli interessi strategici del governo italiano. La stessa ambiguità e la stessa sovrapposizione che, come da più parti testimoniato, caratterizzano i profili di intervento tipici dei “Peace Corps” statunitensi.
 
In conclusione, pur recependo alcuni caratteri condivisi degli interventi di pace della società civile italiana, il decreto attuativo è lontano dal profilo dei Corpi Civili di Pace che intendono impegnarsi sul tema della trasformazione costruttiva e della “pace con giustizia”. Introducendo di fatto un ibrido all'italiana tra “Cascos Blancos” e “Peace Corps”, tale inquadramento normativo inevitabilmente finirà per ispirare due tendenze distinte, all'interno del movimento, a seconda che si aderisca o meno all'impostazione fornita dal decreto stesso.