lunedì 13 novembre 2017

Conflitto e riconciliazione, tra cinema e diritti umani

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Una riflessione sui percorsi della pace e le prospettive della riconciliazione è una sfida necessaria, nel tempo della ricomparsa guerra permanente e della rinnovata minaccia nucleare. 

Bene ha fatto, il Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli, ad ospitare, nel programma degli eventi della sua IX edizione, in corso nella metropoli partenopea sino al prossimo 11 novembre, una tavola rotonda, con confronto e film, su queste tematiche. 

Appunto, in occasione del 25esimo della Guerra di Bosnia e la conseguente disgregazione della Jugoslavia.

Sono passati 25 anni da quella primavera del 1992 che inaugurò, con lo scoppio delle ostilità in Bosnia, la deflagrazione della conflittualità etno-politica, l’instaurazione di un nuovo paradigma che avrebbe trovato la sua più eclatante affermazione pochi anni dopo, ancora nei Balcani, in Kosovo, e l’urbicidio pianificato che ha accompagnato, da allora e per più di 1400 giorni, l’assedio più lungo della storia dei tempi recenti, a Sarajevo, capitale della Bosnia e città-simbolo di mille universi e linguaggi, religioni e culture plurisecolari. 

Le guerre dei Balcani lasciano ferite profonde, ben visibili perfino a uno sguardo sommario sulla carta geografica della Bosnia odierna, dopo la guerra etno-politica e la riformulazione politico-istituzionale prodotta dagli «Accordi di Dayton», proprio per il carattere, distorto e paradossale, dei nuovi assunti che inaugura: una «guerra celeste» (ancora di più lo sarebbe stata quella contro la Serbia del 1999), segnata dalla superiorità tecnologica delle potenze occidentali; una «guerra in presa diretta», raccontata spesso da giornalisti al seguito degli aggressori anziché al lato degli aggrediti; una guerra che finisce, attraverso la propaganda e la manipolazione, perfino per mortificare le parole e il loro significato, come ricorda Michele Nardelli: «Nel nome … dei diritti umani si fece grande uso di uranio impoverito e di armi chimiche. L’altro era la barbarie e anche i luoghi e le testimonianze di una cultura millenaria diventavano obiettivi di guerra».

Tutto ciò non impedisce, anzi rafforza, la convinzione di contrastare la “militarizzazione” della memoria e di esplorare le vie della riconciliazione. Ma: quale riconciliazione? Se e come, in che termini e attraverso quali modalità, sia possibile passare dalla coesistenza, contrassegnata da una quantità di separazioni e barriere, troppo spesso mentali oltre che fisiche, imposta da Dayton, alla convivenza, riattivando ed aggiornando l’eredità migliore della convivenza trans-nazionale nello spazio jugoslavo, sono stati i temi e gli interrogativi della tavola rotonda ospitata dallo spazio polifunzionale di «Piazza Forcella», a Napoli, il pomeriggio e la sera del 7 novembre, per l’evento centrato sul tema: «La Bosnia e i Balcani: orizzonti della riconciliazione». 

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Preceduto dalla testimonianza di Luca Saltalamacchia, che ha ricordato due tra le più significative esperienze di solidarietà internazionale e di “diplomazia dal basso” sperimentate dalla società civile in Bosnia all’inizio e all’indomani della guerra (la «Marcia dei Cinquecento», nel 1992, e il Progetto «Duga» a Sarajevo e Lukavica, tra le due parti della Sarajevo divisa dalla guerra, nel 1996), l’intervento di Rosanna Morabito ha messo in luce gli aspetti perfino linguistici di una contrap-posizione che attraversa l’intera società «bosniaca» (in quanto condivide la comune appartenenza al territorio della Bosnia Erzegovina), alimenta la disarticolazione della comune lingua serbo-croata (fino a ricostruire un lessico distinto per una specificità linguistica «bosniaca») e rinfocola le distinzioni tra «bosniacchi» (bosniaci musulmani) da una parte, e croati e serbi di Bosnia (questi ultimi nella Republika Srpska) dall’altra.

Se, da una parte, come ha riferito Maite Iervolino, è l’idea stessa di confine a dover essere trascesa e il concetto stesso di ponte, a cavallo tra le due sponde dell’Adriatico, a dover essere aggiornato, costruendo nuove occasioni di confronto e scambio culturale e di tessuto e condivisione dei vissuti; dall’altra, come ha rimarcato Francesco Soverina, non è possibile una memoria condivisa, bensì si tratta di affrontare la sfida delle memorie accoglienti, che non escludano le storie e le memorie “degli altri”, entro una cornice di salvaguardia democratica e di diritti umani, e traggano alimento da una vera assunzione di responsabilità, nei confronti degli eventi tragici degli anni Novanta: eventi su cui hanno agito nuclei locali di potere nazionalistico, ma su cui hanno pesantemente interferito potenze straniere e poteri esterni, interessati alla disgregazione del socialismo jugoslavo e all’acquisizione di nuove sfere di influenza politica ed economica.

La riconciliazione resta una strada necessaria e difficile, dunque, se è vero che le divisioni permangono, che il 70% dei giovani nei Balcani Occidentali mostra un atteggiamento negativo nei confronti dei giovani dei Paesi vicini, che le occasioni di autentico confronto inter-culturale e la possibilità di una effettiva mobilità trans-nazionale sono, tuttora, assai limitati, al punto che, oggi, per il regime dei visti tra Paese e Paese, come ricorda Ðuro Blanuša, «andare dalla Bosnia al Kosovo è una vera e propria mission impossible». E così, alla fine, Raffaele Crocco riconduce l’attenzione al ruolo dei media e delle pubbliche narrazioni e alla importanza di un percorso di verità e di giustizia, che coinvolga tutte le comunità di Bosnia, per rilanciare non più solo la speranza ma soprattutto la praticabilità di una ricomposizione, e quindi in prospettiva di una riconciliazione, che si nutra di relazione e di convivenza e faccia spazio alla democrazia e ai diritti umani.
 
Non a caso, il tema del film scelto per alimentare la riflessione ha come tema la “dimora”. «Home(s)», prodotto dal Festival Cinematografico dei Diritti Umani di Sarajevo nel 2016 (che, tra l’altro, si svolge quest’anno, nella sua XII edizione, negli stessi giorni del Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli, del quale è partner), è un film cooperativo, tra sperimentazione e video-arte, basato su un progetto di ricerca che ha chiesto a sette autori, in sette giornate, di cimentarsi sul tema «Home(s)», «Casa/e»: spazi e luoghi immaginari per amori e relazioni immaginari, a cavallo tra topografie della dimora, ora concrete, ora ideali. Una riflessione sulla prossimità e sullo spaesamento; quasi una rappresentazione della Bosnia attuale. 
 
«Abitare i conflitti significa indagarli, comprenderne le dinamiche di potere, provare ad immaginare nuove e diverse narrazioni rispetto a quelle delle parti in conflitto. È il complesso lavoro dell’elaborazione del conflitto, … che la cooperazione internazionale si guarda bene dal fare, ma senza il quale il tempo rimane sospeso, le guerre si portano dentro e il passato non passa. Nella costruzione di relazioni, nel cercare di favorire il dialogo, … c’è l’essenza di un impegno che prescinde dai progetti, perché le relazioni profonde non finiscono mai. Disporsi alla meraviglia, aprire occhi e orecchie, essere presenti al proprio tempo». Ancora in una riflessione di Michele Nardelli troviamo uno spunto che può accompagnare le conclusioni della tavola rotonda. E un contributo per continuare ad alimentare, con la speranza, iniziativa e impegno. 

Una lettura della Rivoluzione Disarmista di Carlo Cassola

L’ormai “storico” volumetto, pamphlet, di Carlo Cassola, La Rivoluzione Disarmista, pubblicato a Milano nel 1983, continua, nonostante i quasi trentacinque anni di distanza dalla pubblicazione, a parlarci di una vicenda attuale e a chiamarci ad un impegno, una responsabilità, davvero pressante. È forse questo tempo di “ricomparsa guerra permanente” e “rinnovata minaccia nucleare” a consegnarci una attualità imprevista della riflessione di Cassola; fatto sta che, dalla speranza nei presunti «dividendi della pace», all’indomani della fine della Guerra Fredda, della contrapposizione bipolare e della deterrenza nucleare, siamo ripiombati oggi in una stagione nella quale il nucleare continua a segnare il nostro tempo, la minaccia e la deterrenza nucleare tornano purtroppo di attualità, lo spettro della guerra resta aggressivo e minaccioso come in tanti altri momenti nel Novecento.

E così ridiventa utile leggere questo contributo di Cassola che, situandosi a metà strada, per l’andamento della sua stesura ed il carattere della sua argomentazione, tra il diario delle riflessioni personali e il saggio della ricerca analitica, assume davvero l’aspetto e il tono di un volumetto politico, insieme dotato di vigore letterario e di spessore polemico. Vale appena la pena di ricordare, detto in premessa, che, nel momento in cui ci riferiamo all’autore, stiamo parlando di uno dei più noti scrittori del Novecento Letterario italiano, autore di racconti e romanzi del calibro di “Fausto e Anna”, “I vecchi compagni” e soprattutto l’opera sua più famosa, “La ragazza di Bube”, che gli valse il Premio Strega nel 1960. Un autore sempre contraddistinto dallo sguardo penetrante e attento alle pieghe del vivere e alle sfumature dell’esistenza e dalla prosa piana e lineare, forse perfino semplice, lontana dall’avanguardia. Della sua letteratura, Salvatore Guglielmino, ad esempio, ha detto che «mira a cogliere, in una vicenda o in un gesto, il suo aspetto più autentico, l’elemento sia pur modesto e quotidiano che ci svela il senso di un’esistenza, il tono di un sentimento». 

Sincero democratico (partigiano nelle brigate garibaldine, iscritto al Partito d’Azione, consigliere socialista) ed autentico antimilitarista (fondatore della «lega per il disarmo», promotore di un celebre «appello degli uomini di cultura per il disarmo unilaterale dell’Italia», ispiratore di una vera e propria «rivoluzione disarmista»), è proprio all’idea (all’utopia?) di una «rivoluzione disarmista» che Cassola dedica il suo pamphlet. Il tema cruciale è quello della “rivoluzione” che occupa, infatti, un posto di primo piano nell’articolazione del volume, al punto che il capitolo introduttivo si intitola, ambiziosamente, “La Rivoluzione che non c’è stata”: «I due flagelli biblici della peste e della fame sono stai domati in epoca moderna (quello della fame, solo in Europa): con sollievo generale. Il flagello biblico della guerra continua ad esistere, con sopportazione generale. È ad esso che si devono i milioni di morti di fame ogni anno in quattro continenti. È ad esso che si dovrà, a brevissima scadenza, la fine del mondo, cioè il più gran crimine che l’uomo possa commettere ai danni di sé stesso» (p. 7). È forse appena il caso di osservare, con Cassola, che questa “rivoluzione”, prima ancora che “disarmista”, è senza dubbio “umanista”, almeno nel senso del carattere fondativo, quasi neo-illuminista, che la ragione umana deve avere nel suo sviluppo: «fuor di metafora dirò che l’intelligenza è progressista, anzi, rivoluzionaria; il pregiudizio è, per contro, conservatore e reazionario» (p. 9). Un bel messaggio, pertinente e sfidante, anche alla luce dei tempi che corrono: «il nuovo è la rivoluzione. Ed è facile capire perché: l’intelligenza non fa mai le cose a mezzo» (p. 13). 

Proprio per questo, la rivoluzione auspicata da Cassola non può che essere, al tempo stesso, e qui si giunge al nucleo della sua riflessione, “disarmista” ed “antimilitarista”, in senso complessivo: vale a dire, non solo nell’accezione negativa del superamento del complesso militare e delle articolazioni (e condizionamenti) di potere che ne derivano, ma anche nell’accezione positiva della trasformazione del modello di sviluppo in un senso che metta fuori gioco il primato o la centralità dello stesso complesso militare. Cassola non ha dubbi nell’individuare il principale problema del giorno d’oggi: «evitare ad ogni costo una terza guerra mondiale, che significherebbe la fine della vita sul pianeta terra» (p. 57). E si mostra lucidissimo anche nell’indicare la forma di questo problema: «non si risolve la questione sociale se non si elimina il peggiore ostacolo alla sua soluzione, vale a dire il militarismo» (p. 122). In questo modo, individua con precisione la connessione tra modello di sviluppo (capitalista) e logica della guerra (militarista) ed indica la direzione di marcia di una lotta conseguente contro la guerra e per la pace, vale a dire, al tempo stesso, contro il capitalismo e il militarismo e contro il primato del militare e la logica della sopraffazione nelle relazioni tra i popoli. 

Nell'immagine, il poster di una delle più recenti iniziative di presentazione del volume, uno degli ultimi interventi pubblici di Alberto L'Abate (1931 - 2017), per gli ulteriori approfondimenti dei cui contenuti si rimanda all'articolo su Odissea nonché al reportage a cura di Salvatore de Napoli per RTA live.