venerdì 24 aprile 2020

Israele: un accordo sotto l’egida del «Piano Trump»

Trump «Peace Plan», Map Attached, Public Domain

Raggiunto, finalmente, l’accordo in Israele, dopo tre estenuanti campagne elettorali, per un governo di “unità nazionale” che, presentato come «governo di emergenza nazionale», rischia di trasformarsi invece in un vero e proprio «governo di emergenza democratica». L’accordo tra i due partiti maggiori, il Likud del premier uscente Benjamin Netanyahu (che alle ultime elezioni aveva ottenuto il 29% dei voti e 36 seggi), il partito più consistente nel variegato schieramento della destra nazionale israeliana, e il Kahol-Lavan o «Blu-Bianco», dell’ex capo di stato maggiore della difesa, Benny Gantz (che nell’ultima tornata elettorale aveva ottenuto il 27% e 33 seggi) non corrisponde, infatti, semplicemente, alla volontà di intercettare un’ampia base parlamentare a sostegno del governo, ma, più profondamente, ai desiderata di ampia parte dell’establishment israeliano per una soluzione utile a portare i due partiti maggiori ad una corresponsabilità nelle scelte del governo e ad una sostanziale conservazione degli equilibri politici e istituzionali, in una parola, dello status quo.

Lo ha dimostrato, alla vigilia dell’accordo, tra le altre cose, la scelta del presidente della repubblica, Reuven Rivlin, di non concedere un prolungamento del mandato esplorativo per la formazione del nuovo governo a Benny Gantz, ma di rimettere la scelta alla Knesset, in modo da sollecitare i parlamentari a individuare una soluzione, nel termine dei 21 giorni previsti dalla legge. E infatti, in una lettera, indirizzata a Gantz, riportata dai media israeliani, così Rivlin motivava il rinvio alla Camera: «alla luce della situazione che la terza tornata elettorale ha prodotto, nella quale nessuno dei candidati gode del sostegno della maggioranza dei membri della Knesset […], ed essendo obbligato dalla Legge Fondamentale del 2001 a realizzare il più presto possibile un governo che goda della fiducia della Knesset, non vedo altra possibilità che affidare il compito alla Knesset» augurandosi al contempo che i deputati «riescano a formare una maggioranza tale da dare vita a un governo il più presto possibile e impedire una quarta tornata elettorale».

Se è vero che la quarta tornata elettorale consecutiva è stata evitata, è altrettanto vero che la soluzione trovata conferma alcuni dei peggiori timori della vigilia: intanto, si concretizza ancora una vera e propria conventio ad excludendum ai danni di uno dei vincitori delle ultime elezioni, la Lista Congiunta (con Balad, Ta’al, la Lista Araba e i comunisti di Hadash) che, con il suo 13% e i 15 seggi ottenuti, è la terza forza dello spettro politico israeliano.

E poi, l’alleanza è tesa a costruire un rinnovato blocco nazionale, che, se da una parte conferma l’«orientamento a destra» dell’intero quadro politico israeliano (l’accordo non solo si regge sul compromesso tra la principale forza della destra, il Likud, e un partito centrista, come Blu-Bianco, ma prevede anche l’ingresso al governo di altre forze moderate, come quella parte del Labour, dello storico partito laburista israeliano, che, al prezzo di una severa discussione interna e a rischio di una nuova lacerazione, deciderà di accettare di fare parte dell’esecutivo, o conservatrici, come i partiti religiosi, lo Shas e l’Ebraismo Unito della Torà, mentre anche al partito di destra Yamina è stato proposto di fare parte della compagine di governo), dall’altra scarica tutti i suoi costi, come diversi osservatori hanno messo in luce, sulla pelle del popolo palestinese sotto occupazione. Uno dei temi dell’accordo, di carattere generale, è stata la decisione di concentrare la gestione dell’emergenza legata alla diffusione della pandemia da coronavirus in una sorta di vero e proprio «gabinetto di vertice», sotto la direzione sostanzialmente monocratica dei due leader, Netanyahu e Gantz, anche con l’obiettivo di approvare una legge di bilancio, come si apprende, mirata a «garantire la stabilità e la ripresa dell’economia dopo la crisi dell’epidemia da coronavirus».

Nell’ambito dell’alternanza al potere prevista dall’accordo, in base alla quale Netanyahu avrà l’incarico di primo ministro per la prima metà e Gantz lo stesso incarico nella seconda metà della legislatura, Gantz sarà vice primo ministro di Netanyahu nei primi 18 mesi, Netanyahu sarà vice primo ministro di Gantz nei secondi 18 mesi, mentre i 32 ministeri saranno ripartiti tra i due partiti maggiori, con una quota riservata ai laburisti (Amir Peretz all’Economia e Itzik Shmuli al Welfare). Ma il tema di maggiore sofferenza dell’accordo riguarda, ancora una volta, la vita e i diritti del popolo palestinese: nella sua parte di premierato, infatti, Netanyahu proporrà, a nome del governo, alla Knesset un piano per un accordo con gli Stati Uniti finalizzato alla annessione di parti della Cisgiordania (nel linguaggio israeliano, come «implementazione della sovranità israeliana su parti della Cisgiordania»). Così, il nuovo governo di Israele nasce sotto la stella dell’incredibile «Piano Trump», respinto dai palestinesi e dalle diplomazie di mezzo mondo, radicalmente fuori e contro la giustizia e il diritto internazionale. Un pessimo inizio, che rischia di annunciare, non solo per i palestinesi, un giorno ancora peggiore.

domenica 12 aprile 2020

L’aprile che cambiò il volto dell’Europa

Sarajevo: «L'Uomo Multiculturale costruirà il Mondo» (Foto di Gianmarco Pisa)

La primavera 1992 cambiò il volto dell’Europa e riportò all’ordine del giorno l’orrore dei nazionalismi. Preceduta dalla «crisi del debito» e dalle ingerenze da parte delle istituzioni finanziarie internazionali, la disgregazione della Jugoslavia ebbe formalmente inizio con la dichiarazione di indipendenza della Slovenia il 25 Giugno 1991, seguita dalla breve «guerra dei dieci giorni», condotta dall’esercito jugoslavo (JNA) nel tentativo di preservare l’unità della federazione. Tuttavia, dopo l’annuncio, lo stesso 25 Giugno, dell’indipendenza della Croazia, la JNA avviò una campagna volta a difendere, insieme, l’unità della federazione e i diritti delle comunità, peraltro in un quadro di profonde alterazioni degli equilibri tra i diversi popoli e nazionalità, equilibri su cui si era retta, sino a quel punto, l’originale esperienza jugoslava.
 
Se già l’8 Ottobre 1991 la Croazia formalizzò in via unilaterale la rottura di tutti i legami con il resto della Jugoslavia, la guerra sarebbe stata ancora lunga e sanguinosa, con le operazioni “Lampo” in Slavonia e “Tempesta” nella Krajina, con il supporto degli Stati Uniti, sino alla primavera-estate del 1995, che provocarono tra i duecentomila e i duecentocinquantamila tra profughi e sfollati, ai danni delle comunità serbe di Krajina e Slavonia, che avevano respinto la secessione croata e costituita la auto-proclamata Repubblica Serba di Krajina. Dopo la rottura dell’Ottobre 1991, gli eventi precipitarono anche in Bosnia, contesto multinazionale per eccellenza, con il 44% della popolazione musulmana, il 32% serba, il 17% croata, il 6% «jugoslava», e ancora Rom e altre nazionalità. 

Il parlamento bosniaco, con atto unilaterale e senza la partecipazione dei deputati serbi, emanò una legge per la «Sovranità della Repubblica di Bosnia-Erzegovina» il 15 Ottobre, con lo scopo di secedere da tutti gli organi federali e sospendere tutti i legami col resto della Jugoslavia. La risposta della comunità serbo-bosniaca si concretizzò nella ri-organizzazione dei municipi a maggioranza serba nella cosiddetta Regione Autonoma Serba. Partì allora la stagione dei “referendum unilaterali” contrapposti: il 9-10 Novembre 1991 fu sancita la formazione della Repubblica dei Serbi di Bosnia, il 12 e il 18 Novembre 1991, rispettivamente, i Croati proclamarono l’autonomia della Comunità Croata della Posavina e della Comunità Croata della Herceg - Bosna. Nel fatidico 1992, mentre il 9 Gennaio i Serbi proclamavano la Repubblica del Popolo Serbo di Bosnia Erzegovina, il 27 Gennaio le comunità croate proclamavano la Comunità Croata di Bosnia ed Erzegovina. Intanto, il 25 Gennaio, era stato indetto il referendum per l’indipendenza della Repubblica di Bosnia Erzegovina.
 
Si gettano così le basi non solo della guerra ma, specificamente, della dissoluzione etnica della Bosnia e della futura, post-bellica, ripartizione etnico - amministrativa. Si determinarono allora le circostanze specifiche per la deflagrazione della guerra: il 1 Marzo 1992, giorno del referendum per l’indipendenza della Bosnia, i Berretti Verdi, una delle formazioni paramilitari bosniache, spararono su un corteo nuziale serbo nel cuore storico di Sarajevo, la Baščaršija, uccidendo il padre dello sposo, Nikola Gardović. Aveva inizio, con questo attentato, la «strategia del terrore» inaugurata dal cecchinaggio e dal tiro incrociato: i bosniaco-musulmani presero il controllo del centro di Sarajevo, i serbo-bosniaci di Grbavica, Novi Sarajevo, Ilidža, e le colline intorno alla capitale. 

Un primo tentativo di mediazione in bello tra Radovan Karadžić (serbo-bosniaco) e Alija Izetbegović (bosniaco-musulmano) per il pattugliamento congiunto nelle città e formazioni miste (JNA e polizia bosniaca) fu travolto dalla prima campagna militare croato-musulmana, che portò le Forze Armate della Repubblica di Croazia e le forze paramilitari bosniaco-musulmane ad irrompere lungo la Sava ed effettuare un massacro di sessanta civili serbi (26-27 Marzo 1992). La reazione serba portò i paramilitari serbi della Guardia Volontaria a prendere la città di Bijeljina presso il confine con la Serbia, oggi seconda città della Republika Srpska, dopo la capitale Banja Luka.
 
I popoli, e il popolo di Bosnia nello specifico, non volevano la guerra: la Marcia per la Pace organizzata dai cittadini di Sarajevo contrari alla guerra etnica e alla soluzione militare portò decine di migliaia di persone nelle strade il 5 Aprile 1992. Si trattava di una grande manifestazione popolare, di chiara impronta anti-nazionalistica e democratica, ancora una volta stroncata dalle forze paramilitari che, nella città, spingevano sempre di più per una rapida quanto drammatica escalazione militare. Il tiro dei cecchini, che le diverse fonti attribuiscono ora ai bosniaco-musulmani ora ai serbo-bosniaci, colpì i manifestanti; la spirale che si innescò avrebbe fatto dilagare la carneficina, consolidando la stretta dell’assedio sulla città da parte delle milizie serbo-bosniache, che avevano preso il controllo delle aree collinari circostanti.
 
Proprio il 6 Aprile 1992, ventotto anni fa, iniziava a tutti gli effetti la Guerra di Bosnia: sotto il tiro dei cecchini (Berretti Verdi e Milizie), colpita dalle artiglierie serbo-bosniache, Sarajevo si trasformò in una «città fantasma», in cui il centro storico, e l’aeroporto, erano controllati dai bosniaco-musulmani, Novi Sarajevo, e i quartieri limitrofi, dai serbo-bosniaci. La città conobbe l’assedio sistematico, oltre mille e trecento giorni, tra il 1992 ed il 1995, l’«urbicidio pianificato», in cui si visse una guerra sconvolgente, vecchia quanto la I Guerra Mondiale e moderna come tutti gli odierni conflitti etno-politici: l’evento bellico più grave occorso in Europa dalla II Guerra Mondiale. 

Sul versante della diplomazia internazionale, prima dello scacco di Srebrenica, le Nazioni Unite tentarono più volte mediazioni per definire dei «piani di pace» (Carrington-Cutileiro, Marzo 1992; Vance-Owen, Gennaio 1993; Owen-Stoltenberg, Agosto 1993), fallendo ogni tentativo. Sul versante delle azioni sul campo, se all’inizio (1992-1993) bosniaco-musulmani e croato-bosniaci si trovarono “alleati” contro i serbo-bosniaci, successivamente, dopo il fallimento della proposta Vance-Owen, che, per la prima volta, aveva introdotto il principio della partizione etnica del Paese, in tre sezioni etnicamente distinte, i croato-bosniaci avviarono una «guerra nella guerra» contro i bosniaco-musulmani nei territori in cui erano presenti comunità croate (Bosnia Centrale ed Erzegovina). 

Un’accelerazione verso la precipitazione finale del conflitto avviene a seguito della tragedia di Srebrenica, che segnala uno dei punti più gravi in assoluto delle atrocità commesse. Le tappe della escalazione di Srebrenica sono note: dal 16 Aprile 1993, la Risoluzione 819 rafforza la presenza del peace-keeping militare delle Nazioni Unite nelle città e nelle aree limitrofe; dal 6 Maggio 1993, la Risoluzione 824 istituisce le «zone protette» nell’area di Sarajevo, Tuzla, Žepa, Goražde, Bihać e Srebrenica; dal 4 Giugno 1993, la Risoluzione 836 autorizza l’uso della forza per la scorta degli aiuti umanitari e la difesa delle «zone protette». 

Sebbene delimitata e de-militarizzata dopo gli scontri che già vi si erano registrati tra il 1992 e il 1993 e dopo la promulgazione delle Risoluzioni dell’ONU, le milizie bosniaco-musulmane, sotto il comando di Naser Orić, continuavano a tenere armi all’interno della zona protetta a dispetto di quanto sancito dall’accordo di cessate il fuoco: le rappresaglie e le stragi da questi ordinate contro i villaggi serbo-bosniaci, tra le quali l’eccidio di Kravica, nella notte del 7 Gennaio 1993, in occasione del Natale Ortodosso, assunsero il carattere di una vera e propria pulizia etnica (con stime che, a seconda delle fonti, variano tra i 705 ed i 3.200 serbo-bosniaci uccisi tra il 1992 ed il 1995). 

Se rispondeva al fine di sfollare le enclavi musulmane nel territorio a maggioranza serba della Bosnia Orientale, l’eccidio di Srebrenica maturò anche come reazione alle stragi precedenti da parte bosniaca musulmana e si inscrive nella logica perversa della campagna contrapposta di pulizia e contro-pulizia etnica; l’esercito serbo-bosniaco, sotto il comando di Ratko Mladić, entrò in città l’11 Luglio 1995. I morti furono migliaia, le cifre stimano le vittime tra le 3.568 (delle perizie analitiche dell’ICTY al 2001) e le 8.372 (dell’elenco del Memoriale di Potočari al 2015), la gravità dei fatti è innegabile. L’insieme degli eventi e la pulizia etnica avente epicentro a Srebrenica restano tra le pagine più sconvolgenti del nostro tempo.
 
Nel giro di sei mesi, la guerra di Bosnia finisce e comincia la lunga stagione, non ancora conclusa, della «pace fredda» e della «costituzionalizzazione» dei rapporti sul campo, sia in termini di acquisizioni territoriali, sia in termini di separazione in entità mono-etniche autonome. L’accordo, stipulato a Dayton (Ohio) il 21 Novembre 1995, sancisce l’intangibilità delle frontiere esterne sulla linea di confine fra le repubbliche ex-jugoslave e la divisione interna della Bosnia (BiH) in due entità distinte: la Federazione di Bosnia ed Erzegovina (51% del territorio, 10 cantoni e 92 municipalità) e la Republika Srpska (49% del territorio, 7 regioni e 63 municipalità), al cui interno si staglia il distretto autonomo di Brčko. 

Le due entità sono entità statali a tutti gli effetti, dotate di poteri autonomi salvo la politica estera, la difesa e la moneta. La Presidenza del Paese è collegiale per un mandato quadriennale, ripartito tra un serbo, un croato e un musulmano, che a turno, ogni otto mesi per due tornate, si alternano nella carica di presidente. L’organizzazione del potere dà un’idea della sofisticazione di questa «combinazione mono-etnica». Ciascuna entità è dotata di una presidenza, un parlamento e un governo: la Repubblica Serba (RS) di un governo e di un’assemblea monocamerale, la Federazione croato-musulmana di un governo e di una assemblea bicamerale, cui vanno aggiunti primo ministro, ministri e consiglieri dei cantoni. 

A livello statale complessivo, fanno parte della Camera dei Rappresentanti 42 deputati (28 eletti nella Federazione e 14 nella RS), della Camera dei Popoli 15 deputati (5 serbi, 5 croati e 5 musulmani). Se si considera che non si possono approvare i disegni di legge senza la maggioranza (con un sistema di quote) delle tre rappresentanze nazionali «costituenti» in entrambi i rami del Parlamento, che tra la federazione centrale, le due entità statuali e le ripartizioni amministrative, il Paese conta qualcosa come un centinaio tra ministri e simili, si può avere un’idea del «rompicapo di Dayton», su cui il giudizio storico sembra ormai assodato: uno strumento necessario per porre fine alla guerra, che aveva causato, secondo le stime, cento mila morti (il 68% bosniaci, il 26% serbi, il 5% croati, l’1% di altri gruppi), tra cui attivisti (Guido Puletti, Fabio Moreni, Sergio Lana il 29 Maggio; Gabriele Moreno Locatelli il 3 Ottobre 1993) e reporter (Marco Luchetta, Alessandro Ota, Dario D’Angelo, giornalisti della RAI di Trieste, il 28 Gennaio 1994), ma anche una drammatica conferma della separazione etnica e delle sue assurde disfunzionalità. 

In definitiva, uno tra i mille segnali dell’orrore della guerra, e delle sue conseguenze; ma anche, al contrario, della esigenza di verità e di giustizia, dell’istanza cruciale della pace, e del bisogno della convivenza pluriculturale.