domenica 9 dicembre 2018

Beni comuni, patrimoni culturali, convivenza

Recentissima pubblicazione per la Multimage di Firenze, casa editrice dei diritti umani, il volume dal titolo «Paesaggi Kosovari. Il patrimonio culturale come risorsa di progresso e opportunità per la pace», è stato presentato il 1° dicembre 2018 presso il Giardino Liberato di Materdei, a Napoli, in una dimensione in cui testo e contesto proveranno a dialogare e interagire costantemente.

Il volume è il risultato di una ricerca-azione sul tema dei patrimoni culturali in contesti di conflitto, contesti che hanno subito la furia della guerra, in particolare della guerra etno-politica, e che attraversano un estenuante post-conflitto, presi nella morsa tra gli interessi delle grandi potenze, che condizionano l’autonomia e lo sviluppo di queste comunità, e la violenza che continua a diffondersi nel tessuto delle relazioni, inoculando il proprio veleno, esasperando le divisioni e le segregazioni sociali, etniche, comunitarie.

Siamo nel cuore dell’Europa, appena al di là della “sponda adriatica” del Mare di Mezzo, dove tanti eventi, importanti e decisivi, per la storia sociale e culturale della vicenda europea si sono dipanati. Siamo nel territorio della ex Jugoslavia, che dopo la vittoria contro il nazifascismo e la liberazione della regione, ad opera delle formazioni partigiane e socialiste di Tito, aveva saputo inaugurare una originalissima via nazionale al socialismo, fatta di autogestione della produzione, federalismo e non-allineamento. Siamo in Serbia, e, in particolare, in Kosovo, dove il paradigma della guerra etno-politica e delle cosiddette “nuove guerre” è stato inaugurato proprio nel 1999.

Ma siamo anche nel contesto di una vibrante attualità. La Serbia, come altri Paesi dei Balcani Occidentali, ciascuno con le proprie forme e nei propri tempi, è alle prese con il proprio, dibattuto e controverso, processo di adesione alla Unione Europea. La Serbia e il Kosovo sono impegnati in un dialogo politico per giungere ad una soluzione della cosiddetta «controversia kosovara», che non si può che auspicare basata su una formula win-win, che sappia guardare ai bisogni della popolazione, piuttosto che agli interessi degli Stati. In Kosovo, e intorno al Kosovo, gravitano non pochi patrimoni mondiali dell’umanità dell’UNESCO, luoghi e beni culturali di grandissima rilevanza storica e culturale, di bellezza, di memoria del passato e di speranza nei confronti del futuro.

Il Monastero di Dečani; il Patriarcato di Peć; la Chiesa della Bogorodica Ljeviška, la Madre di Dio di Ljeviš, a Prizren; il Monastero di Gračanica, poco distante dal capoluogo, Prishtina; l’antica Stari Ras e lo splendido Monastero di Sopočani, in Serbia, e ancora, poco oltre, lo splendido Monastero di Studenica, sono solo alcuni, quelli all’interno delle liste dell’UNESCO nella zona, tra i patrimoni culturali che continuano ad esercitare un fascino indiscutibile e che spesso portano con sé un messaggio che non si limita a ricordare i fasti del passato e le memorie del tempo che fu, ma può continuare a ispirare un messaggio, un contenuto, positivo, per l’oggi e per il domani.

È importante che questo interrogativo, che la ricerca stessa avanza e rilancia, possa essere affrontato in un luogo così significativo come il “Giardino Liberato” di Materdei a Napoli. Lo stesso Giardino Liberato è, infatti, un patrimonio culturale dove si esercita iniziativa sociale e in cui si tesse la memoria del passato con la prospettiva del futuro. È questo giardino il cuore dello spazio un tempo occupato dal complesso delle Teresiane, restituito alla collettività sin dal 2012 grazie a una iniziativa dal basso di cittadini e cittadine per farne un bene comune, riconosciuto, dalla Città di Napoli, «tra i beni comuni emergenti e percepiti dalla cittadinanza quali ambienti di sviluppo civico e, come tali, strategici».

La scheda del libro e le ulteriori informazioni sono disponibili al link:
http://www.multimage.org/libri/paesaggi-kosovari-1998-2018

mercoledì 26 settembre 2018

«Alla scoperta di Galtung»


È un’iniziativa importante, quella realizzata dal Centro Gandhi di Pisa, con la pubblicazione, nel dicembre 2017, del volume di Johan Galtung, a partire da un dialogo con Erika Degortes, dal titolo «Alla scoperta di Galtung. J. Galtung illustra i fondamenti della sua opera di mediatore dei conflitti in un dialogo con E. Degortes», volume, peraltro, arricchito da una bella presentazione a cura di Rocco Altieri e, tra gli ulteriori contributi, da due appendici, la prima con la ripubblicazione dell’articolo di Galtung del 26 maggio 2014 sugli “Studi per la Pace: dieci punti fondamentali”, e la seconda con un’intensa “Conversazione con Antonino Drago in otto domande”. Si diceva dell’importanza e del merito di questa pubblicazione; ma si potrebbe dire ancora di più e meglio: si tratta di un volume di una forza indiscutibile, oltre che di una utilità spiccata.

Anzitutto, anche grazie ai contenuti di queste presentazioni e di queste appendici, vi è una partecipazione attiva ed una ricapitolazione interessante delle idee e del lavoro di alcuni tra i grandi maestri della ricerca per la pace in Italia, non solo, come detto più sopra, Rocco Altieri e Tonino Drago, ma anche Nanni Salio e Alberto L’Abate, ai quali, scomparsi rispettivamente nel febbraio 2016 e nell’ottobre 2017, è dedicato un bel contributo, anche questo redatto da Rocco Altieri, “In memoria di Nanni Salio e Alberto L’Abate”. E poi, tratto decisivo della pubblicazione, vi si svolgono, attraverso il dialogo con Erika Degortes, una poderosa ricapitolazione dell’intero approccio galtunghiano alla ricerca-azione per la pace (e, in particolare, agli studi sulla pace e i conflitti, all’analisi della violenza e alle proposte per la mediazione) ed una formidabile sintesi degli aspetti fondamentali del suo pensiero (operazione davvero meritoria, se solo si pensa che si tratta di un pensiero che, spaziando dalla logica all’epistemologia e dalle relazioni internazionali agli studi per la pace, si dipana in una produzione monumentale, fatta di oltre cento volumi e di oltre mille tra articoli, editoriali e saggi brevi). Il libro ha quindi il grande merito di compendiare e sintetizzare, in forma di dialogo e con un’articolazione efficacemente razionale, questo pensiero, e l’altrettanto grande utilità di porsi come manuale, una guida agile per ricapitolare idee, concetti e strumenti di base della mediazione dei conflitti.

E dunque: quali sono queste idee e queste proposte fondamentali? Nel dialogo, articolato in tre sezioni, ne vengono esposte venti, corrispondenti ai paragrafi che compongono i capitoli. Di questi venti concetti, per il modo come vengono affrontati dallo stesso Galtung e per il carattere di connettori che hanno nello svolgimento del dialogo, risaltano, senza dubbio, tre. Il primo è la «dimensione epistemologica» della ricerca-azione per la pace. Lo riferisce lo stesso autore: «l’episteme è la porta di ingresso per comprendere Galtung» (p. 32). Il nesso fondamentale sul quale si basa gran parte della riflessione e della pratica di Galtung, che, poco oltre, si definisce, al tempo stesso, «ricercatore per la pace» e «operatore di pace» (p. 42), è rappresentato dal carattere relazionale della dinamica del conflitto e della trasformazione e, quindi, dal rilievo delle relazioni umane e delle contraddizioni fondamentali sia nell’innesco dei conflitti, come incompatibilità tra bisogni, interessi e obiettivi delle parti, sia nella costruzione della pace, come contesto della cooperazione basata su equità ed empatia: «ciò che esiste sono tutte le relazioni, compresi i rapporti yin/yang al loro interno, tutti da esplorare, per comprendere la realtà» (p. 34). La dimensione epistemologica (nella quale forte si avverte l’influenza del pensiero orientale e, in particolare, del taoismo), risalta tanto nell’approccio «sia-sia», volto ad individuare i sanogeni e i patogeni in ogni aspetto della realtà e in ogni dimensione della relazione, quanto nella dinamica «positivo-negativo» che connota gli attributi della nonviolenza e della pace (p. 65). È qui il secondo concetto fondamentale della ricerca-azione di Galtung: «pace negativa e pace positiva», che l’autore, riprendendo Gandhi, efficacemente spiega nel suo dialogo: «la nonviolenza negativa era azione per ridurre la violenza con mezzi nonviolenti, … la nonviolenza positiva era azione per promuovere cooperazione e armonia attraverso mezzi pacifici» (p. 66).

Il che è anche presupposto del Metodo Transcend, l’orientamento alla definizione di una realtà nuova nella dinamica di relazione tra le parti, per consentire il superamento, o trascendimento, del conflitto, che è il grande apporto metodologico di Galtung alla «teoria-prassi per la risoluzione dei conflitti»: mappare il conflitto, individuare gli obiettivi legittimi, sulla base dei bisogni fondamentali e dei diritti umani, e costruire ponti tra le incompatibilità per giungere a soluzioni condivise di mutuo beneficio. Ci porta così al terzo punto-chiave: l’articolazione di un «pensiero pratico orientato alla azione». È una lezione importante di Galtung, «qualcosa che fosse teoreticamente semplice e che orientasse la pratica» (p. 78), come, appunto, la sua famosa formula della pace: 

(equità × empatia) ÷ (trauma × conflitto). 

Lo si diceva all’inizio: un libro prezioso, che ci consente di avviarci al galtunghismo e, prima ancora, di ampliare la nostra visuale e la nostra consapevolezza, in una prospettiva di abolizione della guerra e costruzione, sempre più, di pace con giustizia.

domenica 19 agosto 2018

Kosovo: la tentazione della separazione etnica?

Monumento NEWBORN, per il decennale della indipendenza, Prishtina

I luoghi comuni si moltiplicano, in un agosto in cui i cosiddetti “Balcani Occidentali” sembrano avere riguadagnato la scena; e, in questa cornice, il Kosovo in particolare. La cancelliera tedesca Angela Merkel è stata l’ultima, in ordine di tempo, proprio intorno alle giornate di Ferragosto, ad intervenire sulla questione più sensibile, che pure sembra affermarsi anche nei circoli diplomatici e nelle osservazioni degli analisti: una inedita partizione, magari nella forma di uno «scambio di territori», tra la Serbia ed il Kosovo, per giungere finalmente ad un accordo risolutivo tra le parti.
 
«Per la Germania la ridefinizione dei confini è una questione chiusa, quindi come andare contro questa posizione? È ovvio che ci vorrà molto più tempo di quanto si sarebbe potuto immaginare. Ciò che qualcuno può aver pensato, che un accordo possa essere raggiunto nel giro di due o tre mesi, è qualcosa da dimenticare». Così ha sintetizzato i termini della questione il presidente serbo, Aleksandar Vučić, che pure era sembrato, negli ultimi tempi, caldeggiare questa ipotesi.
 
Ma cosa si intende per “ridefinizione dei confini”? Mascherata dietro il linguaggio diplomatico e coperta, di volta in volta, da sinonimi ed eufemismi, sia in alcuni passaggi con la stampa, sia in una recente presa di posizione pubblica a Šid, nel nord della Serbia, non distante dalla Croazia, la proposta è stata più volta ribadita, non solo da Vučić, ma  anche da alcuni alti ufficiali del governo serbo; ed è rimbalzata a Prishtina, dove sembra avere trovato alcuni tra i leader albanesi kosovari, e in primo luogo il presidente stesso della regione separatista, Hashim Thaçi, non contrari.
 
Qualche tempo fa, la premier serba Ana Brnabić, in una presa di posizione pubblica, aveva precisato quale dovrebbe essere il carattere di fondo di una soluzione di compromesso equilibrata, capace di spianare la strada ad un accordo tra Belgrado e Prishtina: tutti dovranno poter ottenere qualcosa, ciascuno dovrà cedere qualcosa. È impensabile un accordo in cui l’una o l’altra delle due parti possa ambire ad ottenere il 100% di ciò che pretende. È da lì che sia il presidente serbo, sia, in maniera più netta, la leadership albanese kosovara, hanno iniziato a porre l’accento sull’esistenza di «linee rosse», dei limiti invalicabili, o conditio sine qua non, nel quadro delle trattative in corso.
 
Una piena indipendenza “di fatto”, senza il riconoscimento ufficiale della sovranità del Kosovo, è il punto di vista di Belgrado. Riconoscimento pieno dello stato kosovaro e adesione a tutte le organizzazioni internazionali, secondo, invece, il punto di vista di Prishtina. Mediati dall’alto rappresentante per la politica estera dell’Unione Europea a Bruxelles, i dialoghi diplomatici tra serbi e albanesi kosovari non stanno dando, tuttavia, i frutti sperati; anzi, gli ultimi incontri nel mese di luglio, prima dei prossimi, forse già a settembre, sono stati definiti i più difficili degli ultimi tempi.
 
I «luoghi comuni» non sono finiti, se è vero che, in una recente conferenza presso l’Hotel Moskva, nel cuore della capitale, Belgrado, il ministro degli esteri serbo, Ivica Dačić, ha sottolineato come proprio un certo cambio di atteggiamento da parte dell’amministrazione statunitense sia stato tra i presupposti dell’apertura della nuova opzione, quella relativa alla “ridefinizione dei confini”: gli Stati Uniti hanno sempre considerato “chiusa” la questione kosovara con la proclamazione dell’indipendenza (dieci anni fa, il 17 febbraio 2008); adesso sembrano più propensi a disinnescare il «pilota automatico» e più aperti ad una soluzione alternativa raggiunta direttamente da Belgrado e Prishtina.
 
Purché non sia una soluzione che scoperchi per l’ennesima volta il «vaso di Pandora»: lo scambio di territori cui si sta guardando rischia di essere pericoloso e minaccia di scatenare una reazione a catena di portata regionale. Si tratta, infatti, di uno scambio di territori per linee etniche: i confini sarebbero ritracciati in modo che rientrerebbero sotto la piena sovranità serba i distretti a maggioranza serba del Kosovo settentrionale (tra Leposavić, Zvečan, e Zubin Potok, fino a Kosovska Mitrovica), mentre al Kosovo verrebbe assegnata l’estrema parte sud-orientale della Serbia, la zona, a maggioranza albanese, della valle di Preshevo, con le municipalità di Bujanovac, Medvedja, e la stessa Preshevo.
 
D’altra parte, come ha scritto Gordana Filipović, «due decenni dopo la disintegrazione della ex Jugoslavia, nel conflitto più sanguinoso dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, riscrivere i confini rischierebbe di destabilizzare una regione ancora alle prese con gravi tensioni tra i vari gruppi», serbi, albanesi, croati, bosniaci, macedoni. La Republika Srpska potrebbe rivendicare la separazione dalla federazione croato-musulmana cui è “unita” nel contesto, anche questo nato da una riscrittura post-bellica dei confini, della Bosnia Erzegovina. La Macedonia, ancora alle prese con la disputa con la Grecia sul proprio nome, è popolata da una forte componente albanese, non insensibile al richiamo separatista. 
 
Perfino la parola “guerra” sembra, purtroppo, tornare in auge. Contrario all’apertura mostrata da Thaçi nei confronti della proposta sui confini, il premier albanese kosovaro, Ramush Haradinaj, si è spinto al punto da dichiarare che la guerra ha sancito questi confini, e solo una nuova guerra potrà definirne di nuovi. Nessuno sembra o vuole ricordare che un accordo di principio tra le due capitali è già stato siglato: risale al 19 aprile 2013, lascia intatti i confini, definisce lo status del Kosovo senza un suo riconoscimento ufficiale ed esplicito da parte della Serbia, prevede, all’interno dei confini kosovari, la formazione di una comunità dei comuni serbi, sulle dieci municipalità a maggioranza serba della regione, dunque non solo i distretti del Nord del Kosovo, dotata di sostanziale autonomia. 

Potrebbe essere il viatico per risolvere la questione in maniera costruttiva, nel senso che, citando Daniel Serwer della John Hopkins University, «se la Serbia e il Kosovo vorranno essere stati democratici e membri dell’UE, dovrebbero lasciare le loro minoranze nazionali entro i confini esistenti». Ed ovviamente, impegnarsi lungo la strada di un accordo reciprocamente accettabile, e nella tutela dei diritti di tutti, in particolare delle minoranze nazionali. Dovremmo davvero lasciarci alle spalle gli incubi degli “stati etnici”. Ma non sembra sia ancora, purtroppo, arrivato il momento. 

Linkto: ildialogo.org
 

sabato 4 agosto 2018

Contro il revisionismo e il negazionismo. Il caso Nedić

I «Tre Pugni», simbolo del notevole Memorial Park di Bubanj, a Nis, nel sud della Serbia,
in memoria dei caduti negli eccidi nazisti in Serbia tra il 1942 e il 1944
e della Lotta di Liberazione della Jugoslavia
(Foto di Gianmarco Pisa, Missione in Serbia, 09-20 Luglio, 2018)

L’Alta Corte di Belgrado, con una decisione assunta lo scorso 11 luglio, ma resa pubblica solo alla fine di luglio, ha respinto la richiesta di riabilitazione che avrebbe dovuto, nelle intenzioni dei proponenti, portare all’annullamento del decreto delle autorità jugoslave dell’epoca, in base al quale Milan Nedić fu dichiarato «nemico del popolo» e conseguentemente privato dei diritti politici e delle proprietà private. Si tratta del decreto assunto dalle autorità della Jugoslavia post-bellica, che si incamminava lungo il cammino del socialismo jugoslavo, un esperimento che si sarebbe poi rivelato interessante ed inedito nella storia del socialismo realizzato, e che aveva conquistato la propria libertà a seguito di una eroica lotta di resistenza partigiana, una delle più impressionanti in Europa, contro gli occupanti nazisti e i collaborazionisti locali. 

I proponenti avevano avanzato la richiesta di riabilitazione riferendosi alle decisioni delle autorità jugoslave come «infondate» dal punto di vista giuridico e amministrativo, ritenendo, di conseguenza, che la condanna del generale collaborazionista sarebbe stata decisa esclusivamente in forza di una decisione politica e per ragioni eminentemente ideologiche. Insomma, nella domanda era contenuto, implicitamente, anche il tentativo di una riabilitazione revisionistica, che puntasse a fare passare Milan Nedić come “vittima”, ingiustamente privato della libertà e sottoposto a processo politico. Peraltro, la decisione della corte giunge ad esito di un iter giudiziario lungo ed articolato, se è vero che il procedimento per la riabilitazione di Nedić è stato avviato, ormai, dieci anni fa, nel 2008, e che le udienze innanzi alla corte, alla presenza del pubblico, hanno avuto inizio solo verso la fine del 2015, trovando, peraltro, subito eco sulla stampa nazionale.

Non c’è dubbio, per la forma e per la tempistica, che l’intera operazione rappresenti un tentativo di riabilitazione postuma e si inscriva nel contesto di «revisionismo diffuso» nel dibattito e nella letteratura storiografica dei Paesi della ex Jugoslavia dopo la fine dell’esperienza socialista e la disgregazione della federazione multinazionale. Non si tratta peraltro di un caso isolato, non solo nell’Europa dell’Est, quando il venire meno delle esperienze di democrazia popolare e di provenienza antifascista, unito alla generale trasformazione che quei Paesi andavano affrontando e all’affievolirsi della memoria pubblica intorno agli eventi della resistenza, della liberazione e delle trasformazioni sociali post-belliche, ha dato nuova linfa a tentativi di ridefinizione delle memorie e riscrittura della storia, spesso ad uso e consumo delle nuove élite.

Lo stesso Milan Nedić è stata una delle figure più controverse della storia serba contemporanea: politico e generale, già nel 1941 fu nominato presidente del cosiddetto “Governo di Salvezza Nazionale” della Serbia, vale a dire il «governo fantoccio» delle autorità naziste d’occupazione del Paese, che avrebbe dovuto allineare il governo e l’amministrazione del Paese alle decisioni dell’Asse, sostenendone in particolare lo sforzo bellico, le campagne di occupazione e di aggressione, le deportazioni e lo sterminio. Ciononostante la sua figura è divenuta paradossalmente controversa negli anni Novanta e in particolare nel corso degli anni Duemila, quando nel dibattito pubblico sono comparse anche posizioni inclini a considerare Nedić non tanto un «nemico del popolo», criminale o traditore, quanto piuttosto un patriota, che ha difeso l’integrità della Serbia e ha combattuto per gli interessi del popolo serbo sotto occupazione della Germania nazista.

È ovviamente, come capo del governo serbo nel corso dell’occupazione, corresponsabile di attività legate alla Shoah, all’istituzione di campi di concentramento e della persecuzione di ebrei, comunisti e antifascisti. Né di poco conto il fatto che, all’indomani della liberazione della Serbia, si ritirò con i Tedeschi in Austria, cercando di organizzare anche una resistenza nazionalista alla nuova Jugoslavia socialista. Arresosi agli Alleati, fu consegnato alle nuove autorità jugoslave; condotto in arresto nel gennaio del 1946, si è suicidato, il 4 febbraio, prima che fosse aperto il processo per collaborazionismo, crimini di guerra e contro l’umanità.

Il direttore del Centro Simon Wiesenthal, Efraim Zuroff, a tal proposito, ha ricordato che il ruolo svolto da Nedić, come primo ministro dello “stato quisling” che ha servito gli interessi del Terzo Reich in Serbia, è di per sé una ragione sufficiente per respingerne la riabilitazione. Secondo quanto ha riportato la stampa, «l’inerzia di fronte all’esigenza di salvare serbi ed ebrei è una prova evidente della sua gravissima responsabilità nell’aver accettato di guidare un “governo fantoccio” che ha tradito i cittadini della Serbia» e ha servito gli interessi del Reich. 300.000 i serbi uccisi, 80.000, tra questi, nei campi di concentramento, nel corso della guerra mondiale e della occupazione della Serbia. Non meno di un milione e mezzo i morti jugoslavi nel corso della guerra, almeno 300.000 i partigiani di Tito caduti per la liberazione del Paese.

sabato 2 giugno 2018

L'impegno dei Corpi Civili di Pace

Fonte, Wikimedia Commons


«Operatori di Pace e prevenzione dei conflitti armati: l’impegno dei Corpi Civili di Pace»

Il 29 Maggio è una data importante, di valenza internazionale, per il lavoro degli operatori e delle operatrici di pace. Il 29 Maggio è, infatti, la «Giornata Mondiale dei Peacekeeper», istituita dalla Assemblea Generale delle Nazioni Unite, con Risoluzione 57/129 del 2003. Le Nazioni Unite hanno scelto questa data, altamente simbolica, perché il 29 Maggio del 1948 fu inaugurata la prima missione di peacekeeping delle Nazioni Unite: la storica missione UNTSO (la United Nations Truce Supervision Organization), per il rispetto del cessate il fuoco in Palestina.
 
La Risoluzione 50 (1948) del Consiglio di Sicurezza, varata proprio il 29 Maggio del 1948, istituiva, infatti, la missione UNTSO allo scopo di monitorare la tregua con l’impiego di mediatori delle Nazioni Unite assistiti da un’equipe di militari con il ruolo - esclusivamente - di osservatori. Dal 1948 si sono svolte 70 missioni di peacekeeping delle Nazioni Unite e oggi sono attive 15 missioni in 4 continenti. Dal 1948 centinaia di migliaia di persone sono state impegnate nelle missioni ONU; oggi, 15 mila sono i civili e 90 mila i militari impegnati in tali missioni. Sono più di 3500 i peacekeeper che hanno perso la vita in missione. L’impegno degli operatori e operatrici di pace, in particolare degli operatori e operatrici nonviolenti, è sempre più importante, in un mondo lacerato da escalation di tensione e precipizi di violenza.
 
Il «peacekeeping» è uno strumento importante, a disposizione delle Nazioni Unite, per accompagnare o sostenere gli sforzi necessari alla cessazione del conflitto, alla supervisione delle linee di tregua e alla definizione dei presupposti per la difficile transizione dalla guerra alla pace. Nella loro odierna «configurazione multidimensionale», i e le peacekeeper sono impegnati in diversi compiti: non solo mantenere la pace e la sicurezza, ma anche proteggere i civili, facilitare i processi di transizione, fornire assistenza nelle operazioni di disarmo, smobilitazione e reintegro degli ex combattenti, e fornire assistenza e supporto ad altri compiti più propriamente di «costruzione della pace», come sostenere i processi costituzionali e la riforma dello stato di diritto, supportare l’organizzazione del processo elettorale e il monitoraggio elettorale, proteggere e tutelare i diritti umani.
 
È tipico del «peacebuilding», infatti, agire in senso preventivo, della violenza e della guerra, e pro-attivo, per consolidare le condizioni per una pace sostenibile e duratura. Il peacebuilding è infatti uno strumento necessario per consentire a popoli e stati di superare il conflitto, prevenire il rischio di una ulteriore precipitazione nella violenza e nella guerra, porre le fondamenta per costruire pace positiva e sviluppo sostenibile. I compiti, tipicamente civili, delle operazioni di peacebuilding vanno infatti dalla ricostruzione della fiducia al ripristino delle relazioni sociali, dalla facilitazione della comunicazione alla promozione sociale, dall’educazione alla pace e alla nonviolenza alla tutela e promozione dei diritti umani, al sostegno agli operatori e alle operatrici di pace in zona di conflitto e di post-conflitto.
 
Si tratta di un impegno faticoso, spesso non adeguatamente supportato, e, al tempo stesso, estremamente rischioso. Per questi motivi e su queste tematiche, è in programma a Vicenza, martedì 29 Maggio, 2018, con inizio alle ore 18.30, presso la “Casa per la Pace”, in Via Porto Godi, 2, un confronto pubblico sul tema «Operatori di Pace e prevenzione dei conflitti armati: l’impegno dei Corpi Civili di Pace», con i contributi di Francesco Ambrosi, del MIR/IFOR Nazionale e di Vicenza, di Matteo Soccio della Casa per la Pace vicentina, e Gianmarco Pisa, IPRI - Corpi Civili di Pace. L’incontro, occasione anche di presentazione del volume di Gianmarco Pisa, «Ordalie. Memorie e Memoriali per la Pace e la Convivenza», edito da Ad Est dell’Equatore, Napoli, 2017, a partire da una ricerca-azione sul campo, dedicata ai luoghi della memoria e ai patrimoni culturali per la pace, è anche l’opportunità per riflettere sulle dimensioni del simbolico, luoghi, culture e narrazioni, nel «lavoro di pace».

lunedì 21 maggio 2018

Memorie e Culture per la Pace e la Convivenza

Museo Etnologico "Emin Gjiku", Prishtina, Kosovo (Foto di G. Pisa)

Nel “lavoro di pace” e, nello specifico, nei processi di trasformazione del conflitto e di ri-composizione post-conflitto, il complesso delle forme e delle dinamiche che appartengono all’universo culturale assume un’importanza, sebbene spesso sottovalutata o non colta appieno, rilevante e significativa. Spesso distorta per alimentare ostilità e conflitto, la sfera culturale può costituire, infatti, un potente fattore di soggettivazione e di legame, tanto negli aspetti materiali, espressi intorno a luoghi ed oggetti fisici del patrimonio culturale, quanto intorno ai patrimoni immateriali, intangibili, “fatti” di narrazioni e simboli, figure ed eventi, celebrazioni e pratiche rituali.

Il riconoscimento dei giacimenti culturali e la valorizzazione dei luoghi della memoria, che, a propria volta, costituiscono punti di sedimentazione delle memorie collettive, assurgono a occasioni preziose, contro l’oblio e lo spaesamento, per costruire pace e condivisione. Sul terreno culturale si gioca, infatti, il confronto delle identità, multiple e cangianti, e si dipana la sfida del superamento dei conflitti etno-politici. Nello scenario europeo e mediterraneo, spazio continuo di conflitti e di attraversamenti, i Balcani, nucleo e limes d’Europa, esprimono polifonie di voci e di culture, ricche di potenziali di pace, e riverberano possibilità di inclusione e di convivenza. Riprendendo Johan Galtung, infatti: «Condividere insieme l’arte di una cultura dopo l’altra può già costituire una costruzione della pace; e ancor di più esporsi all’arte che crea essa stessa ponti tra le culture. Essi riconosceranno i propri temi, e la loro armonia con le altre culture può diventare quella tra le culture».

I luoghi del patrimonio culturale, materiale e immateriale, i beni di rilevante interesse storico e culturale, paesaggistico e archeologico, i luoghi della memoria, nell’orizzonte delineato dalla Carta UNESCO e nella prospettiva del «culture-oriented peace-building», vale a dire della trasformazione dei conflitti e della costruzione della pace lungo i percorsi individuati dalla «convergenza tra le culture», attraverso il Mediterraneo, irradiano per il futuro, nei Balcani, nel Kosovo post-conflitto, messaggi di trasformazione, di convivenza e di giustizia. Come indica Lisa Schirch, tra gli altri, la sfera culturale può, infatti, consentire «all’“impossibile” di divenire “reale” in quanto le persone possono generare un contesto unico in cui, anche se solo temporaneamente, simboli, messaggi sensibili ed emozioni espresse riescono a comunicare ciò che le parole, da sole, non possono».

Nei termini in cui si esprime la Carta UNESCO, in effetti, «una pace basata esclusivamente sugli accordi politici ed economici tra governi non è una pace che possa godere del sincero, unanime e duraturo supporto dei popoli del mondo, laddove, al contrario, la pace deve essere fondata, se non intende fallire, sulla piena solidarietà, morale e intellettuale, dell’umanità». Sicché, come recita l’art. 1, «scopo dell’UNESCO è contribuire alla pace e alla sicurezza promuovendo la cooperazione tra i popoli, attraverso l’educazione, la scienza e la cultura, al fine di promuovere il rispetto universale per la giustizia e lo stato di diritto, i diritti umani e le libertà fondamentali».

Occasione di confronto su queste tematiche, la presentazione del volume “Ordalie. Memorie e Memoriali per la Pace e la Convivenza” (Napoli, 2017), Mercoledì 23 Maggio 2018, ore 17.00, Complesso Monumentale di S. Maria la Nova, Napoli, con gli interventi di Elena Coccia, Consigliera Delegata al Patrimonio Culturale, Città Metropolitana di Napoli; Amarilis Gutierrez Graffe, Console Generale a Napoli della Repubblica Bolivariana del Venezuela; Immacolata Caruso, Istituto di Studi sulle Società del Mediterraneo, ISSM - CNR, Consiglio Nazionale delle Ricerche; Dorotea Giorgi, femminista, Casa Internazionale delle Donne, Trieste; Maria Teresa (Maite) Iervolino, anglista e boemista, mediatrice culturale; Manuela Marani, esperta di sviluppo territoriale e di cooperazione decentrata; Rosanna Morabito, docente di lingua e letteratura serba e croata, Università “L’Orientale”, Napoli. L’iniziativa ha il patrocinio morale della Città Metropolitana di Napoli e dell’Osservatorio Permanente per il Centro Storico di Napoli Sito UNESCO. 


giovedì 22 marzo 2018

Kosovo: quando la guerra «ferma» il tempo


Foto di Arben Llapashtica, via Wikimedia Commons


Sembra incredibile, ma le cose stanno così: tutti gli orologi attivati da rete elettrica in Europa, come ad esempio, ma non solo, gli orologi delle radio-sveglie, dei forni elettrici, del riscaldamento elettrico, sono sistematicamente in ritardo, accusano cioè un ritardo, che si è progressivamente accumulato a partire dal gennaio di quest’anno, che ammonta adesso a circa sei minuti. 

La spiegazione più immediata sta in una “irregolarità” nella frequenza della rete elettrica europea, come ha confermato un comunicato emesso lo scorso 6 marzo dalla ENTSOE, la Rete Europea degli Operatori dei Sistemi di Trasmissione dell’Elettricità, vale a dire la rete degli operatori di rete elettrica attivi nel cosiddetto «Continental European Power System», un’area comune di frequenza elettrica sincronizzata, che abbraccia 25 Paesi e che si estende dalla Spagna alla Polonia e dai Paesi Bassi alla Turchia. Qui, dalla metà del gennaio 2018 – riporta il comunicato – «si sta verificando una continua deviazione nella frequenza di sistema rispetto al valore principale di 50 Hz». 

Perché questo scostamento sia così significativo e possa avere effetti così paradossalmente rilevanti, è lo stesso comunicato a spiegarlo, quando specifica che un sistema elettrico sincronizzato è un sistema ad ampio raggio (in termini tecnici, una griglia di elettricità) che copre diversi Paesi che operano sulla base di una frequenza sincronizzata e che è tenuta insieme, sotto il profilo elettrico, in normali condizioni di sistema. Nell’Europa continentale, tale frequenza sincronizzata è pari a 50 Hz. 

Tuttavia «affinché il sistema funzioni correttamente, la frequenza non può essere inferiore a 47.6 Hz. e superiore a 52.4 Hz. Ai valori-limite di 47.5 Hz. (sotto-frequenza) e di 52.5 Hz. (sovra-frequenza) i dispositivi collegati si disconnettono automaticamente. La frequenza media a partire da metà gennaio del 2018 sino ad oggi è stata di 49.996 Hz.» inferiore ai 50 Hz. della frequenza media di sincronizzazione. Questo determina il ritardo. 

Vi è un ammanco di energia attualmente pari a 113 GWh. La conseguente riduzione della frequenza sotto i 50 Hz. provoca un ritardo, oggi pari a sei minuti, in tutti gli orologi alimentati dall’energia elettrica nel continente europeo. Ma cosa ha determinato questo vero e proprio, sorprendente, «rallentamento del tempo»? 

«Le deviazioni di potenza» – spiega il comunicato della ENTSOE – «hanno origine nella zona di controllo denominata Serbia, Macedonia, Montenegro (SMM) e, in particolare, in Kosovo e Serbia». E la questione, che a prima vista sembrava ascrivibile a mere motivazioni “tecniche”, finisce per avere invece risvolti e ragioni ben più profonde, politiche: «I disaccordi politici che contrappongono le autorità della Serbia e del Kosovo hanno determinato questo impatto sull’elettricità. Se non sarà trovata una soluzione a livello politico, il rischio di tale deviazione potrà permanere». 

Da quanto si apprende, infatti, proprio a partire dalla metà del gennaio di quest’anno, il Kosovo ha iniziato a consumare più elettricità di quanta ne produce, in relazione ai parametri di produzione e di consumo stabiliti e regolati a livello europeo. Questo ammanco di energia non è stato ripianato e, pertanto, dal momento che il sistema elettrico europeo è interconnesso e i valori regolati in maniera tale da coinvolgere tutti i Paesi connessi nella rete, l’ammanco ha causato un geometrico «effetto domino» da un capo all’altro del continente. 

Come è stato riferito dalla stampa, se vi è uno squilibrio da qualche parte, questo si riverbera sulle altre parti; se vi è una riduzione, questa porta a una lenta diminuzione della frequenza. E così, a cascata, la mancata soluzione dei problemi del Kosovo e lo stallo negli accordi tra Belgrado e Prishtina, ha finito per riverberarsi sul continente. 

Che la controversia richieda una soluzione di natura politica, lo dimostra il tenore delle reciproche accuse tra autorità serbe e kosovare: l’operatore elettrico serbo ha precisato che, nei mesi di gennaio e febbraio, le autorità kosovare hanno prelevato, senza autorizzazione, energia elettrica dall’area continentale europea di sincronizzazione, determinando quindi l’ammanco, la riduzione di frequenza, e il ritardo negli orologi; viceversa, dall’operatore elettrico kosovaro hanno riconosciuto che energia elettrica sia stata stornata nel Kosovo settentrionale, fuori dal controllo delle autorità centrali kosovare, e tuttavia quei consumi elettrici non sono stati pagati all’ente elettrico. 

Il Nord del Kosovo, a maggioranza serba e legato a Belgrado, è in ampia misura fuori dal controllo delle autorità centrali, a maggioranza albanese, del Kosovo. Anche questa situazione è figlia di una controversia politica: Belgrado e Prishtina hanno pattuito un Accordo sull’Energia nel 2015 finalizzato alla costituzione, da parte dell’ente elettrico della Serbia, di una propria controllata per la fornitura dell’energia elettrica in Kosovo, per le municipalità a maggioranza serba della regione; ma l’accordo non è stato implementato, la compagnia prevista non è stata ancora registrata e autorizzata, e le autorità kosovare mostrano, nel migliore dei casi, una certa “indolenza”, nell’implementazione di questi accordi, finalizzati, con altri, alla normalizzazione delle relazioni tra le due “capitali”. 

Il primo accordo di principio per la normalizzazione delle relazioni risale, ormai, al 19 Aprile 2013, l’epoca dei famosi, storici, Accordi di Bruxelles, o Brussels Agreement. Quasi cinque anni di ritardi. E sei, incredibili, minuti.

lunedì 26 febbraio 2018

Un centro culturale serbo a Prishtina, Kosovo

Saint Nicholas Church, Prishtina, Kosovo, by Eraalickaj, commons.wikimedia.org/wiki/File:Saint_Nicholas_Orthodox_Church_in_Prishtina,_Kosovo.JPG


Apre a Prishtina, con l’obiettivo dichiarato di preservare la cultura, i costumi e le tradizioni della comunità serba del Kosovo, che oggi ammonta a non più di una trentina di persone in città, il Centro Culturale Serbo, nei locali della Chiesa di San Nicola, nel centro storico del capoluogo kosovaro, poco distante dal Museo Etnografico Emin Gjiku. La stessa Chiesa di San Nicola rappresenta, peraltro, un «luogo della memoria» per i Serbi della città e della regione. 

La Chiesa, infatti, è stata più volte presa di mira e ripetutamente attaccata dal 2002 in avanti; durante i numerosi attacchi l’ingresso principale è stato danneggiato e le finestre sono andate distrutte. Si tratta di una piccola, storica, chiesa, costruita nel 1830 sulle fondamenta del vecchio monastero serbo-ortodosso di San Nicola, ed è legata a una, tuttora presente sebbene sempre più remota, «memoria collettiva» dei Serbi del Kosovo, dal momento che è l’ultima chiesa serbo-ortodossa rimasta attiva nel capoluogo kosovaro fino ai pogrom anti-serbi del marzo 2004, che finirono col cancellare le ultime tracce di presenza serba in città. Restaurata grazie anche a fondi UE, è rientrata in funzione solo nel 2010.
 
In occasione della storica apertura è stata inaugurata, nei locali del centro culturale, una mostra di fotografie e cartoline sul tema della «Vecchia Prishtina» e una mostra di opere pittoriche. «I pittori serbi oggi sarebbero felici di essere qui con noi, nella città in cui hanno vissuto, creato, esposto le loro opere. Molti di loro hanno organizzato atelier e hanno visto distruggere le loro composizioni. Questa mostra, attraverso la loro creatività, segna il ritorno simbolico degli artisti serbi in città», questo il commento, riportato dagli organi di informazione, dello storico dell’arte Nebojša Jevtić. 

Il Centro Culturale Serbo, che intende organizzare per il futuro dibattiti e mostre, incontri e conferenze, è stato aperto per offrire un punto di riferimento culturale per tutti i serbi del Kosovo, come ha riferito il vescovo della diocesi di Raška e Prizren, Teodosije, che ha partecipato all’inaugurazione e benedetto i locali dello spazio culturale. «Per riunire le persone in amore, unità e armonia», sono state le sue parole. E ancora: «Per promuovere e preservare ciò che è sacro e degno, ciò che i nostri antenati hanno creato e consegnato a noi, e che noi stessi, a nostra volta, siamo chiamati a mantenere e preservare per le future generazioni. Per inviare da qui un messaggio di pace e di unità».
 
All’apertura del Centro Culturale hanno partecipato il vice direttore dell’Ufficio Serbo per il Kosovo, Dušan Kozarev, il Segretario di Stato del Ministero dell’Economia, Branimir Stojanović, il sindaco di Gračanica. «Questo è un pezzo simbolico nel grande mosaico del ritorno della presenza serba a Prishtina», ha riferito alla stampa locale Dušan Kozarev. Ha aggiunto che oggi il popolo serbo lotta per gli stessi valori del 1804, quando ha combattuto per la giustizia, l’onestà, la verità, chiaro riferimento, storico e  simbolico, alla prima rivolta serba, scoppiata proprio nel 1804 e proseguita sino al 1813, quando i serbi insorsero contro l’oppressione ottomana, e «il diritto ad una vita normale per tutti». 

«Questo è un luogo simbolico nel grande mosaico del ritorno dei serbi a Prishtina», aggiungendo, ancora con toni evocativi, «i serbi mancano a Prishtina e Prishtina manca ai serbi. Prishtina non è Prishtina senza la presenza serba e la cultura serba». Il Centro Culturale Serbo a Prishtina si propone dunque di essere un luogo di incontro e di scambio, non solo del popolo serbo, ma anche con le comunità vicine, «con tutti i vicini, indipendentemente dal loro nome e cognome» e con ospiti e amici provenienti da tutto il mondo.
 
Nella Chiesa di S. Nicola si è tenuta anche una celebrazione in occasione della festa della Candelora, con la benedizione delle candele, che celebra la festività della presentazione al Tempio e la festa della Luce. Anche qui si riscontra una tradizione “orientale”: la festa ebbe origine in Oriente con il nome di «Ipapante», vale a dire «Incontro». Soprattutto nella Gallia, a partire dal VI secolo, si caratterizzò per la solenne benedizione e per la processione delle candele (da cui la designazione di festa delle Luci) che ha dato il nome alla festività.

domenica 18 febbraio 2018

Una voce da Terezín

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Presentazione del libro: 
Una voce da Terezín. Miriam e altri racconti di Ivan Klíma, ed. Mephite;  
Napoli, 2 Febbraio 2018 

Una suggestiva iniziativa culturale ha avuto luogo, lo scorso venerdì 2 febbraio, per l’intero pomeriggio, presso i locali della meravigliosa chiesa settecentesca di S. Tommaso a Capuana, nella zona dei Tribunali, a Napoli, ospitata dalla associazione di volontariato «Sisto Riario Sforza», dedita alla realizzazione di uno studio medico volontario e autogestito per gli indigenti e al sostegno agli ultimi e ai più poveri della società. 

Introdotta dalla presentazione, della bellezza del luogo e delle attività della associazione, a cura del presidente, il dott. Modestino Caso, si è tenuta infatti la presentazione della raccolta di racconti di Ivan Klíma, curati e tradotti dalla dott.ssa Maria Teresa Iervolino, accompagnata, nella presentazione, dalle relazioni di Aristide Donadio, insegnante, e Gianmarco Pisa, operatore di pace, IPRI - Corpi Civili di Pace. 

L’iniziativa è stata anche la preziosa occasione per commemorare la Giornata del 27 Gennaio, Giornata della Memoria, in ricordo delle vittime della Shoah e del genocidio perpetrato dai nazisti e dai collaborazionisti, in particolare nella Seconda Guerra Mondiale, per riportare all’attenzione dei presenti l’orrore del nazismo e l’unicità del loro disegno di genocidio, di cancellazione delle differenze e di sterminio del popolo ebraico. 

In questo contesto, coerente con il messaggio affinché mai più la barbarie del fascismo, del nazismo e dell’autoritarismo abbia a ripetersi e mai più dittature, colonialismi e genocidi abbiano a manifestarsi in Europa e nel mondo, ha portato i propri saluti alla prestigiosa iniziativa anche la dott.ssa Amarilis Gutierrez Graffe, decano del corpo consolare di Napoli, console generale della Repubblica Bolivariana del Venezuela.

Oggetto del volume, la vicenda, umana e intellettuale, di Ivan Klíma, che, attraverso i testi qui raccolti e tradotti, fornisce la narrazione di un’esperienza vissuta a Terezín, nel campo di prigionia nazista nella Repubblica Ceca, a sessanta chilometri da Praga, dal quale Klíma è sopravvissuto, diventando poi uno degli scrittori più importanti, vincitore del Premio «Magnesia Litera» 2010, del Novecento letterario boemo.

L’evento letterario è stato anche l’occasione per richiamare l’attenzione dei presenti sull’importanza e sul valore della memoria, in particolare della memoria collettiva, come richiamo a un patrimonio condiviso di valori in cui la comunità si riconosce e in cui si costruisce l’identità storica di una popolazione, al valore della resistenza, umana e intellettuale, alla barbarie, al pericolo del ritorno del fascismo sul suolo europeo. 

È stata richiamata e stigmatizzata la recente proposta di legge del parlamento polacco, oggetto di critiche provenienti da diverse parti, che condanna quanti attribuiscano alla Polonia una qualche corresponsabilità per la Shoah, come pure la nota delle autorità croate circa la recente, suggestiva, mostra inaugurata il 25 gennaio presso il Palazzo delle Nazioni Unite a New York, dal titolo «Jasenovac: il diritto di non dimenticare».

Come la Bielorussia, come testimoniato nell’iniziativa, ha perduto il 25% della sua popolazione nella II Guerra Mondiale, la Grande Guerra Patriottica per i popoli sovietici, così anche la Jugoslavia vide perire circa il 10% della sua popolazione nel conflitto mondiale; e nei territori della ex Jugoslavia, in quella che era all’epoca l’entità-fantoccio, collaborazionista, del cosiddetto «Stato Indipendente di Croazia», si consumarono alcuni tra i massacri più efferati della guerra, il cui epicentro furono il regime degli ustaša e il lager di Jasenovac. 

A proposito della Bielorussia, l’evento di presentazione del volume è stato accompagnato dalla esibizione canora del coro «Spadcina» che, sotto la direzione del m° Rosa Montano, si è esibito sia in canti popolari e tradizionali della cultura bielorussa, sia in canti di resistenza e partigiani, in onore e a tributo della lotta di resistenza e dei partigiani caduti, sui diversi fronti della lotta contro il nazi-fascismo, per la libertà. 

Alcuni brani del volume sono stati inoltre letti dalla dott.ssa Sonia Benedetto. L’iniziativa ha avuto, infine, l’adesione da parte della Associazione «Lidia Menapace - Culture e Memorie», anche essa attiva a Napoli, impegnata, coerentemente con lo spirito della serata, per la solidarietà tra i popoli e per la democrazia.