venerdì 25 novembre 2016

Accogliere per Includere

Il Museo della Memoria "21 Ottobre" di Kragujevac, in Serbia. Il Museo commemora uno dei più tragici eccidi nazisti commessi nel territorio della ex Jugoslavia, quando, tra il 18 e 21 ottobre, 1941, tremila persone, tra cui perfino bambini rastrellati dalle scuole, furono sterminati nell'area. All'ingresso compare uno dei momumenti del parco, le tre "Sudjaje", figura tipica della mitologia slava, corrispondenti alle "Parche" della mitologia classica e romana, le divinità che sovrintendono alla nascita e tessono il destino degli uomini, rappresentano, all'ingresso del "memorial park", il destino delle persone qui commemorate.


Anche quest'anno, come di consueto, tra le varie città impegnate, anche a Napoli si è “celebrata” la ricorrenza della Giornata della Tolleranza, lo scorso 16 Novembre. Declinata quest'anno nel senso di una vera e propria “Giornata della Tolleranza e dell'Accoglienza”, essa è stata, in effetti, molto più di una mera “celebrazione” o “commemorazione”, bensì, alla fine, si è trasformata in una bella e partecipata occasione di confronto e di dialogo, appassionato e orizzontale, sui grandi temi che dilaniano le nostre coscienze e che impegnano il nostro agire: conflitti, migrazioni, esclusioni.

Grazie all'impegno profuso dalle associazioni coinvolte, in primis l'IPRI (Istituto Italiano di Ricerca per la Pace) - Rete CCP (Corpi Civili di Pace), l'Associazione “Culture e Memorie - Lidia Menapace”, e l'Associazione ospitante, “Sisto Riario Sforza”, con il supporto del Consolato Generale a Napoli della Repubblica Bolivariana del Venezuela, il pomeriggio e la serata, trascorsi insieme, nella splendida cornice della Chiesa di San Tommaso a Capuana, nel cuore del Centro Antico, Patrimonio UNESCO, della Città di Napoli, si sono rivelati un'occasione utile per “onorare”, senza dubbio, i contenuti della Dichiarazione UNESCO, ma anche per rilanciare ulteriori energie ed impegni.

Proprio dall'UNESCO, infatti, l'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Istruzione, la Scienza e la Cultura, è partita, ormai più di venti anni fa, la iniziativa della “Dichiarazione sul Principio di Tolleranza”, che l'organizzazione ha adottato in occasione della Conferenza Generale del 16 Novembre 1995, e con la quale essa ha inteso ed intende lanciare un richiamo, un monito e una chiamata all'impegno, tanto alle autorità quanto ai popoli, ad agire e mobilitarsi per gli ideali e i valori della convivenza: una convivenza declinata in senso attivo, fonte di eguaglianza e inclusione.

Non a caso, infatti, come recita in Preambolo, «l’attuale crescita dell’intolleranza, della violenza, del terrorismo, della xenofobia, del nazionalismo aggressivo, del razzismo, dell’antisemitismo, dell’esclusione, della emarginazione e della discriminazione, nei confronti delle minoranze nazionali, etniche, religiose e linguistiche, dei rifugiati, dei lavoratori e dei migranti, degli immigrati e dei gruppi vulnerabili», nonché «l’aumento degli atti di violenza e di intimidazione ai danni di persone che esercitano la propria libertà di opinione e di espressione» costituiscono comportamenti «che minacciano il consolidamento della pace e della democrazia, sia a livello nazionale, sia a livello internazionale, e che costituiscono altrettanti ostacoli allo sviluppo». Sin dall'inizio, cioè, sono individuati esplicitamente, nei grandi e tragici capitoli della discriminazione, del fanatismo, dell'intolleranza, dell'antisemitismo e del razzismo, i mali che, tra gli altri, alimentano conflitti e segregazioni e attraversano imperiosamente il nostro tempo, imponendo una risposta civile e sociale.

Ma non c'è solo questo: c'è, in particolare, da attrezzare una risposta, che non può non basarsi sul terreno educativo, della formazione delle giovani generazioni e della maturazione delle coscienze, e non può, al tempo stesso, non alimentarsi di percorsi effettivi e concreti di eliminazione delle diseguaglianze e di contrasto alla povertà in tutte le sue forme, nella consapevolezza, ribadita peraltro anche da numerosi passaggi della conferenza in S. Tommaso, che la pace non possa essere declinata come un ideale irenico e astratto, né possa limitarsi alla sola, fin troppo comoda e funzionale, «assenza della guerra», ma debba essere invece declinata in una maniera più completa ed esigente, come costruzione di relazioni sociali improntate alla libertà e alla giustizia, insieme, come superamento delle condizioni materiali e sociali che alimentano la separazione nelle nostre società, come occasione, e cioè in positivo, di «pace positiva», di costruzione attiva della pace.

Lo ribadisce, in un passaggio successivo, ancora la Dichiarazione, quando puntualizza che non si può intendere il “principio di tolleranza” come “concessione”, “accondiscendenza”, “compiacenza”; bensì sottolinea, all'art. 1, che «la tolleranza è un atteggiamento attivo, animato dal riconoscimento dei diritti universali della persona umana e delle libertà fondamentali dell’altro. In nessun caso la tolleranza potrà essere invocata per giustificare attentati a tali virtù fondamentali». In questo senso, attivo, essa può porsi a fondamento delle società democratiche e pluralistiche e concorrere alla prevenzione della violenza e alla costruzione di un ordine fondato appunto su “pace con giustizia”.

Poco più avanti, entrando maggiormente nel concreto, nell'art. 4, la Dichiarazione sancisce inoltre l'impegno «a realizzare programmi di ricerca nell’ambito delle scienze sociali e di educazione alla tolleranza, ai diritti umani e alla non-violenza. È necessario accordare maggiore attenzione al miglioramento della formazione degli insegnanti, dei programmi di insegnamento, del contenuto dei manuali e di altri tipi di materiale pedagogico, incluse le nuove tecnologie, per formare cittadini solidali e responsabili, aperti alle altre culture, capaci di apprezzare il valore della libertà, rispettosi della dignità degli esseri umani e delle loro differenze e capaci di prevenire i conflitti».

Difficile, pertanto, declinare la “tolleranza” senza il “conflitto”: conflitto che sia occasione di sviluppo e di progresso, di crescita e di maturazione di rapporti sociali più liberi e più giusti, insieme, e che, pertanto, non può e non deve degenerare in violenza catastrofica o distruttiva, ma semmai aprire orizzonti di autentica trasformazione sociale. Questo aspetto ha, in fondo, legato tra di loro le due comunicazioni di apertura, del pomeriggio in S. Tommaso a Capuana, a cura di Modestino Caso e di Gianmarco Pisa, quando è stato messo l'accento, ricordando l'impegno della Associazione “Sisto Riario Sforza”, sull'esigenza di rispondere fattivamente ai bisogni degli ultimi della società e di contrastare la povertà dilagante, non solo nelle periferie, ma, ormai, sempre più drammaticamente fin nel cuore dei centri urbani delle nostre metropoli capitalistiche (l'Associazione ospita, tra l'altro, anche un centro di ascolto e di supporto ed uno studio medico per i più poveri).

O quando è stata richiamata all'attenzione la minaccia della guerra, che, attraversando imperiosa il Mediterraneo, entra sempre più drammaticamente nelle porte di casa, alimentando le migrazioni dal Sud e dall'Est, contribuendo alla militarizzazione dei nostri territori e del nostro spazio pubblico, drenando risorse e radicalizzando la povertà (si è fatto riferimento, tra gli altri, al progetto PRO.ME.T.E.O., «PROductive MEmories to Trigger and Enhance Opportunities», in corso di svolgimento in alcuni territori della ex Jugoslavia, in particolare in Kosovo, dove il tema della “memoria collettiva” e quello dei “luoghi della memoria” possono diventare non solo occasione di riappropriazione ma anche terreno di convivenza, opportunità di reciprocità e di inclusione sociale).

Uno degli spunti del confronto è stata, infatti, anche la presentazione del volume, anch'esso legato ai percorsi costruttivi di articolazione di iniziative e di corpi civili di pace in Kosovo (iniziative sociali, non governative, per la prevenzione della violenza e la trasformazione dei conflitti), dal titolo La Pagina in Comune, pubblicato per i tipi di “Ad Est dell'Equatore”, in cui i due piani, infatti, si intersecano e si combinano: le eredità e le conseguenze dei tragici conflitti nei Balcani e in particolare della guerra del Kosovo (1999), la dinamica e le iterazioni del meccanismo della povertà e della separazione, che ancora attraversano la regione, come hanno messo in evidenza anche i contributi al dialogo delle professoresse Rosanna Morabito e Armida Filippelli, laddove la guerra, lungi dal risolvere i problemi, prevenire le violazioni dei diritti umani, impedire una catastrofe umanitaria, non ha fatto altro che congelare, fissare e radicalizzare quelle contraddizioni: distruzione del tessuto della convivenza e congelamento di un clima, nella regione, di separazione quando non di ostilità nei rapporti inter-etnici; riduzione degli spazi della solidarietà, anche a livello internazionale, e aumento della povertà e della esclusione (il Kosovo, oggi, è, secondo le statistiche, la regione più povera d'Europa, con un tasso di disoccupazione superiore al 35%, una disoccupazione giovanile superiore al 60%, una drammatica condizione di povertà che riguarda, ormai, più del 30% della popolazione e decine di migliaia di persone letteralmente scappate, specie negli ultimi tre anni).

Anche gli interventi di Maria Teresa Iervolino e di Lucia Vecchione hanno ribadito, non solo i contenuti sociali, ma anche quelli educativi, maieutici e pedagogici, del lavoro per l'accoglienza e l'inclusione; e nelle sue conclusioni la Console Generale a Napoli del Venezuela, Amarilis Gutiérrez Graffe, illustrando due originali contributi video sulla pluralità delle minoranze etniche e delle culture ancestrali in Venezuela, ha ricordato il valore cruciale di una democrazia «plurale e sociale», capace di alimentare, nell'eguaglianza tra le differenze etniche e culturali, inclusione e giustizia.

venerdì 11 novembre 2016

La Giornata della Tolleranza

La Giornata della Tolleranza, che, ogni anno, su iniziativa delle Nazioni Unite, si celebra il 16 Novembre, è un'occasione preziosa, specie nel nostro tempo, in Europa e non solo, per confrontarsi sui fenomeni epocali delle migrazioni e delle segregazioni (sociali, etniche, culturali) e alimentare iniziativa e mobilitazione sui temi della “pace con giustizia”, della inclusione e della accoglienza.

Indetta ormai più di venti anni fa, a seguito della adozione, da parte dell'UNESCO, della “Dichiarazione sul Principio di Tolleranza”, in occasione della Conferenza Generale del 16 Novembre 1995, essa intende costituire un richiamo alle autorità e ai popoli ad agire e mobilitarsi per gli ideali e i valori della convivenza.

Sono state le stesse Nazioni Unite, raccogliendo il messaggio dei popoli e delle organizzazioni più avanzate della società civile, a denunciare le minacce e i pericoli che sono alla base dell'urgenza e della necessità di un richiamo così forte, cui tutti e tutte dobbiamo sentirci impegnati: «l’attuale crescita dell’intolleranza, della violenza, del terrorismo, della xenofobia, del nazionalismo aggressivo, del razzismo, dell’antisemitismo, dell’esclusione, dell’emarginazione e della discriminazione nei confronti delle minoranze nazionali, etniche, religiose e linguistiche, dei rifugiati, dei lavoratori e dei migranti, degli immigrati e dei gruppi vulnerabili», nonché «l’aumento degli atti di violenza e di intimidazione ai danni di persone che esercitano la propria libertà di opinione e di espressione, comportamenti, questi, che minacciano il consolidamento della pace e della democrazia, sia a livello nazionale, sia a livello internazionale, e che costituiscono altrettanti ostacoli allo sviluppo».

Per questo, la Dichiarazione cui facciamo riferimento, non intende il “principio di tolleranza” come concessione, accondiscendenza, compiacenza; bensì sottolinea, al suo art. 1, che «la tolleranza è, prima di tutto, un atteggiamento attivo, animato dal riconoscimento dei diritti universali della persona umana e delle libertà fondamentali dell’altro. In nessun caso la tolleranza potrà essere invocata per giustificare attentati a tali virtù fondamentali». In questo senso, attivo e dinamico, essa può porsi a fondamento delle società democratiche e pluralistiche e concorrere fattivamente alla prevenzione della violenza e alla costruzione di un ordine fondato sulla “pace con giustizia”.

Non a caso, nell'art. 4, essa sancisce l'impegno «a realizzare programmi di ricerca nell’ambito delle scienze sociali e di educazione alla tolleranza, ai diritti umani e alla non-violenza. A questo scopo, è necessario accordare maggiore attenzione al miglioramento della formazione degli insegnanti, dei programmi di insegnamento, del contenuto dei manuali e dei corsi e di altri tipi di materiale pedagogico, incluse le nuove tecnologie educative, per formare cittadini solidali e responsabili, aperti alle altre culture, capaci di apprezzare il valore della libertà, rispettosi della dignità degli esseri umani e delle loro differenze e capaci di prevenire i conflitti o di risolverli con mezzi non-violenti».

Per questi motivi, su iniziativa delle Associazioni “Sisto Riario Sforza”, Culture e Memorie - “Lidia Menapace”, Istituto Italiano di Ricerca per la Pace - Rete Corpi Civili di Pace (IPRI - Rete CCP), col supporto del Consolato Generale a Napoli della Repubblica Bolivariana del Venezuela, anche quest'anno si tiene un convegno sui temi della “pace con giustizia”, dell'accoglienza e dell'inclusione.

Nel contesto della presentazione del volume di Gianmarco Pisa, La Pagina in Comune, Edizioni “Ad Est dell'Equatore”, 2015, nella splendida cornice della Chiesa di San Tommaso a Capuana, Via dei Tribunali, 216, Napoli, si confrontano: Lucia Vecchione, Associazione “Sisto Riario Sforza”; Maria Teresa Iervolino, Associazione Culture e Memorie “Lidia Menapace”; Armida Filippelli, Docente di Lettere e Filosofia, Dirigente Scolastico nei Licei; Rosanna Morabito, Docente di Lingua e Letteratura Serba e Croata, Università Orientale di Napoli; Amarilis Gutiérrez Graffe, Console Generale a Napoli della Repubblica Bolivariana del Venezuela. È previsto il saluto di apertura di Modestino Caso, Presidente della Associazione “Sisto Riario Sforza” e riflessioni finali, in conclusione, di Elena Coccia, Presidente della Commissione Cultura, Consiglio Comunale, Napoli.

Linkto: Pressenza Italia

giovedì 3 novembre 2016

Una "Capitale Europea della Cultura"

Acka27 (Opera Propria) [Public Domain], attraverso Wikimedia Commons

La capitale europea della cultura torna nei Balcani, nel territorio, in particolare, della ex Jugoslavia e, per la prima volta, si apre la strada verso un Paese non membro dell'Unione Europea: il 13 ottobre scorso, infatti, la Commissione Europea ha annunciato che il titolo di “Capitale Europea della Cultura”, per il 2021, è stato assegnato alla città di Novi Sad, una delle più importanti città della regione, storica città d'arte e di cultura, ieri della Jugoslavia, oggi della Serbia, capoluogo della regione autonoma della Vojvodina. Sebbene la notizia sia passata in sordina presso la nostra stampa, nondimeno si tratta di una notizia importante, non solo per gli appassionati di arte e di cultura, ma soprattutto per quanti ritengono la cultura e l'arte occasioni di conoscenza e di reciprocità, opportunità da cogliere non solo in senso economico, ma prevalentemente in direzione di una più solida conoscenza, una più autentica amicizia tra i popoli e una più piena convergenza tra le culture.

Novi Sad può ben rappresentare questi ideali. È città bella ed elegante, da sempre crocevia di popoli e di culture, dove il corso delle vicende storiche e le ripetute conquiste che si sono avvicendate nella città, che conta oggi quasi 400.000 abitanti, le hanno conferito un fascino multi-etnico e multi-religioso, pluralistico e cosmopolita. È l'antica “Cusum”, fondata dai Romani nel I secolo a. C.; la “Petrikon” dei Bizantini che vi sconfissero gli Unni, che l'avevano conquistata nel V secolo; la “Petrovaradin” ungherese, del Regno di Ungheria, a cavallo tra X e XII sec., sebbene anche Ostrogoti, Avari e Bulgari la avessero, precedentemente, conquistata; dal 1526 divenne parte dell'Impero Ottomano ed assunse una nuova vocazione di “limes” europeo, crocevia tra l'Europa cristiana e l'Oriente islamico; dal 1687 fu parte dell'Impero Asburgico, e, tra il Settecento e l'Ottocento assunse una tale importanza per i serbi da acquisire il titolo di “Atene Serba”.

Oggi, Novi Sad è un autentico crogiolo di popoli: Serbi (76%), Ungheresi (5%), Slovacchi (2%) e poi ancora Montenegrini e Croati, Bosniacchi e Rom… Non è solo la città dalle mille lingue (tanto è vero che è conosciuta con il suo nome originario, Novi Sad, che vuol dire “Nuovo Campo” o “Nuova Colonia”, tradotto nelle diverse lingue, dall'ungherese al tedesco, dallo slovacco al romeno) ma anche la città delle mille religioni, almeno da quando fu designata, sotto l'imperatrice Maria Teresa d'Austria, “città libera” nel 1748. Oggi a Novi Sad convivono cristiani ortodossi (soprattutto, in ampia maggioranza, di rito serbo ma anche di rito greco) e cattolici, nonché luterani, islamici ed ebrei che, un tempo, costituivano una comunità fiorente (come testimonia la presenza in città di una splendida Sinagoga), al punto da contare una presenza tra le mille e le duemila unità nel corso del Settecento, ma che, dopo gli stermini nazisti nel corso della seconda guerra mondiale, è stata radicalmente decimata. Dopo l'aggressione nazista alla Jugoslavia, inaugurata il 6 aprile 1941, infatti, la città fu annessa all'Ungheria fascista, e liberata dai partigiani il 23 ottobre 1944, quando, con il territorio della Vojvodina, entrò, come regione della Serbia, nella Jugoslavia Socialista.

Vera capitale della cultura e della memoria, Novi Sad sembra rispecchiare in pieno uno dei criteri cruciali della Commissione Europea per poter fregiarsi del titolo di “Capitale della Cultura”: non solo «per ciò che è e per ciò che ha fatto», ma anche, e in particolare, «per ciò che si propone di organizzare» e di fare. Nel quadrilatero, stretto sul Danubio, tra Boulevard Zar Lazar, Boulevard Oslobodjenja e Boulevard Venizelos, è racchiusa una quantità impressionante di testimonianze culturali, tra le quali la Matica Serba, poco distante la Chiesa di S. Nicola, del 1730, la più antica chiesa ortodossa della città (la cupola è interamente rivestita in oro), ancora oltre la Chiesa della Assunzione, del 1736 e, giunti nel cuore della città vecchia, in Piazza della Libertà (“Trg Slobode”), il Municipio, il Palazzo della Banca della Vojvodina, il Teatro Nazionale, la Cattedrale, in stile neo-gotico, e la statua di Svetozar Miletić (1826-1901), anche detta “Uomo di Ferro”, politico, scrittore, rivoluzionario, già sindaco della città e leader dei Serbi della Vojvodina nell'Ottocento.

Se, come indicano le linee guida della Commissione Europea, «la città è invitata a sfruttare le sue particolarità e a dare dimostrazione di grande creatività» e «la manifestazione è l'occasione per migliorare la cooperazione nel settore culturale e per promuovere il dialogo culturale a livello europeo», non si può che essere ottimisti nei confronti di questa scelta, che sembra dare forza all'intendimento originario della manifestazione, quando, nell'ormai lontano 1985, su iniziativa di Melina Merkouri, artista ed antifascista, all'epoca ministro della cultura in Grecia, «il titolo di «Capitale Europea della Cultura» è stato ideato per contribuire al ravvicinamento dei popoli europei» e concorrere ai suoi obiettivi prioritari, quali promuovere e valorizzare il patrimonio e il dialogo culturale, «valorizzare la ricchezza, la diversità delle culture europee ed i loro tratti comuni, migliorare la conoscenza che i cittadini europei hanno gli uni degli altri, favorire la presa di coscienza dell'appartenenza ad una medesima comunità «europea». Sullo sfondo di una stagione che torna ad essere difficile, irta di conflitti per i Balcani e l'Europa tutta, l'individuazione di Novi Sad quale Capitale Europea della Cultura del 2021 è anche un messaggio di speranza e di futuro, da raccogliere e da concretizzare. 

giovedì 15 settembre 2016

#lapaceèunafesta

Il Comune di Monteforte Irpino, in collaborazione con la Confederazione Islamica Italiana, l'IPRI (Istituto Italiano di Ricerca per la Pace) - Rete CCP (Corpi Civili di Pace), l'ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d'Italia) Avellino, l'Associazione Culture e Memorie “Lidia Menapace”, wwwitalia, ildialogo.org - periodico di cultura, politica e dialogo inter-religioso, organizza l'evento pubblico


Monteforte verso Assisi: #lapaceèunafesta


in occasione della Giornata internazionale delle Nazioni Unite per la Pace


La Giornata Internazionale per la Pace del 21 Settembre è l'occasione nella quale le Nazioni Unite invitano tutte le persone, le popolazioni e i governi del mondo a riflettere sul significato della pace, ad aderire ai principi della nonviolenza nella risoluzione delle controversie ed a rispettare il cessate il fuoco per la fine delle ostilità e la promozione della pace, in particolare, una “pace con giustizia”.
La giornata è stata istituita con la risoluzione 36/67 della Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1981 ed è stata confermata, come giornata internazionale della pace, della nonviolenza e del cessate il fuoco, ancora una volta dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, con la risoluzione 55/282 del 2001, fissando la ricorrenza al 21 settembre. Per tutte e tutti noi, si tratta di una occasione doppiamente significativa, alla vigilia dell'importante appuntamento della Marcia Perugia - Assisi della Pace e della Fraternità, il 9 Ottobre, promossa da Tavola per la Pace e Rete della Pace.

Mercoledì 21 settembre 2016, ore 19.00

Atrio - Casa Comunale - Monteforte Irpino
Via Loffredo


Saluti di: Costantino Giordano, Sindaco di Monteforte Irpino;
Salvo Meli, Consigliere Comunale delegato alle Politiche Giovanili, Pari Opportunità, Diritti Civili.

Moderatrice: dott.ssa Eleonora Davide, giornalista

Interventi di:

Giovanni Capobianco – Presidente Provinciale ANPI Avellino
Massimo Abdallah Cozzolino – Segretario Generale Confederazione Islamica Italiana
Maria Teresa Iervolino – Associazione Culture e Memorie "Lidia Menapace"
Domenica Marianna Lomazzo – Consigliera Regionale di Parità
Gianmarco Pisa – Istituto Italiano di Ricerca per la Pace – Rete Corpi Civili di Pace
Giovanni Sarubbi – direttore www.ildialogo.org

Ospite: Avv. Romina Amicolo – Coordinatrice Centro Antiviolenza Ambito A02

Intermezzi Musicali a Cura dell’Associazione “Neafonè”

La serata sarà introdotta dalla proiezione di un filmato (15 min.) sulla Marcia Perugia-Assisi. L'evento è in preparazione della Marcia Perugia - Assisi, domenica 9 ottobre 2016, per la quale è programmata la partenza da Monteforte Irpino, luogo di ritrovo Piazza Umberto I, alle ore 06.30.

Link utili:

ildialogo.org

reteccp.org

retedellapace.it

perlapace.it

perugiassisi.org


Manifesto e Comunicato (a cura de ildialogo.org)

Un "autunno caldo" per i Balcani?


Nell'approssimarsi della nuova missione in loco del progetto PRO.ME.T.E.O. (Productive Memories to Trigger and Enhance Opportunities) per Corpi Civili di Pace in Kosovo, progetto sostenuto dal Comune di Napoli, una traccia di analisi sulle tensioni e i conflitti nella regione, i prossimi eventi e le prospettive della pace.

 
Monumento Jugoslavo alla Fratellanza e Unità, Prishtina, Kosovo

 
La riapertura della stagione politica dopo la pausa estiva, che, convenzionalmente, potremmo fare coincidere con la ripresa dei lavori del complesso delle istituzioni comunitarie, il 12 settembre, coincide anche con l'apertura di un mese-chiave, a cavallo tra settembre ed ottobre, nello spazio post-jugoslavo. Il rinnovato interesse della regione, alla luce della dinamica intrinseca delle relazioni trans-balcaniche e in relazione al potenziale che essa riveste per l'allargamento europeo e per il futuro stesso dell'Unione Europea, è scandito anche dalla preoccupante riapertura di focolai di tensione che vedono le linee di maggiore tensione tra Banja Luka e Sarajevo, in Bosnia, tra Belgrado e Zagabria, ed in Kosovo. 
Intervistato dall'independent.mk, portale di informazione macedone in lingua inglese, il professore di studi per la sicurezza, Stojan Slaveski, ha di recente confermato che «tensioni, conflitti e incidenti sono possibili nella regione, tuttavia ritengo che la situazione sia comunque lontana da quello che abbiamo conosciuto in passato. Assisteremo a conflitti, scontri politici e religiosi, radicalizzazione, crisi dei rifugiati. Tutto questo deriva dalla mancata integrazione dei Balcani nell'Unione Europea. Tutt'oggi, le aree più problematiche restano il Kosovo, il Sandzak (il Sangiaccato, nel Sud della Serbia), e, chiaramente, la Bosnia Erzegovina». 
Qui, lungo l'asse tra Sarajevo e Banja Luka, la data da “cerchiare in rosso” sul calendario è rappresentata dal prossimo 25 settembre, giornata del referendum popolare nella Repubblica Serba di Bosnia che chiamerà i cittadini serbo-bosniaci a confermare (e, di conseguenza, “istituzionalizzare”) la ricorrenza nazionale del 9 gennaio come “Giornata della Republika Srpska”, essendo la Repubblica dei Serbi di Bosnia stata proclamata ufficialmente, in risposta alla Dichiarazione di Sovranità prodotta unilateralmente dal Parlamento Bosniaco il precedente 15 ottobre contro la rappresentanza parlamentare serbo-bosniaca, il 9 gennaio 1992. 
Scelta, quella del referendum serbo-bosniaco, che ha diviso il “Peace Implementation Council” (la Russia non ha aderito alla presa di posizione del PIC per la revoca del referendum), scosso la comunità internazionale (che teme ripercussioni sulla stabilità delle istituzioni bosniache pur formalmente non intaccate dalla proposta referendaria) e costretto ad una delicata mediazione la “Belgrado ufficiale”, che ha dichiarato di non sostenere il referendum e, in ogni caso, di non volere esercitare alcuna ingerenza negli affari interni della Republika Srspka. 
È atteso, d'altro canto, nello stesso frangente tra settembre ed ottobre, un nuovo passaggio diplomatico molto importante per la Serbia la quale, dopo la riunione del comitato sull'implementazione degli Accordi di Stabilizzazione e Associazione all'Unione Europea (ASA), sarà chiamata a presentare, il 30 settembre, il proprio rapporto (il “progress report”) sui progressi compiuti nel corso del 2016. 
Si tratta di una tappa importante nel percorso di avvicinamento alla UE da parte della Serbia, che conta di aprire, di qui alla fine dell'anno, cinque nuovi capitoli per l'adesione: 5 (appalti pubblici), 20 (impresa), 25 e 26 (scienza e istruzione), 29 (unione doganale). Ennesima tappa del percorso di avvicinamento: dovranno essere soddisfatti, a consuntivo, sia i quattro criteri di Copenaghen, sia i 35 aspetti (“capitoli”) dei quali si compone l'acquisizione del cosiddetto “acquis comunitario”. L'ultimo dei 35, che in genere prende la forma di un “varie ed eventuali”, per l'adesione della Serbia ha invece tutt'altro nome: Kosovo. 
E qui si apre un nuovo fronte di contraddizioni, portate ad evidenza dall'ultima decisione del Parlamento Europeo (dello scorso 5 settembre) che ha approvato l'avvio del negoziato per l'abolizione dei visti per i kosovari verso l'Unione Europea (rimarcando che, dal 2010, il Kosovo è di fatto “isolato”, essendo rimasto l'unico territorio dei Balcani i cui cittadini ancora devono richiedere un visto per viaggiare nella UE), subordinandolo tuttavia alla ratifica dell'accordo di demarcazione della linea di confine con il Montenegro, alla prosecuzione dei negoziati per la normalizzazione delle relazioni con le autorità serbe ed alla effettiva implementazione della “Comunità dei Comuni Serbi del Kosovo”, vera e propria architrave degli Accordi tra Belgrado e Pristina del 19 Aprile 2013, tuttora fermi e molto osteggiati da diversi settori, sia dell'opinione pubblica, sia del quadro politico, del Kosovo. 
Da oggi potrebbe forse aprirsi, anche su questo fronte, uno scenario inedito: è stato infatti, finalmente, insediato il comitato pilota (“steering committee”), presentato a Bruxelles lo scorso 6 settembre, per la realizzazione della “Comunità dei Comuni Serbi del Kosovo”, come riferito dalla stampa. Potrebbe essere un punto di svolta: un percorso che «cambierà il Kosovo per sempre e in meglio e le cose non saranno più le stesse». Un Kosovo migliore, di tutti e per tutti: rispettoso del diritto e della giustizia internazionale, capace di riconoscere e soddisfare “tutti i diritti umani per tutti” i suoi cittadini e le sue cittadine, rinnovato nelle sue strutture economiche e nelle possibilità di benessere, lavoro, inclusione sociale per tutti e tutte. Non c'è che augurarselo.

mercoledì 20 luglio 2016

Quale Bosnia: risultanze del censimento

di j.budissin (Julian Nitzsche) [GFDL (gnu.org/copyleft/fdl.html) o CC BY-SA 4.0-3.0-2.5-2.0-1.0 (creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0-3.0-2.5-2.0-1.0)], attraverso Wikimedia Commons



Sulla pubblicazione dei risultati del censimento in Bosnia si è sviluppato un lungo dibattito e sono montate non poche polemiche. Il censimento si è svolto, infatti, nel 2013 e, sin da subito, è stato accompagnato da polemiche: sui criteri di svolgimento delle indagini nelle diverse aree territoriali, sul carattere delle domande riguardanti l'appartenenza etnica, la religione e la madrelingua, sulla possibile strumentalizzazione ad uso politico dei dati statistici. Non si trattava e non si tratta di preoccupazioni di poco conto: basti ricordare, a proposito, che il precedente censimento si è svolto nel lontano 1991, in un contesto, ancora per poco, jugoslavo, prima dell'indipendenza del paese e prima della guerra, dell'assedio e della divisione su base etnica. Questa è, infatti, la motivazione di una delle tante preoccupazioni che hanno accompagnato il censimento: dopo la guerra, con gli Accordi di Dayton e la riconfigurazione amministrativa del paese, a partire dalla fine del 1995, la Bosnia Erzegovina è un paese unitario più di nome - e per poche funzioni, tra le quali, essenzialmente, quelle di politica estera, di politica doganale, di politica monetaria - che di fatto - e nella complessità della sua articolazione, nelle aree della politica interna, dell'amministrazione della giustizia, dell'istruzione, della sanità, del lavoro, di tutto quanto allude al welfare e al benessere della popolazione, a prescindere dalla provenienza etnica - divisa com'è in due entità prevalenti (la Federazione croato-musulmana e la Repubblica Serba di Bosnia), con una forte connotazione etnica (testimoniata peraltro sin dalle rispettive denominazioni), ciascuna dotata di una propria amministrazione ed una propria autonomia, di un proprio governo e di un proprio parlamento.

Alla fine, quasi tre anni dopo, i risultati del censimento sono stati pubblicati (e sono reperibili al sito internet: popis2013.ba) e rappresentano una fotografia delle contraddizioni del paese e dell'impegno che tuttora è evidentemente necessario per superare le conseguenze del conflitto e per migliorare le condizioni di vita della popolazione, di ogni etnia e provenienza. La popolazione totale della Bosnia Erzegovina (a seguire, per semplicità, Bosnia), ammonta oggi a poco più di 3.5 milioni di abitanti, di cui poco più di 2.2 milioni nella Federazione croato-musulmana e poco più di 1.2 milioni nella Repubblica Serba; 83 mila persone abitano il Distretto di Brčko, istituito per creare una sorta di corridoio a cavallo tra la Federazione e la Repubblica Serba, della quale interrompe la continuità territoriale. In termini percentuali, significa che la Federazione ospita ca. il 63% della popolazione, la Repubblica Serba il 35% e il Distretto di Brčko poco più del 2%, che corrispondono ampiamente alla ripartizione per linee etno-comunitarie della popolazione, dal momento che i bosniacchi (musulmani) sono il 50% della popolazione complessiva, ma il 70% della Federazione croato-musulmana e appena il 14% della Repubblica Serba, laddove, viceversa, i serbi sono quasi il 31% della popolazione complessiva, ma più dell'81% della Repubblica Serba e appena il 2.5% della Federazione croato-musulmana. I croati sono quasi il 15.5% del totale, vivono in gran parte nella Federazione (il 22.5% del totale), mentre nella Repubblica Serba ammontano ad appena il 2.5% del totale.

Per impostazione, il censimento non dava molte altre possibilità se non quelle di non dichiarare l'appartenenza etnica (opzione cui ha fatto ricorso meno del 1% del totale, con una percentuale sopra la media nella Federazione) o dichiararsi “ostali”, cioè “altri”, sfuggendo in questo modo alla gabbia etnica (anche questa, peraltro, allude alle conseguenze di Dayton) della tripartizione tra bosniacchi, serbi e croati, e sono “ostali”, secondo il censimento, quasi il 3% della popolazione totale e circa il 3.6% della Federazione. Quanto alla affiliazione religiosa, secondo il censimento, la Bosnia ospita quasi 1.8 milioni di musulmani (l'88% dei quali nella Federazione croato-musulmana, di cui costituiscono il 71% della popolazione), quasi 1.1 milione di ortodossi (il 92% dei quali in Repubblica Serba, di cui costituiscono l' 81% della popolazione) e quasi 536 mila cattolici (soprattutto nei cantoni croati della Federazione), cui vanno aggiunti quasi 11 mila agnostici e quasi 28 mila atei, mentre oltre 73 mila persone non dichiarano la religione o dichiarano “altro”.

Il censimento mostra intera la complessità e le contraddizioni che (ancora) attraversano il paese: la popolazione sopra i 15 anni in Bosnia ammonta a quasi tre milioni di persone, di queste il 59% dichiara di essere sposato, ma questa percentuale supera il 60% nella Federazione e si riduce al 57% nella Repubblica Serba; su una popolazione femminile superiore ai 15 anni pari a poco più di 1.5 milioni di donne, il 58% dichiara di avere almeno due figli; nell'ambito della popolazione complessiva superiore ai 10 anni di età, il 2.8% (quasi 90 mila persone) è analfabeta e di queste 90 mila persone, quasi 78 mila sono donne, cosicché, in termini percentuali, l'incidenza dell'analfabetismo tra gli uomini è dello 0.8% e tra le donne addirittura del 4.8%; in alcuni cantoni il tasso di analfabetismo supera l'8%; e, all'interno della popolazione complessiva sopra i 15 anni, la popolazione universitaria è inferiore al 10% e, come è facile immaginare, le aree in cui si misurano i tassi di istruzione superiore ed universitaria più rilevanti sono le maggiori aree urbane, dove la popolazione interessata supera il 20%, in special modo nei distretti di Sarajevo (capitale del paese), Mostar (una delle città di riferimento dei croati di Bosnia) e Banja Luka (capitale della Repubblica Serba). Tra la popolazione sopra i 10 anni, solo il 36% è “computer literate”, vale a dire capace di utilizzare appropriatamente il computer, mentre oltre il 62% è parzialmente incompetente o del tutto incompetente nell'utilizzo del computer. Infine, per quello che riguarda il lavoro, su una popolazione complessiva in età di lavoro pari a poco meno di tre milioni di persone, e una forza lavoro complessiva di 1.4 milioni di persone, i disoccupati ammontano in totale a più di 328 mila persone, con un tasso di disoccupazione pari al 24%, laddove tuttavia la percentuale tra le donne sale al 26%, segnalando, con tutta evidenza, il differenziale di genere e le difficoltà di sviluppo del paese.

Anche in comparazione col censimento del 1991, in evoluzione storica, i dati sono eloquenti: la popolazione bosniaca è diminuita di quasi 846 mila persone; i bosniacchi passano dal 43% al 50% della popolazione, i serbi restano intorno al 31%, i croati si riducono dal 17.5% al 15.5%; la voce degli “jugoslavi” non era prevista, ma nel 1991, si dichiarava tale il 5.5% della popolazione. Ne esce, in definitiva, il quadro di una Bosnia divisa e separata, condizionata dalle faglie etniche e dalle conseguenze del conflitto, letteralmente cristallizzata nella situazione sancita dagli accordi di Dayton che, se da un lato hanno consentito la fine della guerra e la ricostruzione del paese, tuttavia hanno finito per "sancire" la distizione etnica e la separazione delle comunità, con tassi di analfabetismo e gap di sviluppo ancora molto elevati, che necessita di ancora maggiore impegno e ancor più costante attenzione per liberarsi dal passato e andare incontro al futuro, migliorare le condizioni di vita e di lavoro e favorire processi inclusione e, davvero, di convivenza.

lunedì 18 luglio 2016

Presenza internazionale e diritti umani in Kosovo

Piazza Skanderbeg, nel cuore di Prishtina, capoluogo del Kosovo

È uno di quei documenti destinati a godere di pochissima visibilità sulla stampa non specialistica, eppure, non di meno, di grande importanza per farsi un'idea di prima mano delle conseguenze del conflitto nei Balcani e delle violazioni dei diritti umani che nella regione, in particolare, in Kosovo, si sono consumate e ancora si consumano. L'ottavo, ultimo, rapporto annuale 2015-2016 dello UN «Human Rights Advisory Panel» (HRAP), è stato ultimato nel Giugno scorso e reso noto all'opinione pubblica il 15 Luglio. Si tratta di un documento importante, di rilevanza internazionale, sebbene frutto del lavoro di indagine e di monitoraggio di una struttura di carattere consultivo, nel quale si mette in chiaro che la «United Nations Interim Administration Mission in Kosovo» (la Missione delle Nazioni Unite per l'Amministrazione Provvisoria del Kosovo, UNMIK) si è - o potrebbe essersi - resa responsabile di violazioni dei diritti umani in 83 casi sugli 88 presi in considerazione dal Panel nel periodo di esercizio del mandato, a cavallo tra il 1 Gennaio 2015 e il 31 Maggio 2016.

In questo lasso di tempo, il gruppo di esperti ha pubblicato una serie di importanti pareri per casi simili, per loro natura, a quelli che già erano stati presi in carico dal Panel nel corso degli ultimi anni. Si tratta, peraltro, di un casistica, alla lettura del report, afferente ad alcune ben specifiche e individuate fattispecie, dal momento che questi casi hanno riguardato - e riguardano - la presunta mancanza di indagini penali adeguate in relazione alle sparizioni, ai rapimenti ed alle uccisioni, ai sensi degli obblighi procedurali derivanti dall'articolo 2 della Convenzione Europea dei Diritti Umani (CEDU), nonché presunte violazioni dell'articolo 3 della stessa CEDU in relazione al trattamento inumano e degradante di familiari e di altri parenti stretti delle vittime.

Il Panel ha chiuso 527 casi, presi in considerazione tra il 2006 ed il 2010, riferendo di essere al corrente del fatto che ci sono tuttavia ancora persone che intendono presentare reclami o sporgere denunce su presunte violazioni da parte dell'UNMIK; casi ipotizzati sui quali, tuttavia, il Panel non potrà intervenire, dal momento che la UNMIK stessa ha fissato il 31 Marzo 2010 come la data limite per la giurisdizione temporale del Panel sui casi presentati. Il fatto stesso, come evidenziato dal report, che diversi casi, anche nell'ultimo lotto preso in considerazione, facciano riferimento a una casistica già precedentemente analizzata e che presunte mancate indagini e presunte violazioni di determinati diritti umani si siano ripresentati, può essere, a propria volta, la spia di un ambiente problematico, sotto questo punto di vista, in cui debolezza dello stato di diritto, mancanza di una solida cultura dei diritti umani, e varie, più o meno gravi, violazioni dei diritti, restano diffusi.

Tra questi casi, alcuni, indicati e riferiti ancora dal report, meritano una particolare attenzione. Ne segnaliamo alcuni, tra i quali il caso Kostic e altri, riguardante i rapimenti avvenuti nel corso di un assalto armato da parte dell'UCK (il famigerato Esercito di Liberazione del Kosovo, la formazione terroristica che ha rappresentato la fazione armata del movimento separatista albanese kosovaro) sui villaggi di Opterusa e Retimlje, ivi compresa la denuncia di sequestro e privazione di libertà per quattro giorni; il caso Balaj e altri, riguardante l'uso eccessivo della forza da parte della polizia dell'UNMIK durante un'operazione antisommossa, nel Febbraio 2007, che ha causato alcuni morti e feriti gravi (si tratta della circostanza del 10 Febbraio 2007, quando una protesta a Pristina degenerò in scontri e la polizia dell'UNMIK rispose con lancio di lacrimogeni e proiettili di gomma, causando la morte di due manifestanti, Mon Balaj e Arben Xheladini); il caso N.M. e altri, riguardante le accuse di avvelenamento da piombo e altri gravissimi problemi di salute, che ricadono ancora nella responsabilità dell'UNMIK, avendo quest'ultima dislocato alcuni membri della comunità R.A.E. (Rom, Ashkali, Egyptians, vale a dire le diverse denominazioni della comunità Rom e Ashkali nella regione) in alcuni campi - diffusamente contaminati - nel Nord del Kosovo per diversi anni.

Il Presidente del Panel, Marek Nowicki, ha sottolineato che il problema strutturale generale è la mancata attuazione dei pareri, delle opinioni e delle raccomandazioni espresse dal HRAP, soprattutto per quanto riguarda le compensazioni finanziarie a carico dell'UNMIK e a beneficio delle vittime dei torti o degli abusi che hanno sporto denuncia, come pure, non meno grave, la mancanza di progressi significativi compiuti da parte della EULEX (la «European Union Rule of Law Mission in Kosovo», Missione dell'Unione Europea per lo Stato di Diritti in Kosovo) o delle istituzioni dello stato di diritto kosovare in relazione ai casi legati ai rapimenti, alle sparizioni e alle uccisioni. Viene inoltre rimarcata la speranza che almeno alcuni di questi casi possano trovare un loro corretto percorso giudiziario nel quadro del tribunale speciale in via di costituzione da parte della comunità internazionale e delle autorità del Kosovo - la «Kosovo Relocated Specialist Judicial Institution» (KSJI) - la cui giurisdizione comprende in particolare i «gravi crimini commessi nel 1999-2000 dai membri del Kosovo Liberation Army o KLA (il famigerato Esercito di Liberazione del Kosovo, in albanese Ushtria Çlirimtare e Kosovës, UCK) contro le minoranze etniche e gli oppositori politici».

Come messo in chiaro nell'introduzione, il Panel, istituito con regolamento UNMIK 2006/12 sulla istituzione del Gruppo Consultivo per i Diritti Umani del 23 Marzo 2006, ha continuato a esaminare le denunce di presunte violazioni dei diritti umani commessi da o attribuibili alla Missione UNMIK delle Nazioni Unite in Kosovo durante tutto il suo periodo di funzionamento (2007-2016) a Pristina, (Prishtinë/Priština), il capoluogo del Kosovo. Il Panel, peraltro, rimane l'unico meccanismo inter-nazionale che si occupa di violazioni dei diritti umani commessi da o attribuibili a una missione sul campo delle Nazioni Unite. Sebbene il Panel non possa disporre risarcimenti, compensazioni o soccorsi specifici, tuttavia può determinare se l'UNMIK sia o sia stata responsabile di violazione dei diritti umani e, in caso affermativo, può formulare raccomandazioni, specifiche e puntuali, al Rappresentante Speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite - lo «Special Representative of the Secretary-General» - (SRSG) circa le compensazioni oppure altri provvedimenti specifici.

Anche le raccomandazioni finali del report sono significative. Nel § 109, è scritto che «dal 1° Gennaio 2015 alla fine di Maggio 2016, il gruppo di esperti ha adottato pareri sul merito di 88 casi. Di questi, in 83 casi ha trovato violazioni dei diritti umani a carico dell'UNMIK, mentre solo in cinque casi ha confermato che tali violazioni non hanno avuto luogo. In ciascuno dei casi in cui sono state trovate tali violazioni, il gruppo ha ritenuto necessaria una qualche forma di riparazione. Anche quest'anno, come negli anni passati, il gruppo di esperti ha trovato problematico determinare quali raccomandazioni avanzare in una situazione in cui l'UNMIK non è più in grado di avere un impatto diretto sulle decisioni che si prendono in Kosovo. L'UNMIK non può più emendare la normativa se necessario (o comunque, anche se ha emendato la normativa vigente, non può più garantirne l'applicazione), né può chiedere alle autorità del Kosovo di porre rimedio alle carenze individuate dal gruppo di esperti. Questa situazione ha richiesto al gruppo di esperti di muoversi con la consapevolezza di tali limitazioni, nell'avanzare raccomandazioni che potrebbero avere impatto positivo sulla situazione dei diritti umani delle persone che hanno presentato le denunce».

Infine, al § 111, «il gruppo di lavoro ha raccomandato all'UNMIK di prendere misure appropriate, nonché altre entità del sistema delle Nazioni Unite operanti in Kosovo, enti locali e organizzazioni non governative, per la realizzazione di un programma completo ed esauriente di riparazioni, inclusi la restituzione, il risarcimento, la riabilitazione, la soddisfazione e le garanzie di non ripetizione, per le vittime - di tutte le comunità - di gravi violazioni dei diritti umani che si sono verificate durante e dopo il conflitto in Kosovo. Infine, il gruppo di lavoro ha raccomandato ancora all'UNMIK di prendere le misure appropriate presso gli organi competenti delle Nazioni Unite, ivi compreso il Segretario Generale delle Nazioni Unite, per l'assegnazione di adeguate risorse umane e finanziarie per garantire che gli standard internazionali sui diritti umani siano rispettati in ogni momento dalle Nazioni Unite, anche quando si trovino ad esercitare funzioni amministrative ed esecutive su un determinato territorio, e di prevedere un monitoraggio completo, efficace e indipendente». Come detto all'inizio, si tratta di un documento, per quanto importante, privo di una efficacia vincolante, in virtù del suo stesso carattere “consultivo”; il suo lavoro è stato, tuttavia, prezioso nel mettere in luce le gravi contraddizioni dello stato di fatto in vigore in Kosovo e nel porre in chiaro l'inderogabile necessità della difesa e del consolidamento di «tutti i diritti umani per tutti» nella regione. 

giovedì 30 giugno 2016

Vidovdan, incidenti in Kosovo

Gazimestan, Campo dei Merli, Kosovo

Ancora una volta, la celebrazione della ricorrenza di S. Vito (Vidovdan), in Kosovo, è stata attraversata da violenze e polemiche, che hanno fatto salire la tensione nei rapporti inter-comunitari e confermato, ove ve ne fosse bisogno, la perdurante attualità delle conseguenze del conflitto etno-politico degli anni Novanta e la drammatica continuità di un dopoguerra infinito.
 
Presso il Gazimestan, la torre-mausoleo commemorativa, che campeggia nel centro della Piana dei Merli, in Kosovo, poco distante da Prishtina, il capoluogo, circa 1000 persone, tutti serbi del Kosovo, si sono radunate martedì scorso, 28 giugno, nella celebrazione della ricorrenza, per commemorare il giorno di S. Vito e, in particolare, il 627° anniversario della battaglia di Campo dei Merli, anche detta “Battaglia del Kosovo”, uno degli scontri salienti dell'Europa del Medioevo.
 
Per i Serbi del Kosovo, sia in relazione alla propria storia e alle tradizioni culturali, sia in relazione alla storia del luogo e al significato che ad essa viene attribuito, si tratta di una celebrazione particolarmente importante, nella quale si commemora l'eroica sconfitta delle armate serbe e slave, guidate del principe serbo Lazar Hrebeljanović, contro le forze soverchianti dell'Impero Ottomano, guidate sul campo di battaglia dal sultano, Murad, scontratesi proprio il 28 Giugno del 1389.
 
Si tratta di un memoriale importante, come si comprende, ma, di più ancora, di un vero e proprio “luogo della memoria” per i Serbi in particolare, sia in relazione al patrimonio di memoria collettiva e di identità di gruppo che si condensa intorno all'evento, sia in relazione al “luogo” specifico in cui tali eventi hanno avuto posto, un luogo che si è venuto, di conseguenza, caricando di un significato sempre più profondo, talvolta utilizzato dalla propaganda sia per alimentare, con i fasti della celebrazione, la retorica nazionalista, sia per costituire una propria base di legittimazione.
 
Nel corso della celebrazione, Milutin Timotijević, il sacerdote serbo-ortodosso, secondo quanto riportato da fonti di stampa locali, si è rivolto alla folla con le parole: «Gloria e lode al Principe Lazar che è diventato il modello della determinazione del nostro popolo, e il cui esempio ci mostra come vivere! Sarebbe necessario fossimo molti di più, qui, perché se abbandoniamo questa terra, se le madri serbe non avranno più figli - non ci potremo presentare alle porte del Paradiso!».
 
È difficile, per la nostra mentalità, capire queste parole, se non le si contestualizza, detto con semplicità, nella storia e nella geografia. In un senso della storia diffusamente percepito presso i Serbi e, con varianti e differenze, estensivamente, nelle tradizioni cristiano-ortodosse, meno come lineare e razionale che come ciclico ed esemplare, basato cioè sull'importanza esemplare ed il rilievo fondativo associato a determinati eventi e talune figure della storia, tra cui, in misura importante, la battaglia del Kosovo, nei suoi sviluppi, nei suoi presupposti e nelle sue conseguenze.
 
Ma anche nella “geografia dei luoghi”, del Kosovo che, proprio in quanto, per diversi aspetti, culla della cultura e della religiosità serba, tra i nuclei fondativi dell'antico stato serbo medioevale e per l'insistenza di un lungo retaggio religioso e culturale, non solo viene rivendicato come terra natale della nazione serba ma è anche associato ad una idea di resistenza, quella storica, delle armate cristiane contro l'avanzata ottomana, e quella attuale, in cui, dopo la guerra del 1999 e la proclamazione dell'indipendenza del 2008, il governo della regione è nelle mani delle forze politiche albanesi kosovare e i serbi del Kosovo sono ridotti a minoranza, peraltro diffusamente “enclavizzata”.
 
Il portato del conflitto etno-politico e il diffuso sentimento nazionalista, in questa fase, soprattutto da parte albanese kosovara, rendono la coesistenza quanto mai problematica e gli episodi di violenza a sfondo culturale sempre in agguato. Proprio il minibus che conduceva i serbi kosovari a casa, di ritorno dalla commemorazione al Gazimestan, è stato fatto oggetto di lanci di sassi e molotov da parte di estremisti albanesi kosovari e due serbi sono rimasti feriti. Analoghi incidenti presso Mitrovica, dove serbi sono stati fatti oggetto di lanci di pietre e bottiglie.
 
Se impressiona la spirale di violenza, non meno sconcerto desta la reazione politica da parte delle leadership locali, improntata a violenza e contrapposizione. Ramush Haradinaj, leader del partito nazionalista albanese kosovaro AAK (Alleanza per il Futuro del Kosovo), ha lanciato una provocazione nel proporre «di costruire un nuovo monumento, presso il Gazimestan, dedicato alle vittime albanesi della Battaglia del Kosovo». Il ministro del lavoro del governo serbo, Aleksandar Vulin, ha replicato sostenendo che «quelli che non hanno storia cercano di rubare la storia degli altri».
 
Contemporaneamente, a Mitrovica, nel settore serbo della città divisa tra serbi e albanesi, è stato inaugurato un monumento al Principe Lazar, in una cerimonia alla quale hanno presenziato il direttore dell'Ufficio per il Kosovo del Governo Serbo, Marko Djurić, il ministro kosovaro Ljubomir Marić e il vicepremier, Branimir Stojanović, un evento, quest'ultimo, subito condannato dalle autorità albanesi kosovare, che lo hanno bollato come una “provocazione politica”.
 
Separazione delle memorie, incomunicabilità delle culture e strumentalizzazioni della “politica” continuano a dominare la scena, in Kosovo. Occasioni d'incontro, di riduzione della tensione e di facilitazione del confronto sono sempre più necessarie, insieme con nuove leadership, non nazionaliste, e nuove occasioni, di sviluppo e di lavoro, per “umanizzare” le parti e superare la retorica della contrapposizione con le conseguenze dolorose di un conflitto ancora troppo presente.

Nel Giorno di S. Vito: 28 Giugno 1991 - 2016

Spectei (p6020562.jpg up by Taavetti) [CC BY-SA 2.0 ] Wikimedia Commons


Il 28 Giugno, il giorno di S. Vito, i giornali italiani riportano le notizie dell'inizio della fine della Jugoslavia Socialista. Il 25 Giugno le prime dichiarazioni indipendentiste. Il 26 e 27 Giugno i primi combattimenti in Slovenia. È l'inizio della guerra delle guerre, la guerra nella (ormai ex) Jugoslavia, l'inizio di quella lunga teoria di guerre e conflitti sanguinosi che avrebbe, per i successivi quattro anni e mezzo, lacerati i Balcani, insanguinata l'Europa, decretata la fine della “Seconda Jugoslavia”. Il giorno di S. Vito è il memoriale del principe Lazar e dei serbi caduti per difendere i territori slavi durante l'epopea della Battaglia del Kosovo contro l'Impero Ottomano. È il giorno della Battaglia di Kosovo Polje (28 Giugno 1389), ma anche la festa di S. Vito, legata, peraltro, ad una incredibile sequela di eventi memoriali nella storia serba. La vittoria ottomana del 1389 aprì la porta alla penetrazione ottomana nell'Europa Continentale e il 28 Giugno, per il suo impatto e per il suo significato, è assurto a “luogo della memoria”, universale, dei caduti di tutte le guerre. Poco più di sei secoli dopo, una nuova battaglia si combatte nei Balcani, con nuovi caduti e nuove memorie.
 
«Su Lubiana, silenziosa ed impaurita, un boato ed un bagliore». Inizia così la cronaca di Guido Rampoldi, su “La Stampa” del 28 Giugno 1991, dell'inizio della “breve guerra”, la guerra in Slovenia o “Guerra dei Dieci Giorni”, che, nel breve volgere di due settimane, avrebbe inaugurata la dolorosa “successione incatenata” delle guerre di dissoluzione della (ormai ex) Jugoslavia. «Tutti gli sloveni che hanno cariche federali le abbandonano e il vice del premier Ante Marković, Pregl, lasciando Belgrado, racconta: l'Armata ha deciso da sola, senza informare il vertice jugoslavo». Una testimonianza, peraltro, contraddetta in sostanza dall'articolo a fianco, dove, un paio di colonne a destra, la cronaca di Ingrid Badurina riferisce che l'Armata «ha ricevuto appoggio incondizionato dalla Presidenza Federale riunitasi ieri a Belgrado. In realtà, quest'organo monco, senza presidente né vicepresidente, non ha più alcuna legittimità per prendere decisioni. Assenti lo sloveno Drnovsek, il croato Mesić, il macedone Tupurkovski», una chiara applicazione del “disimpegno” o “boicottaggio”, da parte delle autorità secessioniste, delle istituzioni federali della Jugoslavia. Dalle quali non erano mancati tentativi, puntualmente respinti, di mediazione e di salvaguardia della “fratellanza e unità”, ormai ridotte a simulacro nel fuoco della crisi, della Jugoslavia: è ancora Badurina a riferire che «il governo propone una moratoria di tre mesi su tutte le decisioni prese dalle repubbliche che riguardano l'indipendenza, la dissociazione dalla Jugoslavia, le autonomie locali, il cambiamento delle frontiere». Il presidente sloveno, Kucan, «ha dichiarato... che la Slovenia interromperà i contatti con Belgrado» (“La Stampa”, Venerdì 28 Giugno 1991, p. 5).
 
Una separazione incostituzionale, a norma di costituzione jugoslava del 1974, cui gli indipendentisti pure si sono, a più riprese, a torto o a ragione, richiamati, la quale, se da un lato all'art. 1 fonda la Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia come stato federale e comunità statale di «popoli volontariamente uniti e delle loro repubbliche socialiste nonché delle loro province socialiste autonome del Kosovo e della Vojvodina», dall'altro all'art. 5 richiama il principio per cui «i confini della Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia non possono essere mutati senza il consenso di tutte le Repubbliche e Provincie Autonome» e «i confini tra le Repubbliche... soltanto in base al loro accordo, e quando si tratta dei confini di una Provincia Autonoma, anche in base alla sua adesione». Nella parte terza dedicata ai rapporti interni alla Federazione, il dettato costituzionale è ancora più chiaro. Secondo l'art. 244, che basa sul principio di “fratellanza e unità” i rapporti repubblicani, «nella Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia, i popoli e i gruppi nazionali, i lavoratori e i cittadini realizzano ed assicurano la sovranità, l'eguaglianza, la libertà nazionale, l'indipendenza, l'integrità territoriale, la sicurezza, l'autodifesa sociale, la difesa del Paese, la posizione internazionale e le relazioni del Paese con gli altri stati e le organizzazioni internazionali, ...i fondamenti delle libertà democratiche e dei diritti dell'uomo e del cittadino... e l'unità del mercato jugoslavo, concordando il comune sviluppo economico e sociale e gli altri loro comuni interessi». Mentre l'art. 251 sancisce «anticostituzionale qualsiasi atto e qualsiasi azione che incrini l'unità del mercato jugoslavo».
 
Lo stesso giorno, 28 Giugno 1991, “l'Unità” titola: «In Jugoslavia è guerra civile», Giuseppe Muslin pone l'accento sul rischio di “effetto domino” che sarebbe passato alla storia, paradigmaticamente, come “balcanizzazione”: «La minoranza dei Serbi nelle due repubbliche [la Crozia e la Bosnia] ha deciso di formare una repubblica autonoma, unendo la (Hrvatska) Krajina alla Bosanska Krajina. Le due regioni contermini adesso rischiano di appiccare il fuoco anche alla Bosnia Erzegovina, oltre che alla Croazia. … Resta il fatto che anche per la Bosnia si apre una fase di destabilizzazione che potrebbe accelerare la disgregazione stessa della Repubblica». Sin dalla copertina del “giornale fondato da Antonio Gramsci”, Renzo Foa tratta «di quei nodi di cui si è parlato molto in questi giorni e che hanno la loro origine, soprattutto, in uno squilibrio di natura economica, che ha avuto la meglio su tutti gli altri fattori politici, nel momento in cui è tramontato il collante dell'ideologia». E sembra quasi parlare della deludente attualità della comunità europea quando ammonisce che «se non siamo capaci, con la forza che ci deriva dalla storia della nostra democrazia, di “intervenire” alle porte di casa nostra per cercare di prevenire l'esplosione di crisi che - in ogni modo - si abbatteranno anche su di noi, credo che sia rimesso in discussione il ruolo internazionale del nostro Paese. Finora l'Italia non è stata capace di fare niente. Né con le sue forze, né trascinando l'Europa, intesa come Comunità, ad una iniziativa in grado di sciogliere i nodi che in tutti questi anni si sono accumulati nella Federazione Jugoslava» (“L'Unità”, Venerdì 28 Giugno 1991, p. 1 e p. 3).
 
Il giorno precedente, sulle prerogative costituzionali e le competenze federali, si era soffermato anche Dušan Pilić, dalle colonne di “Repubblica”, confermando che «I confini - dice Marković - la dogana e tutti quegli elementi economici che le repubbliche avevano approvato e accettato sono e resteranno di competenza della federazione finché essa avrà tali competenze: e cioè finché non si arriverà all'accordo sul futuro della Jugoslavia. Zagabria e Lubiana evidentemente correvano troppo veloci e con la loro separazione potevano provocare, in altre parti del Paese, serie complicazioni. «Il governo temeva che la Bosnia, la Croazia e la Serbia si trasformassero in campi di sanguinose battaglie: ha così scelto la strada dell'intervento... Si attendeva... la reazione serba alla decisione della Croazia di trasformare i confini amministrativi in confini di Stato. I dirigenti serbi, a eccezione di alcuni deputati dell'estrema destra, hanno accolto con tranquillità le decisioni del governo federale: è un affare che riguarda la federazione, ha dichiarato un deputato del partito al potere». Su “Repubblica” è riportata anche l'ambigua posizione delle cancellerie occidentali, in primo luogo degli Stati Uniti, che da un lato intervengono perché non si crei un focolare di instabilità fuori controllo, dall'altro spingono per il riconoscimento dei diritti nazionali di Slovenia e Croazia e premono per un cambiamento radicale nella configurazione e nell'assetto della Jugoslavia Socialista se è vero che «prendendo atto che i croati non considerano la loro proclamazione d'indipendenza una secessione e che gli sloveni sono disposti a negoziare, i portavoce hanno espresso il parere che ci sia spazio per un compromesso. E hanno ribadito che gli aiuti economici occidentali andranno solo alla Jugoslavia unita perché l'unione è il presupposto della democratizzazione del Paese e del suo passaggio al “libero mercato”. […] Stando alle indiscrezioni della Casa Bianca, l'obiettivo americano è una modifica della Federazione Jugoslava che conceda maggiore autonomia alle sei Repubbliche. George Bush chiederebbe alla Germania e all'Italia, i Paesi con le massime leve economiche su Belgrado, di premere subito in questo senso» (“Repubblica”, 27 Giugno 1991).
 
La fine della Jugoslavia era già cominciata e, leggendo con sguardo retrospettivo le cronache dell'epoca, appaiono tra le polveri e le nebbie di eventi fitti e drammatici, i veri motivi della contesa: la precipitazione della crisi economica e della conseguente instabilità politica; l'ascesa al potere di élite nazionaliste pronte a soffiare sulla identificazione etnica per legittimare il proprio potere all'indomani dell'introduzione del multipartitismo; la balcanizzazione e, in particolare, la disgregazione della Jugoslavia come opzione (non esclusiva ma non secondaria) delle cancellerie occidentali, per smantellare il socialismo della fratellanza e dell'unità, per insediare una spina nel fianco del processo costituente europeo, per creare una testa di ponte verso Oriente. Siamo, più che mai, alla vigilia del presente. E oggi, come e diversamente da ieri, siamo chiamati a rispondere: con una nuova solidarietà nella «jugosfera», una rinnovata cooperazione economica e politica, nuove opportunità da offrire alle prospettive della convivenza e alla scelta della “pace con giustizia”. 

venerdì 3 giugno 2016

Luoghi della Memoria per la Pace

www.facebook.com/lapaginaincomune
     Il lavoro collettivo sviluppato dagli studenti del Liceo Classico “Galluppi” di Catanzaro, a monte della conferenza dedicata al volume sui temi della “memoria” e della “pace” dal titolo La Pagina in Comune (Ad Est dell'Equatore, Napoli, 2015), nell'ambito della XIV edizione della Fiera del Libro Gutenberg (quest'anno dedicata a “Demoni e Meraviglie”), è stato un lavoro strutturato e prezioso. Un lavoro così ben sviluppato e riccamente articolato da avere cambiato i connotati della conferenza stessa, che si è sempre più allontanata dal cliché della relazione dell'autore e domande del pubblico, per diventare piuttosto un forum di confronto e co- elaborazione, con gli studenti che hanno illustrato le loro riflessioni e condiviso la loro lettura del testo, e l'autore che ha poi offerto una serie di approfondimenti e di rimandi su alcuni punti specifici dell'opera.
    L'opera in questione è un lavoro abbastanza singolare: La Pagina in Comune, infatti, non è solo un testo, piuttosto sintetico e denso, intorno al nesso “memoria” e “pace” che, a partire da alcuni luoghi della memoria, materiali (come i luoghi monumentali presenti a Prishtina ed a Mitrovica, in Kosovo, o come i luoghi della socialità condivisa come la Kulla e, nelle case tradizionali, la Oda albanese, nella quale si radunano i familiari e gli ospiti e si esibiscono i valori del dialogo, del rispetto e dell'onore, della dignità e dell'ospitalità, che pure continuano a giocare un ruolo importante nella regione) o immateriali (come, tra gli altri, i contenuti di valore racchiusi in alcuni codici tradizionali, come nel caso del Kanun albanese, ed in alcune pratiche rituali, come nella celebrazione serbo-ortodossa della “slava”, il santo della casa), ricostruisce il senso emergente di questi luoghi e il sedimento di “cultura” e di “memoria” in esso racchiuso, che può svolgere un ruolo importante nella ricostruzione dei legami sociali e, in definitiva, della “pace positiva”.
    La Pagina in Comune è anche il documento di una ricerca-azione intorno alla percezione del post-conflitto kosovaro, nella quale non si sono solo indagati i motivi storici e sociali che hanno reso tali giacimenti culturali così interessanti ai fini del lavoro di pace, ma si sono anche effettuate delle indagini su un campione di 120 persone, soprattutto giovani, intorno alla loro percezione del conflitto, alle motivazioni del perdurante post-conflitto, con tutto il suo portato di divisione e separazione, di rottura dei legami sociali e debolezza della garanzia dei diritti, e alle condizioni di una possibile ricomposizione sociale (che gli studenti hanno prontamente individuato, recuperando il contenuto delle risposte dei giovani kosovari, nelle quali si punta l'attenzione sulla fragilità economica, la disoccupazione diffusa e la mancanza di prospettive, sulla carenza di occasioni di incontro, condivisione e reciprocità inter-etnica e multi-culturale, sulla inadeguatezza delle élite locali, spesso, in Kosovo, compromesse con la guerra e il portato di una lunga, dolorosa, stagione di violenza).
    Coordinati dalla dirigente del Liceo, Elena De Filippis, orientati nel loro itinerario di ricerca dalla docente, Claudia Pulice, i giovani interlocutori, protagonisti della rassegna, hanno affrontato, nel loro percorso, tutti i nodi salienti della narrazione da loro affrontata, se di narrazione, in senso generale, si può parlare, non trattandosi di ricostruzione narrativa o di finzione letteraria, bensì di saggistica, di uno studio, cioè, a partire dalla ricerca-azione poc'anzi segnalata, intorno alle possibilità offerte dal lavoro di pace a sfondo culturale in un contesto post-conflitto come l'odierno Kosovo, nel cuore dei Balcani. In prima battuta, l'interesse dei partecipanti si è rivolto ai presupposti della ricerca, incardinata all'interno della progettazione di cooperazione internazionale svolta dagli operatori di pace, che sviluppano un itinerario progettuale nel senso di costruire reciproche competenze, quali operatori professionali impegnati nelle situazioni di conflitto e post-conflitto, con compiti di prevenzione della violenza e di moderazione della escalazione, ma anche di individuazione delle cause della violenza e di potenziamento dei fattori di pace locali. Ovviamente, per progetti che si sviluppano su piccola scala, che non coinvolgono imponenti strutture e non impegnano ingenti finanziamenti, non è possibile stimolare tutti i fattori locali di pace, tra i quali peraltro, senza dubbio, vanno annoverati i potenziali dello sviluppo economico e di un ambiente favorevole ad un lavoro dignitoso per tutti i kosovari.
    È possibile tuttavia, muovendosi sul terreno culturale, interrogare altri fattori, che appunto, sedimentando il terreno complesso della memoria e della cultura, possono segnalare tanto i potenziali di rischio e di minaccia alla condivisione e alla coesistenza, quanto i potenziali della relazione e della reciprocità. Il retaggio della storia di convivenza incorporato nella Jugoslavia Socialista e, per diversi aspetti, l'esperienza di un socialismo con caratteri di apertura e di autogestione, caso singolare nella storia dei paesi di “socialismo realizzato” dell'Europa centro-orientale; la lunga narrazione della “fratellanza ed unità” ed il carattere nonviolento originario dello stesso movimento nazionale dell'auto-determinazione kosovara; le caratteristiche del tessuto locale, insieme con il ruolo sociale dell'accoglienza, dell'ospitalità e del perdono che pure permangono, con tutto il loro portato di ambiguità e di ambivalenza, nelle strutture profonde delle comunità locali, sono alcuni di questi fattori, che provano ad esprimere le condizioni di aderenza dell'iniziativa al contesto (nella sua dimensione storica, sociale, culturale) ed a rappresentare le condizioni di fattibilità per una azione votata al “culture-oriented peace-building”, che interroga i giacimenti culturali per la costruzione della pace positiva.
    Questo percorso, lungo la falsariga della narrazione racchiusa nel volume, si è svolto all'interno di percorsi pubblici di attivazione: dapprima, con il progetto P.U.L.S.A.R. (Project on Understanding and Linkages to Serbs and Albanians Reconcile), con il sostegno della Tavola Valdese, quindi, nella fase attuale, con il progetto PRO.ME.T.E.O. (Productive Memories to Trigger and Enhance Opportunities), con il sostegno del Comune di Napoli, che pure aveva, anni prima, sostenuto, con il progetto dei “Corpi Civili di Pace in Kosovo”, la prima sperimentazione di un ente locale esplicitamente dedicata ai Corpi Civili di Pace in zona di conflitto. Innestare il concetto del “culture-oriented peace-building” all'interno dello spazio di azione proprio dei Corpi Civili di Pace significa, in Kosovo, anzitutto riflettere sulla sua ricchezza sociale, culturale, comunitaria: su un Kosovo, sorprendentemente, molto più come luogo di bellezze o di scoperte, attraversato da un singolare dinamismo giovanile e associativo e ricco di giacimenti memoriali, che come luogo di guerra e di divisione, costantemente schiacciato nel mortificante cliché di un “eterno dopoguerra” o del “buco nero” d'Europa.
    Non a caso, un ulteriore aspetto che, nella loro ricerca, gli studenti hanno sollevato è stato quello dei “luoghi della memoria”, facendo riferimento, come indicato anche nel volume, alla ricerca seminale di Pierre Nora e dei suoi Les Lieux de Mémoire (1984-1992), con cui si è dato impulso ad un filone di ricerca particolarmente vivo e stimolante. Il luogo della memoria resta associato, infatti, alla “memoria collettiva”, secondo due ipotesi di ricerca: da un lato, i luoghi della memoria (che possono essere, peraltro, materiali o immateriali, luoghi fisici o figurati) come “istanze” in cui si condensano stratificazioni di memoria (intesa come memoria collettiva) profonde, dotate cioè di una “eccedenza semantica”, il cui valore trascende il senso in sé del luogo e si arricchisce del valore aggiunto di un patrimonio riconosciuto; luoghi, cioè, che la comunità riconosce come salienti in quanto propri, perché vi si attribuiscono significati profondi o perché vi si sono svolti eventi importanti; dall'altro, la “memoria collettiva” come patrimonio di acquisizioni in cui la comunità si riconosce ed in cui rinviene i giacimenti della propria identità, a sua volta molteplice e cangiante, anche in relazione alle manipolazioni che le élite esercitano sulle trame delle memorie come legittimazione di nuove narrazioni.
    I Balcani e, in particolare, il Kosovo, sono ricchi di “luoghi della memoria” e, al di là di questi, sono luogo in cui il rovesciamento e la manipolazione delle memorie collettive si sono esercitati con particolare intensità, circostanza, quest'ultima, che li accomuna a diversi altri contesti di post-conflitto: qui la memoria dei “vinti” (tra cui le minoranze etniche e gli attivisti nonviolenti) è stata sostituita da una memoria dei “vincitori”, fondata sul mito della guerriglia armata e della violenza separatista, dalle cui file peraltro proviene una parte consistente dell'attuale gruppo dirigente (si vedano, a titolo di esempio, i mausolei della guerriglia). Non che manchi un'altra tradizione, più antica e, quindi, difficile da recuperare, ma non per questo meno vivace ed autentica: la tradizione dell'ospitalità e dell'inclusione che si concretizza in altri luoghi di rilievo, ulteriore aspetto, quest'ultimo, su cui gli studenti hanno focalizzato la propria attenzione, la Oda albanese (la sala delle riunioni e degli incontri degli uomini, al cui centro trovavano posto il braciere, uno o più tappeti, gli oggetti simbolici e gli arredi domestici, spesso anche una “qibla”, ad indicare la direzione della Mecca), piuttosto che la Kulla sud-balcanica (i fortini, le residenze fortificate dotate di cortile, alte e tozze, dai muri spessi e solidamente fortificate, in un singolare sincretismo di edificio residenziale diffuso tra l'Albania, la Serbia meridionale, il Montenegro) o, per i serbi, l'importanza del Monastero, come centro della vita comunitaria.
    In una successiva relazione, gli studenti hanno messo a fuoco un ulteriore tema della ricerca che, peraltro, rimanda all'intervista a Mirjana Menković, direttrice del Museo Etnografico di Belgrado, secondo la quale si avverte molto più l'esigenza, anziché di memoriali o epitomi celebrativi, di istituzioni culturali efficaci e di luoghi educativi adeguati, non solo ai fini della “trasmissione” della memoria presso le giovani generazioni, ma anche nel senso della “rivitalizzazione” delle memorie come base per una narrazione culturale ricca di senso e, almeno relativamente, immune dalle manipolazioni della propaganda. Se, infatti, la memoria collettiva è una base identitaria forte, essa può essere ripercorsa criticamente, come, ad esempio, è possibile fare attraverso il Kanun, il codice consuetudinario albanese, che, pur essendo portato di tradizioni ancestrali e retaggi patriarcali, profondamente regressivi, tuttavia mette in luce ideali e valori dotati di una proiezione fortemente costruttiva, dalla dignità, all'onore, alla promessa (la besa). Questi patrimoni immateriali, messi in luce nella ricerca e ricapitolati dagli studenti, mostrano, sovente, al di là dell'attinenza con le culture tradizionali e la vitalità sociale della regione, sfaccettature culturali particolarmente composite e ricche, come nella tradizione del Djurdjevdan (la festa di S. Giorgio, vera e propria “festa della primavera” trans-culturale)  o nella tradizione della Slava (la celebrazione del santo della casa, una eredità pre-cristiana scaturita dal culto del dio, tra i vari dei, protettore della casa), oggi patrimonio mondiale immateriale UNESCO dell'umanità.
    Anche qui si rinviene un passaggio trans-culturale ed anche questo aspetto è stato sollevato dagli studenti: non mancando di dedicare un accenno all'odierna, drammatica ed epocale, vicenda delle migrazioni e degli esodi lungo la “rotta balcanica”, lungo la quale si intrecciano e si confondono le epopee migratorie della povertà e della guerra, e aprendo un ulteriore, esigente, sguardo in prospettiva sulla regione e l'Europa tutta. 

martedì 24 maggio 2016

... per la Pace e i Diritti dei Popoli

pressenza.com/it/2016/05/rinnovare-limpegno-della-citta-napoli-la-pace-diritti-dei-popoli

Un invito, per condividere riflessione e partecipazione

Capitale del Mediterraneo, Città della Pace e dell’Accoglienza, la Città di Napoli è quotidianamente sfidata dalle crisi e dai conflitti che attraversano il “Mare di Mezzo”. La degenerazione delle primavere arabe e i nuovi conflitti che dilaniano la Sponda Sud. L’inquietudine di una Europa che si chiude sempre più al suo interno, innalzando muri e barriere, per respingere i profughi e i migranti. In un contesto sempre più violento e sempre più militarizzato, la Città di Napoli ha voluto rilanciare il suo impegno per la cooperazione internazionale e il suo sostegno ai diritti dei popoli: dai Balcani alla Palestina, passando per il Kurdistan, la Mauritania, il Sahara Occidentale, a fianco delle lotte di liberazione e di autodeterminazione, è più che mai tempo di confermare questo impegno, con una rinnovata attenzione per la pace, i diritti dei popoli e la giustizia internazionale.

Per rafforzare la sfida del cambiamento

Rinnovare l’impegno della Città di Napoli per la Pace e i Diritti dei Popoli

In occasione della presentazione della ricerca-azione di Gianmarco Pisa, La Pagina in Comune, Ad Est dell’Equatore, Napoli, 2015, ne discutono con i candidati e le candidate della lista “Napoli in Comune – a Sinistra” con Luigi de Magistris:

Gordon Poole, docente di lingua e cultura anglo-americana, attivista no-war,
Aristide Donadio, formatore per i diritti umani,  Centro Gandhi di Pisa,
Luca Saltalamacchia, avvocato, esperto di diritto internazionale e dei diritti umani,

intervengono:

Daniele Quatrano, candidato al Consiglio Municipale della V Municipalità, Arenella-Vomero,
Chiara Guida, candidata al Consiglio Comunale di Napoli,
Sandro Fucito, assessore uscente al patrimonio e alla cooperazione internazionale, candidato al Consiglio Comunale di Napoli,

partecipano attivisti/e ed associazioni per la pace, i diritti umani e la solidarietà internazionale.

Mercoledì 25 Maggio ore 18.00
Circolo “Che Guevara”, Via Enrico Alvino, 138, Napoli

#indietrononsitorna
http://napolincomune.it

martedì 3 maggio 2016

Maggio '99: Rugova in Italia


I Ponti di Belgrado

Dall'osservatorio di Prishtina, sulla falsariga dell'impegno per una “pace con giustizia” cui si ispirano i Corpi Civili di Pace, il crinale della memoria, che si interpone tra il 3 e il 6 Maggio, riporta la memoria e ispira l'attualità al ritorno sulla scena, nel pieno della guerra contro la Jugoslavia, di Ibrahim Rugova, figura chiave del movimento di autodeterminazione degli albanesi del Kosovo. Il ritorno di Rugova sulla scena politica si colloca in un momento particolarmente significativo nello svolgimento del conflitto kosovaro, in quel passaggio chiave della prima settimana di Maggio del 1999, nel quale, con il senno del poi, si sarebbe rintracciato il passaggio cruciale della guerra, il momento decisivo che ha finito con il determinarne le sorti, segnalando le prime avvisaglie di ciò che sarebbe successo dopo, gettando i presupposti del lungo post-conflitto kosovaro.

La NATO aveva già cominciato la sperimentazione di armi proibite e oltremodo pericolose, destinate a produrre danni immani e gigantesche devastazioni, dalle bombe ad uranio impoverito a quella alla grafite contro le centrali elettriche della Serbia; si erano già registrati i primi attacchi contro installazioni, strutture e servizi civili, come quello, tragico, contro l'autobus civile di passaggio sul ponte di Luzane (il 1° maggio) e, prima ancora, quello terribile e dolorosissimo contro giornalisti e operatori al lavoro presso la Radio Televisione Serba (il 23 Aprile) e la guerra stava degenerando in una spirale ritorsiva sempre più preoccupante, in cui sempre più manifesta diventava la volontà, più che di proteggere le popolazioni e le città del Kosovo, di piegare la resistenza della Jugoslavia e di creare i presupposti per la definitiva separazione del Kosovo. Al contempo, l'intensificazione sul fronte militare andava di pari passo ad una accelerazione sul fronte diplomatico, con l'esordio della prima, concreta, iniziativa diplomatica “in bello”, ad opera della Russia, e la convocazione di un G7 con all'ordine del giorno un piano di cessazione delle ostilità, in agenda il 6 maggio.

È in questa cornice che, il 5 maggio, Rugova arriva a Roma. È una figura chiave per il movimento di auto-determinazione kosovaro e, all'interno del movimento kosovaro, l'unica figura che sinceramente spinge per una soluzione politica, più che militare, alla crisi. Non a caso, la visita è stata consentita direttamente dalle autorità serbe e organizzata dal governo italiano, che pure ne aveva avvisato le autorità statunitense, europee e della NATO. Secondo una dichiarazione, riportata dalla stampa dell'epoca, di Milosevic: «Rugova è un uomo libero, ha chiesto di venire a Roma e voi ci avete chiesto di garantirgli libertà di movimento. Se lo accettate in Italia, venite a prendervelo». Accolto dall'allora ministro degli esteri italiano, Lamberto Dini, con questa dichiarazione: «Non è venuto da noi con alcun piano o mediazione preventivamente concordata; ha le sue idee, moderate, equilibrate, vicine a quelle del governo italiano, per una soluzione politica della crisi, soluzione politica che ha bisogno di passi da parte di Milosevic». Non a caso, le autorità serbe «approvano l'iniziativa», mentre la fazione separatista albanese kosovara, che da tempo ha messo ai margini la figura di Rugova e spinge sul pedale della guerriglia terroristica, ricorda che «il disarmo dell'UCK non è in discussione: siamo contrari a ogni proposta di contingente di pace che non sia sotto la guida della NATO».

Nel momento in cui l'iniziativa diplomatica poteva fornire argomenti ad un piano di pacificazione o, per lo meno, di cessazione delle ostilità, dal comando dell'UCK giunge la netta presa di distanza dalle anticipazioni del piano del G7 e perfino la contro-proposta, “a nome del governo provvisorio del Kosovo”, di tutt'altro segno rispetto alle dichiarazioni di Rugova: «deve “dichiarare apertamente il suo appoggio ai raid NATO contro la Jugoslavia”, “rispettare gli impegni presi firmando l'accordo unilaterale in Francia”, “dirsi completamente d'accordo con la necessità di un ritiro completo di tutte le forze serbe e allo spiegamento di forze NATO”». Un piano alternativo e di ben altro segno.

Rugova è stato da alcuni considerato “l'unica figura di leader politico sinceramente democratico che il Kosovo abbia conosciuto”. Era stato il leader della auto-determinazione albanese kosovara ed animatore del movimento di disobbedienza civile che si era incarnato nelle cosiddette istituzioni separate, attraverso le quali si esprimeva il rifiuto, da parte di larga maggioranza della popolazione albanese, del governo serbo sul Kosovo e, per farlo, si era ispirato alla nonviolenza, invocando sempre il “primato della politica” sulla “logica delle armi”. Per questo, sin dall'autunno 1998, da quando l'UCK aveva preso il sopravvento e perfino nel corso dei negoziato di Rambouillet, la sua figura era stata sempre più vissuta con insofferenza da parte delle forze separatiste, che spingevano per una soluzione militare, la completa separazione, l'asse con l'Alleanza Atlantica. A Roma, Rugova ribadisce le sue ragioni e il suo è un contributo diplomatico di rilievo: «Sono per la pace e per la resistenza nonviolenta». E poi, «creare un rete politica per costruire il futuro del Kosovo e … continuare il processo per una soluzione politica e per creare un clima di fiducia tra noi»

Certo, dichiara anche lui gli accordi-capestro di Rambouillet una “buona base per il futuro”, ma pone l'accento su una soluzione “politica e pacifica”. La disponibilità di Milosevic, la mediazione di Cernomyrdin e la resistenza della Jugoslavia avrebbero messo all'ordine del giorno del G7 di Bonn un piano di cessazione delle ostilità e di avvio della pacificazione. 

Anche quello, come si vedrà, purtroppo, ampiamente disatteso.