venerdì 25 novembre 2016

Accogliere per Includere

Il Museo della Memoria "21 Ottobre" di Kragujevac, in Serbia. Il Museo commemora uno dei più tragici eccidi nazisti commessi nel territorio della ex Jugoslavia, quando, tra il 18 e 21 ottobre, 1941, tremila persone, tra cui perfino bambini rastrellati dalle scuole, furono sterminati nell'area. All'ingresso compare uno dei momumenti del parco, le tre "Sudjaje", figura tipica della mitologia slava, corrispondenti alle "Parche" della mitologia classica e romana, le divinità che sovrintendono alla nascita e tessono il destino degli uomini, rappresentano, all'ingresso del "memorial park", il destino delle persone qui commemorate.


Anche quest'anno, come di consueto, tra le varie città impegnate, anche a Napoli si è “celebrata” la ricorrenza della Giornata della Tolleranza, lo scorso 16 Novembre. Declinata quest'anno nel senso di una vera e propria “Giornata della Tolleranza e dell'Accoglienza”, essa è stata, in effetti, molto più di una mera “celebrazione” o “commemorazione”, bensì, alla fine, si è trasformata in una bella e partecipata occasione di confronto e di dialogo, appassionato e orizzontale, sui grandi temi che dilaniano le nostre coscienze e che impegnano il nostro agire: conflitti, migrazioni, esclusioni.

Grazie all'impegno profuso dalle associazioni coinvolte, in primis l'IPRI (Istituto Italiano di Ricerca per la Pace) - Rete CCP (Corpi Civili di Pace), l'Associazione “Culture e Memorie - Lidia Menapace”, e l'Associazione ospitante, “Sisto Riario Sforza”, con il supporto del Consolato Generale a Napoli della Repubblica Bolivariana del Venezuela, il pomeriggio e la serata, trascorsi insieme, nella splendida cornice della Chiesa di San Tommaso a Capuana, nel cuore del Centro Antico, Patrimonio UNESCO, della Città di Napoli, si sono rivelati un'occasione utile per “onorare”, senza dubbio, i contenuti della Dichiarazione UNESCO, ma anche per rilanciare ulteriori energie ed impegni.

Proprio dall'UNESCO, infatti, l'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Istruzione, la Scienza e la Cultura, è partita, ormai più di venti anni fa, la iniziativa della “Dichiarazione sul Principio di Tolleranza”, che l'organizzazione ha adottato in occasione della Conferenza Generale del 16 Novembre 1995, e con la quale essa ha inteso ed intende lanciare un richiamo, un monito e una chiamata all'impegno, tanto alle autorità quanto ai popoli, ad agire e mobilitarsi per gli ideali e i valori della convivenza: una convivenza declinata in senso attivo, fonte di eguaglianza e inclusione.

Non a caso, infatti, come recita in Preambolo, «l’attuale crescita dell’intolleranza, della violenza, del terrorismo, della xenofobia, del nazionalismo aggressivo, del razzismo, dell’antisemitismo, dell’esclusione, della emarginazione e della discriminazione, nei confronti delle minoranze nazionali, etniche, religiose e linguistiche, dei rifugiati, dei lavoratori e dei migranti, degli immigrati e dei gruppi vulnerabili», nonché «l’aumento degli atti di violenza e di intimidazione ai danni di persone che esercitano la propria libertà di opinione e di espressione» costituiscono comportamenti «che minacciano il consolidamento della pace e della democrazia, sia a livello nazionale, sia a livello internazionale, e che costituiscono altrettanti ostacoli allo sviluppo». Sin dall'inizio, cioè, sono individuati esplicitamente, nei grandi e tragici capitoli della discriminazione, del fanatismo, dell'intolleranza, dell'antisemitismo e del razzismo, i mali che, tra gli altri, alimentano conflitti e segregazioni e attraversano imperiosamente il nostro tempo, imponendo una risposta civile e sociale.

Ma non c'è solo questo: c'è, in particolare, da attrezzare una risposta, che non può non basarsi sul terreno educativo, della formazione delle giovani generazioni e della maturazione delle coscienze, e non può, al tempo stesso, non alimentarsi di percorsi effettivi e concreti di eliminazione delle diseguaglianze e di contrasto alla povertà in tutte le sue forme, nella consapevolezza, ribadita peraltro anche da numerosi passaggi della conferenza in S. Tommaso, che la pace non possa essere declinata come un ideale irenico e astratto, né possa limitarsi alla sola, fin troppo comoda e funzionale, «assenza della guerra», ma debba essere invece declinata in una maniera più completa ed esigente, come costruzione di relazioni sociali improntate alla libertà e alla giustizia, insieme, come superamento delle condizioni materiali e sociali che alimentano la separazione nelle nostre società, come occasione, e cioè in positivo, di «pace positiva», di costruzione attiva della pace.

Lo ribadisce, in un passaggio successivo, ancora la Dichiarazione, quando puntualizza che non si può intendere il “principio di tolleranza” come “concessione”, “accondiscendenza”, “compiacenza”; bensì sottolinea, all'art. 1, che «la tolleranza è un atteggiamento attivo, animato dal riconoscimento dei diritti universali della persona umana e delle libertà fondamentali dell’altro. In nessun caso la tolleranza potrà essere invocata per giustificare attentati a tali virtù fondamentali». In questo senso, attivo, essa può porsi a fondamento delle società democratiche e pluralistiche e concorrere alla prevenzione della violenza e alla costruzione di un ordine fondato appunto su “pace con giustizia”.

Poco più avanti, entrando maggiormente nel concreto, nell'art. 4, la Dichiarazione sancisce inoltre l'impegno «a realizzare programmi di ricerca nell’ambito delle scienze sociali e di educazione alla tolleranza, ai diritti umani e alla non-violenza. È necessario accordare maggiore attenzione al miglioramento della formazione degli insegnanti, dei programmi di insegnamento, del contenuto dei manuali e di altri tipi di materiale pedagogico, incluse le nuove tecnologie, per formare cittadini solidali e responsabili, aperti alle altre culture, capaci di apprezzare il valore della libertà, rispettosi della dignità degli esseri umani e delle loro differenze e capaci di prevenire i conflitti».

Difficile, pertanto, declinare la “tolleranza” senza il “conflitto”: conflitto che sia occasione di sviluppo e di progresso, di crescita e di maturazione di rapporti sociali più liberi e più giusti, insieme, e che, pertanto, non può e non deve degenerare in violenza catastrofica o distruttiva, ma semmai aprire orizzonti di autentica trasformazione sociale. Questo aspetto ha, in fondo, legato tra di loro le due comunicazioni di apertura, del pomeriggio in S. Tommaso a Capuana, a cura di Modestino Caso e di Gianmarco Pisa, quando è stato messo l'accento, ricordando l'impegno della Associazione “Sisto Riario Sforza”, sull'esigenza di rispondere fattivamente ai bisogni degli ultimi della società e di contrastare la povertà dilagante, non solo nelle periferie, ma, ormai, sempre più drammaticamente fin nel cuore dei centri urbani delle nostre metropoli capitalistiche (l'Associazione ospita, tra l'altro, anche un centro di ascolto e di supporto ed uno studio medico per i più poveri).

O quando è stata richiamata all'attenzione la minaccia della guerra, che, attraversando imperiosa il Mediterraneo, entra sempre più drammaticamente nelle porte di casa, alimentando le migrazioni dal Sud e dall'Est, contribuendo alla militarizzazione dei nostri territori e del nostro spazio pubblico, drenando risorse e radicalizzando la povertà (si è fatto riferimento, tra gli altri, al progetto PRO.ME.T.E.O., «PROductive MEmories to Trigger and Enhance Opportunities», in corso di svolgimento in alcuni territori della ex Jugoslavia, in particolare in Kosovo, dove il tema della “memoria collettiva” e quello dei “luoghi della memoria” possono diventare non solo occasione di riappropriazione ma anche terreno di convivenza, opportunità di reciprocità e di inclusione sociale).

Uno degli spunti del confronto è stata, infatti, anche la presentazione del volume, anch'esso legato ai percorsi costruttivi di articolazione di iniziative e di corpi civili di pace in Kosovo (iniziative sociali, non governative, per la prevenzione della violenza e la trasformazione dei conflitti), dal titolo La Pagina in Comune, pubblicato per i tipi di “Ad Est dell'Equatore”, in cui i due piani, infatti, si intersecano e si combinano: le eredità e le conseguenze dei tragici conflitti nei Balcani e in particolare della guerra del Kosovo (1999), la dinamica e le iterazioni del meccanismo della povertà e della separazione, che ancora attraversano la regione, come hanno messo in evidenza anche i contributi al dialogo delle professoresse Rosanna Morabito e Armida Filippelli, laddove la guerra, lungi dal risolvere i problemi, prevenire le violazioni dei diritti umani, impedire una catastrofe umanitaria, non ha fatto altro che congelare, fissare e radicalizzare quelle contraddizioni: distruzione del tessuto della convivenza e congelamento di un clima, nella regione, di separazione quando non di ostilità nei rapporti inter-etnici; riduzione degli spazi della solidarietà, anche a livello internazionale, e aumento della povertà e della esclusione (il Kosovo, oggi, è, secondo le statistiche, la regione più povera d'Europa, con un tasso di disoccupazione superiore al 35%, una disoccupazione giovanile superiore al 60%, una drammatica condizione di povertà che riguarda, ormai, più del 30% della popolazione e decine di migliaia di persone letteralmente scappate, specie negli ultimi tre anni).

Anche gli interventi di Maria Teresa Iervolino e di Lucia Vecchione hanno ribadito, non solo i contenuti sociali, ma anche quelli educativi, maieutici e pedagogici, del lavoro per l'accoglienza e l'inclusione; e nelle sue conclusioni la Console Generale a Napoli del Venezuela, Amarilis Gutiérrez Graffe, illustrando due originali contributi video sulla pluralità delle minoranze etniche e delle culture ancestrali in Venezuela, ha ricordato il valore cruciale di una democrazia «plurale e sociale», capace di alimentare, nell'eguaglianza tra le differenze etniche e culturali, inclusione e giustizia.

venerdì 11 novembre 2016

La Giornata della Tolleranza

La Giornata della Tolleranza, che, ogni anno, su iniziativa delle Nazioni Unite, si celebra il 16 Novembre, è un'occasione preziosa, specie nel nostro tempo, in Europa e non solo, per confrontarsi sui fenomeni epocali delle migrazioni e delle segregazioni (sociali, etniche, culturali) e alimentare iniziativa e mobilitazione sui temi della “pace con giustizia”, della inclusione e della accoglienza.

Indetta ormai più di venti anni fa, a seguito della adozione, da parte dell'UNESCO, della “Dichiarazione sul Principio di Tolleranza”, in occasione della Conferenza Generale del 16 Novembre 1995, essa intende costituire un richiamo alle autorità e ai popoli ad agire e mobilitarsi per gli ideali e i valori della convivenza.

Sono state le stesse Nazioni Unite, raccogliendo il messaggio dei popoli e delle organizzazioni più avanzate della società civile, a denunciare le minacce e i pericoli che sono alla base dell'urgenza e della necessità di un richiamo così forte, cui tutti e tutte dobbiamo sentirci impegnati: «l’attuale crescita dell’intolleranza, della violenza, del terrorismo, della xenofobia, del nazionalismo aggressivo, del razzismo, dell’antisemitismo, dell’esclusione, dell’emarginazione e della discriminazione nei confronti delle minoranze nazionali, etniche, religiose e linguistiche, dei rifugiati, dei lavoratori e dei migranti, degli immigrati e dei gruppi vulnerabili», nonché «l’aumento degli atti di violenza e di intimidazione ai danni di persone che esercitano la propria libertà di opinione e di espressione, comportamenti, questi, che minacciano il consolidamento della pace e della democrazia, sia a livello nazionale, sia a livello internazionale, e che costituiscono altrettanti ostacoli allo sviluppo».

Per questo, la Dichiarazione cui facciamo riferimento, non intende il “principio di tolleranza” come concessione, accondiscendenza, compiacenza; bensì sottolinea, al suo art. 1, che «la tolleranza è, prima di tutto, un atteggiamento attivo, animato dal riconoscimento dei diritti universali della persona umana e delle libertà fondamentali dell’altro. In nessun caso la tolleranza potrà essere invocata per giustificare attentati a tali virtù fondamentali». In questo senso, attivo e dinamico, essa può porsi a fondamento delle società democratiche e pluralistiche e concorrere fattivamente alla prevenzione della violenza e alla costruzione di un ordine fondato sulla “pace con giustizia”.

Non a caso, nell'art. 4, essa sancisce l'impegno «a realizzare programmi di ricerca nell’ambito delle scienze sociali e di educazione alla tolleranza, ai diritti umani e alla non-violenza. A questo scopo, è necessario accordare maggiore attenzione al miglioramento della formazione degli insegnanti, dei programmi di insegnamento, del contenuto dei manuali e dei corsi e di altri tipi di materiale pedagogico, incluse le nuove tecnologie educative, per formare cittadini solidali e responsabili, aperti alle altre culture, capaci di apprezzare il valore della libertà, rispettosi della dignità degli esseri umani e delle loro differenze e capaci di prevenire i conflitti o di risolverli con mezzi non-violenti».

Per questi motivi, su iniziativa delle Associazioni “Sisto Riario Sforza”, Culture e Memorie - “Lidia Menapace”, Istituto Italiano di Ricerca per la Pace - Rete Corpi Civili di Pace (IPRI - Rete CCP), col supporto del Consolato Generale a Napoli della Repubblica Bolivariana del Venezuela, anche quest'anno si tiene un convegno sui temi della “pace con giustizia”, dell'accoglienza e dell'inclusione.

Nel contesto della presentazione del volume di Gianmarco Pisa, La Pagina in Comune, Edizioni “Ad Est dell'Equatore”, 2015, nella splendida cornice della Chiesa di San Tommaso a Capuana, Via dei Tribunali, 216, Napoli, si confrontano: Lucia Vecchione, Associazione “Sisto Riario Sforza”; Maria Teresa Iervolino, Associazione Culture e Memorie “Lidia Menapace”; Armida Filippelli, Docente di Lettere e Filosofia, Dirigente Scolastico nei Licei; Rosanna Morabito, Docente di Lingua e Letteratura Serba e Croata, Università Orientale di Napoli; Amarilis Gutiérrez Graffe, Console Generale a Napoli della Repubblica Bolivariana del Venezuela. È previsto il saluto di apertura di Modestino Caso, Presidente della Associazione “Sisto Riario Sforza” e riflessioni finali, in conclusione, di Elena Coccia, Presidente della Commissione Cultura, Consiglio Comunale, Napoli.

Linkto: Pressenza Italia

giovedì 3 novembre 2016

Una "Capitale Europea della Cultura"

Acka27 (Opera Propria) [Public Domain], attraverso Wikimedia Commons

La capitale europea della cultura torna nei Balcani, nel territorio, in particolare, della ex Jugoslavia e, per la prima volta, si apre la strada verso un Paese non membro dell'Unione Europea: il 13 ottobre scorso, infatti, la Commissione Europea ha annunciato che il titolo di “Capitale Europea della Cultura”, per il 2021, è stato assegnato alla città di Novi Sad, una delle più importanti città della regione, storica città d'arte e di cultura, ieri della Jugoslavia, oggi della Serbia, capoluogo della regione autonoma della Vojvodina. Sebbene la notizia sia passata in sordina presso la nostra stampa, nondimeno si tratta di una notizia importante, non solo per gli appassionati di arte e di cultura, ma soprattutto per quanti ritengono la cultura e l'arte occasioni di conoscenza e di reciprocità, opportunità da cogliere non solo in senso economico, ma prevalentemente in direzione di una più solida conoscenza, una più autentica amicizia tra i popoli e una più piena convergenza tra le culture.

Novi Sad può ben rappresentare questi ideali. È città bella ed elegante, da sempre crocevia di popoli e di culture, dove il corso delle vicende storiche e le ripetute conquiste che si sono avvicendate nella città, che conta oggi quasi 400.000 abitanti, le hanno conferito un fascino multi-etnico e multi-religioso, pluralistico e cosmopolita. È l'antica “Cusum”, fondata dai Romani nel I secolo a. C.; la “Petrikon” dei Bizantini che vi sconfissero gli Unni, che l'avevano conquistata nel V secolo; la “Petrovaradin” ungherese, del Regno di Ungheria, a cavallo tra X e XII sec., sebbene anche Ostrogoti, Avari e Bulgari la avessero, precedentemente, conquistata; dal 1526 divenne parte dell'Impero Ottomano ed assunse una nuova vocazione di “limes” europeo, crocevia tra l'Europa cristiana e l'Oriente islamico; dal 1687 fu parte dell'Impero Asburgico, e, tra il Settecento e l'Ottocento assunse una tale importanza per i serbi da acquisire il titolo di “Atene Serba”.

Oggi, Novi Sad è un autentico crogiolo di popoli: Serbi (76%), Ungheresi (5%), Slovacchi (2%) e poi ancora Montenegrini e Croati, Bosniacchi e Rom… Non è solo la città dalle mille lingue (tanto è vero che è conosciuta con il suo nome originario, Novi Sad, che vuol dire “Nuovo Campo” o “Nuova Colonia”, tradotto nelle diverse lingue, dall'ungherese al tedesco, dallo slovacco al romeno) ma anche la città delle mille religioni, almeno da quando fu designata, sotto l'imperatrice Maria Teresa d'Austria, “città libera” nel 1748. Oggi a Novi Sad convivono cristiani ortodossi (soprattutto, in ampia maggioranza, di rito serbo ma anche di rito greco) e cattolici, nonché luterani, islamici ed ebrei che, un tempo, costituivano una comunità fiorente (come testimonia la presenza in città di una splendida Sinagoga), al punto da contare una presenza tra le mille e le duemila unità nel corso del Settecento, ma che, dopo gli stermini nazisti nel corso della seconda guerra mondiale, è stata radicalmente decimata. Dopo l'aggressione nazista alla Jugoslavia, inaugurata il 6 aprile 1941, infatti, la città fu annessa all'Ungheria fascista, e liberata dai partigiani il 23 ottobre 1944, quando, con il territorio della Vojvodina, entrò, come regione della Serbia, nella Jugoslavia Socialista.

Vera capitale della cultura e della memoria, Novi Sad sembra rispecchiare in pieno uno dei criteri cruciali della Commissione Europea per poter fregiarsi del titolo di “Capitale della Cultura”: non solo «per ciò che è e per ciò che ha fatto», ma anche, e in particolare, «per ciò che si propone di organizzare» e di fare. Nel quadrilatero, stretto sul Danubio, tra Boulevard Zar Lazar, Boulevard Oslobodjenja e Boulevard Venizelos, è racchiusa una quantità impressionante di testimonianze culturali, tra le quali la Matica Serba, poco distante la Chiesa di S. Nicola, del 1730, la più antica chiesa ortodossa della città (la cupola è interamente rivestita in oro), ancora oltre la Chiesa della Assunzione, del 1736 e, giunti nel cuore della città vecchia, in Piazza della Libertà (“Trg Slobode”), il Municipio, il Palazzo della Banca della Vojvodina, il Teatro Nazionale, la Cattedrale, in stile neo-gotico, e la statua di Svetozar Miletić (1826-1901), anche detta “Uomo di Ferro”, politico, scrittore, rivoluzionario, già sindaco della città e leader dei Serbi della Vojvodina nell'Ottocento.

Se, come indicano le linee guida della Commissione Europea, «la città è invitata a sfruttare le sue particolarità e a dare dimostrazione di grande creatività» e «la manifestazione è l'occasione per migliorare la cooperazione nel settore culturale e per promuovere il dialogo culturale a livello europeo», non si può che essere ottimisti nei confronti di questa scelta, che sembra dare forza all'intendimento originario della manifestazione, quando, nell'ormai lontano 1985, su iniziativa di Melina Merkouri, artista ed antifascista, all'epoca ministro della cultura in Grecia, «il titolo di «Capitale Europea della Cultura» è stato ideato per contribuire al ravvicinamento dei popoli europei» e concorrere ai suoi obiettivi prioritari, quali promuovere e valorizzare il patrimonio e il dialogo culturale, «valorizzare la ricchezza, la diversità delle culture europee ed i loro tratti comuni, migliorare la conoscenza che i cittadini europei hanno gli uni degli altri, favorire la presa di coscienza dell'appartenenza ad una medesima comunità «europea». Sullo sfondo di una stagione che torna ad essere difficile, irta di conflitti per i Balcani e l'Europa tutta, l'individuazione di Novi Sad quale Capitale Europea della Cultura del 2021 è anche un messaggio di speranza e di futuro, da raccogliere e da concretizzare.