sabato 26 luglio 2014

Appunti per un rilancio del movimento per la pace

Pristina: Museo del Kosovo
A partire dalle osservazioni condivise nel coordinamento della Rete della Pace, la piattaforma di rete va proposta come strumento di condivisione del percorso per la “nostra” partecipazione alla Marcia per la Pace (19 Ottobre) e oltre, ben più che come documento politico-programmatico che richiederebbe ben altro livello di articolazione e ben più approfondito confronto sulle varie questioni.

Le macro-aree di riferimento, con le loro possibili articolazioni e connessioni, sono le seguenti:

1. Europa, pace e disarmo: introdotto da una sintetica ricapitolazione del carattere e degli effetti della crisi economica (strutturale ed organica) nel nostro continente e degli effetti da essa determinati anche in termini di riposizionamento e rilancio del complesso militare-industriale, il tema va declinato sia nel senso delle “promesse mancate” dell'Europa (una politica condivisa ed inclusiva dell'immigrazione, una capacità di iniziativa e mediazione autonoma dagli Stati Uniti e dalla NATO negli scenari di prossimità, una maggiore pro-attività negli strumenti per il peace-keeping civile non armato), sia nel senso delle “proposte esigenti” attraverso cui criticarne gli aspetti più negativi (Frontex, la Politica Europea di Sicurezza e Difesa e Fortezza Europa, l'integrazione euro-atlantica);

2. la guerra ai confini dell'Europa: non si tratta di commemorare simbolicamente il centenario, pure storicamente importante, della Grande Guerra, quanto piuttosto di attivare politicamente energie e strumenti per declinare in termini aggiornati ed efficaci il nostro «no alla guerra senza se e senza ma»; pur senza entrare nell'analisi dei singoli scenari di guerra per l'insufficiente confronto tra le organizzazioni della rete e la diversità di posizione intorno alla lettura delle motivazioni delle crisi in corso, va tuttavia, almeno, richiamato il fatto che la guerra è giunta ai confini della UE e nel cuore stesso d'Europa (Ucraina), che l'assenza di una iniziativa politica e diplomatica della UE contribuisce a deteriorare l'ambiente di pace e sicurezza nel Mediterraneo (Libia, Siria, Palestina, neo-colonialismo africano nel Sahel e questioni dei migranti forzati e dei rifugiati politici), che il semestre europeo deve mettere a frutto le elaborazioni e sperimentazioni più avanzate delle forze di società civile in modo da definire un volto nuovo per le politiche di pace e prevenzione dei conflitti dell'Unione Europea;

3. il Mediterraneo largo e le questioni delle migrazioni: il Mediterraneo resta un vero e proprio cimento per l'Europa; non solo nella contingenza tragica rappresentata dalle stragi dei migranti e dal pericolo che incombe nella “Fortezza Europa”, ma anche perché costituisce una “bussola” per un riorientamento complessivo del ruolo internazionale dell'UE, che vorremmo, infatti, sempre più mediterraneo e sempre meno atlantico; l'interlocuzione politico-diplomatica è importante, ma il dialogo aperto tra le soggettività nonviolente, tra le due sponde del Mediterraneo, può costituire il fattore chiave per aprire scenari di relazione e prossimità, superare la logica mercantilistica dell'Euro-Med 5+5, offrire un campo di elaborazioni e sperimentazioni, basate sui diritti umani, il ripudio della logica militare e la nonviolenza, per gli attori democratici delle “primavere arabe”, esperienze e pratiche utili per il superamento nonviolento dei conflitti, ed alimentare la speranza per uno Stato di Palestina, libero e sovrano, nella cornice dei “due popoli due stati”, e di un rinnovato confronto sul Vicino Oriente;

4. la trasparenza nel sistema difesa, il controllo sui sistemi d'arma, l'abolizione delle servitù militari: è un argomento dal profondo contenuto analitico, sul quale si esercitano rivendicazioni storiche del movimento per la pace, basti pensare almeno alle campagne più rappresentative e durature, per la trasparenza del sistema difesa e il monitoraggio dei bilanci della difesa, per il superamento del modello tradizionale di difesa militare e aggressiva verso una difesa civile e difensiva, per una maturazione più intensa, anche all'interno del movimento, del tema del transarmo, per il controllo dei sistemi d'arma e per l'abrogazione integrale del programma F-35, per la bonifica e messa in sicurezza dei siti militari ed il monitoraggio di porti e piattaforme civili utilizzati anche per il transito di mezzi e strumenti militari, contro le servitù militari e per la loro riconversione, unita ad una più sistematica azione di riconversione civile dell'industria bellica, passando, infine, per le questioni che riguardano la ridefinizione del ruolo stesso del “militare”, sempre più impegnato in ambiti non pertinenti (dalle missioni promozionali della portaerei Cavour ai programmi di “istruzione” con militari nelle scuole);

5. Difesa Civile, educazione alla pace e Corpi Civili di Pace: la campagna per la legge di iniziativa popolare sulla difesa civile può rappresentare, sotto questo versante, il terreno unificante per storiche rivendicazioni, tuttora attuali: il potenziamento del servizio civile come difesa della patria alternativa al militare, il completamento del percorso normativo per la definitiva istituzione, in Italia, dei Corpi Civili di Pace come strumenti autonomi di società civile per la prevenzione e la trasformazione dei conflitti, la realizzazione di un Istituto Centrale per la Ricerca e la Sperimentazione sui CCP, l'introduzione, all'indomani della riforma della cooperazione, pur negativa per il suo impianto privatistico ed affaristico, di approcci “conflict sensitive” nei programmi di cooperazione e di APS, la conferma della totale distinzione tra area civile ed area militare nel lavoro di prevenzione dei conflitti, il potenziamento, anche curricolare, della educazione alla pace nelle scuole e degli “studi per la pace” e “ricerca per la pace” nelle università.

sabato 12 luglio 2014

Verità e Giustizia per la Palestina


La guerra scatenata da Israele contro la Palestina, all'indomani della uccisione dei tre giovani coloni israeliani in area, peraltro, sotto controllo israeliano, è in realtà una rappresaglia violenta ed una punizione collettiva 

nei confronti dell’intero popolo palestinese: demolizioni, bombardamenti, arresti, cento morti e seicento feriti, senza contare l’immane devastazione, in termini di dolore e sofferenza, di raccapriccio e terrore, che questa violenza ha innescato, solo nei primi giorni della campagna militare cinicamente denominata “Barriera Protettiva”.


Questa autentica aggressione, con l’imperiosa e improvvisa devastazione scatenata, non dovrebbe semplicemente accendere i riflettori di una (ennesima) emergenza, ma soprattutto ricordare al mondo che la guerra nei Territori Palestinesi Occupati, in realtà, non è mai finita. La Cisgiordania continua a subire la violenza di una costante colonizzazione, una lacerante sottrazione di terra e di libertà, la ferita obbrobriosa del Muro dell’Apartheid. Gaza è una autentica prigione a cielo aperto, il cui confine è presidiato dalle forze militari di Israele e da cui non è praticamente possibile né entrare né uscire. I palestinesi di Gaza, in trappola e sotto le bombe, vivono la situazione più disperata.

La matrice del conflitto non è nel terrorismo palestinese, deprecabile e contro-producente, contro Israele, ma nell’occupazione israeliana. Fa sempre un certo effetto dovere ricordare, nel silenzio e nell’oblio del mainstreaming mediatico, che i Territori Palestinesi di Cisgiordania e Gaza, sin dalla Guerra dei Sei Giorni del 1967, sono occupati dallo Stato di Israele, che è lo Stato occupante e, pertanto, responsabile della sicurezza, in particolare nell’area in cui è avvenuto il sequestro e l’uccisione, altrettanto deprecabile e contro-producente, dei tre giovani coloni israeliani. Il tentativo, da parte di Israele, di fare ricadere sulle spalle dell’Autorità Nazionale Palestinese, la responsabilità dell’accaduto, è un tentativo cinico e baro, una menzogna creata ad arte per giustificare la guerra, che punta a preservare lo status quo e distruggere l’unità nazionale palestinese, così faticosamente conseguita.

Oggi, nel pieno dell'aggressione israeliana contro Gaza, siamo esattamente a dieci anni dalla sentenza della Corte Internazionale di Giustizia contro il Muro dell'Apartheid, costruito da Israele entro i confini della Cisgiordania, definito “contrario alla legge internazionale”, pericoloso in quanto costituisce un “fatto compiuto” che può determinare un “precedente grave”, in termini di segregazione di un popolo e di sottrazione di territorio, e “impedisce gravemente l’esercizio da parte della popolazione palestinese del suo diritto alla auto-determinazione, costituendo un’infrazione dell’obbligo di Israele a rispettare quel diritto”, riconosciuto e protetto dalla Carta delle Nazioni Unite.

La questione palestinese ha al suo centro l’occupazione militare israeliana, ed è fatta, da una parte, di apartheid e colonizzazione, dall’altra di diritti e speranze negate, a partire dal diritto di auto-determinazione e dal diritto al ritorno del popolo palestinese. Senza porre fine all'occupazione ed al colonialismo, come si comprende anche ad un’occhiata, superficiale e distratta, alla carta geografica, sarà impossibile una soluzione positiva del conflitto e il percorso pieno della pace.

Queste ragioni chiamano in causa noi tutti, la “comunità internazionale”, società civile e autorità istituzionali, complessivamente intesa. Israele non è uno “stato illegittimo” da fare scomparire dalla carta geografica; Israele è nella condizione di uno “stato criminale” che, attraverso gli strumenti del diritto e della giustizia internazionale, deve essere ricondotto nel consesso dei soggetti pari della “comunità internazionale”, né al di sopra della legge, né tributario di una grazia speciale di esenzione o di impunità. Sono circa settanta le risoluzioni delle Nazioni Unite di condanna dei comportamenti dello Stato di Israele; circa trenta le risoluzione dell’ONU violate da Israele, primo in questa “classifica”.

Serve un’assunzione di responsabilità. Ad esempio, mettendo al bando le attività economiche e i relativi investimenti nei Territori Occupati e cessando la cooperazione militare, a tutti i livelli, con Israele: bloccare la consegna a Israele dei jet M346, definiti “addestratori avanzati” ma in realtà già progettati per essere armati con missili o bombe, da usare, come è accaduto finora, prevalentemente contro i palestinesi; cancellare, sul piano della politica italiana, la cooperazione militare Italia-Israele (l. 17 maggio 2005, n. 94) e, sul piano internazionale, il programma di cooperazione individuale nel quadro della partnership NATO-Israele, varato il 2 dicembre 2008, alla vigilia di “Piombo Fuso”.

Come bene mette in luce una delle piattaforme di mobilitazione a sostegno della auto-determinazione palestinese e contro la guerra a Gaza, che si stanno moltiplicando negli ultimi giorni: « Opporsi a questo stato di cose non significa essere “antisemiti”, anzi, significa combattere ogni forma di razzismo, discriminazione e sopraffazione portando avanti rivendicazioni di libertà, democrazia e giustizia che accomunano tutti gli sfruttati e gli oppressi della terra, che quotidianamente lottano per conquistare diritti sociali e civili, culturali e politici; giustizia e libertà per un futuro dignitoso».