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martedì 30 maggio 2023

“Sindaci” nel Nord, tensione in Kosovo


Радосав Стојановић, Boletin, Public Domain, via Wikimedia Commons

Le notizie che giungono dal Kosovo, nel contesto della nuova ondata di tensione che ha fatto seguito alla forzatura delle autorità albanesi kosovare di insediare propri “sindaci” nelle città a maggioranza serba del Nord del Kosovo, sono preoccupanti e richiamano l’urgenza di una rapida riduzione della tensione, di una ripresa del dialogo, di una prospettiva di pace e giustizia nella regione. Ufficiali della missione NATO KFOR hanno colpito i cittadini serbi raccoltisi in protesta presso gli edifici delle Municipalità, in particolare presso la Municipalità di Zvečan. A detta degli osservatori presenti, a dispetto del fatto che la manifestazione fosse stata annunciata e pacifica, il personale della KFOR, giunto sul posto, ha intimato ai manifestanti di disperdersi, Igor Simic, vicepresidente del partito della Lista Serba, ha chiesto ai manifestanti di sedersi per terra con le mani alzate per mostrare che erano disarmati e pacifici, ed è stato a sua volta trascinato via dalle forze della KFOR. Per disperdere i manifestanti, gli ufficiali della KFOR non hanno esitato a utilizzare anche granate (trenta granate flash bang) e gas lacrimogeni contro i manifestanti, e sono stati feriti almeno due serbi.

La situazione è resa complicata dallo sfondo di tensione, legato al fallimento degli ultimi round del dialogo mediato dalla UE tra Belgrado e Prishtina e alla situazione di guerra sul fronte russo-ucraino in cui la NATO e la UE sono attivamente impegnate, nel quale queste tensioni vengono a cadere. Il Consiglio di sicurezza serbo ha affermato, in una dichiarazione del 27 maggio, che, in violazione del suo mandato, la KFOR ha sostanzialmente ignorato l'attività aggressiva delle forze dell'ordine del Kosovo nei Comuni serbi e non è riuscita (non ha potuto o non ha voluto, si potrebbe aggiungere) a impedire i tentativi delle autorità di Prishtina di “prendere il controllo” degli edifici amministrativi nel Kosovo del Nord. Il 26 maggio, il presidente serbo Aleksandar Vučić aveva invitato la NATO a prendere misure per porre fine alla violenza contro i serbi in Kosovo. Il ministro della Difesa serbo Miloš Vučević ha inoltre confermato che l'esercito serbo è in stato di allerta.

Le origini di questa nuova contrapposizione vanno ricercate nelle modalità di svolgimento delle ultime elezioni amministrative tenute il 23 aprile scorso e boicottate dall’intera comunità serba del Kosovo, in considerazione non solo del clima di tensione, conseguente allo scontro diplomatico tra Belgrado e Prishtina e alla cosiddetta “controversia delle targhe”, ma anche della sostanziale inagibilità politica per i serbi del Kosovo, trattandosi, come dichiarato da Aleksandar Jablanović, uno dei dirigenti serbi a Leposavić, di «una circostanza in cui, quando dal 21 novembre i serbi non possono circolare liberamente con i loro veicoli nel nord del Kosovo per le nuove norme sulla immatricolazione con le nuove targhe, sarebbe assurdo pensare di tenere delle elezioni»; ciò essendo legato al fatto che, come spiegato agli organi di informazione da Aleksandar Arsenijević della iniziativa civica “Srpski opstanak” a Kosovska Mitrovica, «non ci sono le condizioni per indire elezioni. Al Nord non c’è la possibilità di organizzare una partita di calcio, figuriamoci un’elezione. Ascoltiamo la voce dei nostri cittadini, e i nostri cittadini hanno deciso che queste elezioni dovrebbero essere boicottate».

Queste, tra le altre testimonianze raccolte nell’autunno scorso, tornano oggi utili per capire il clima nel quale sono state celebrate queste elezioni e, a maggior ragione, per comprendere le cifre dei risultati delle elezioni nel Nord: a Leposavić, Lulzim Hetemi, di Vetëvendosje, è stato eletto sindaco con 100 voti; a Kosovska Mitrovica, Erden Atiq, ancora di Vetëvendosje, con 519 voti; a Zubin Potok, Izmir Zeqiri, del PDK (Partito Democratico del Kosovo), con 196 voti; a Zvečan, Ilir Peci, ancora del PDK, con 114 voti. Le stesse cerimonie di giuramento sono state celebrate ben distanti dai capoluoghi, e si sono tenute nei villaggi albanesi dell’entroterra del Nord: Lulzim Hetemi, ha prestato giuramento nell’ufficio locale del villaggio di Šaljska Bistrica; Izmir Zeqiri ha prestato giuramento nel villaggio di Čabra; Ilir Peci nel villaggio di Boljetin/Boletini. Quest’ultima destinazione non è priva di risvolti simbolici di tenore nazionalistico: si tratta infatti del villaggio natio di Isa Boletini, icona del nazionalismo albanese e importante leader militare dell'indipendenza albanese, seppellito il 10 giugno 2015 nel villaggio che ospita anche la sua Kulla, oggi celebrato monumento kosovaro.

Al di là della mera maggioranza numerica dei voti espressi, la cornice di legittimità di tali “sindaci” si situa tra un processo elettorale ampiamente compromesso e un esito elettorale visibilmente surreale. La stampa serba non ha mancato, ovviamente, di fare notare come, affermando l’intenzione di lavorare nell’interesse di tutte le comunità del Kosovo, questi stessi “sindaci” abbiano tuttavia prestato giuramento in albanese. Vivono oggi nel Nord del Kosovo oltre 50 mila serbi, che costituiscono oltre il 90% della popolazione dell’area, a fronte di una affluenza al voto, nelle scorse elezioni amministrative, addirittura inferiore al 4%. La metafora della “presa delle istituzioni” del Nord del Kosovo è ampiamente usata dalla stampa, mentre in una surreale dichiarazione, all’indomani del voto, le autorità dell’autogoverno di Prishtina hanno affermato che «il governo sostiene pienamente le nuove amministrazioni nel loro lavoro al servizio di tutti i cittadini, senza distinzione alcuna».

Sono i frutti avvelenati del nazionalismo e della contrapposizione etnopolitica, che si riversa non a caso anche sui tavoli della diplomazia. Nel vertice tra il presidente serbo Aleksandar Vučić e il capo dell’autogoverno del Kosovo, Albin Kurti, tenuto lo scorso 2 maggio nell’ambito del dialogo mediato dall’Unione Europea, non si sono fatti passi in avanti sui temi dello statuto e della costituzione della Comunità dei Comuni Serbi del Kosovo, già concordata e approvata nei precedenti accordi del 2013 e del 2015 e ora rigettata dalle autorità kosovare perché «incompatibile con la Costituzione del Kosovo». Ad oggi, il Kosovo non è uno stato riconosciuto dalla comunità internazionale nel suo complesso: sono meno di novanta gli Stati con cui il Kosovo ha relazioni diplomatiche e circa cento quelli che ad oggi hanno riconosciuto l’indipendenza kosovara.

Fonti: Pressenza, Novosti, Wikipedia

domenica 19 agosto 2018

Kosovo: la tentazione della separazione etnica?

Monumento NEWBORN, per il decennale della indipendenza, Prishtina

I luoghi comuni si moltiplicano, in un agosto in cui i cosiddetti “Balcani Occidentali” sembrano avere riguadagnato la scena; e, in questa cornice, il Kosovo in particolare. La cancelliera tedesca Angela Merkel è stata l’ultima, in ordine di tempo, proprio intorno alle giornate di Ferragosto, ad intervenire sulla questione più sensibile, che pure sembra affermarsi anche nei circoli diplomatici e nelle osservazioni degli analisti: una inedita partizione, magari nella forma di uno «scambio di territori», tra la Serbia ed il Kosovo, per giungere finalmente ad un accordo risolutivo tra le parti.
 
«Per la Germania la ridefinizione dei confini è una questione chiusa, quindi come andare contro questa posizione? È ovvio che ci vorrà molto più tempo di quanto si sarebbe potuto immaginare. Ciò che qualcuno può aver pensato, che un accordo possa essere raggiunto nel giro di due o tre mesi, è qualcosa da dimenticare». Così ha sintetizzato i termini della questione il presidente serbo, Aleksandar Vučić, che pure era sembrato, negli ultimi tempi, caldeggiare questa ipotesi.
 
Ma cosa si intende per “ridefinizione dei confini”? Mascherata dietro il linguaggio diplomatico e coperta, di volta in volta, da sinonimi ed eufemismi, sia in alcuni passaggi con la stampa, sia in una recente presa di posizione pubblica a Šid, nel nord della Serbia, non distante dalla Croazia, la proposta è stata più volta ribadita, non solo da Vučić, ma  anche da alcuni alti ufficiali del governo serbo; ed è rimbalzata a Prishtina, dove sembra avere trovato alcuni tra i leader albanesi kosovari, e in primo luogo il presidente stesso della regione separatista, Hashim Thaçi, non contrari.
 
Qualche tempo fa, la premier serba Ana Brnabić, in una presa di posizione pubblica, aveva precisato quale dovrebbe essere il carattere di fondo di una soluzione di compromesso equilibrata, capace di spianare la strada ad un accordo tra Belgrado e Prishtina: tutti dovranno poter ottenere qualcosa, ciascuno dovrà cedere qualcosa. È impensabile un accordo in cui l’una o l’altra delle due parti possa ambire ad ottenere il 100% di ciò che pretende. È da lì che sia il presidente serbo, sia, in maniera più netta, la leadership albanese kosovara, hanno iniziato a porre l’accento sull’esistenza di «linee rosse», dei limiti invalicabili, o conditio sine qua non, nel quadro delle trattative in corso.
 
Una piena indipendenza “di fatto”, senza il riconoscimento ufficiale della sovranità del Kosovo, è il punto di vista di Belgrado. Riconoscimento pieno dello stato kosovaro e adesione a tutte le organizzazioni internazionali, secondo, invece, il punto di vista di Prishtina. Mediati dall’alto rappresentante per la politica estera dell’Unione Europea a Bruxelles, i dialoghi diplomatici tra serbi e albanesi kosovari non stanno dando, tuttavia, i frutti sperati; anzi, gli ultimi incontri nel mese di luglio, prima dei prossimi, forse già a settembre, sono stati definiti i più difficili degli ultimi tempi.
 
I «luoghi comuni» non sono finiti, se è vero che, in una recente conferenza presso l’Hotel Moskva, nel cuore della capitale, Belgrado, il ministro degli esteri serbo, Ivica Dačić, ha sottolineato come proprio un certo cambio di atteggiamento da parte dell’amministrazione statunitense sia stato tra i presupposti dell’apertura della nuova opzione, quella relativa alla “ridefinizione dei confini”: gli Stati Uniti hanno sempre considerato “chiusa” la questione kosovara con la proclamazione dell’indipendenza (dieci anni fa, il 17 febbraio 2008); adesso sembrano più propensi a disinnescare il «pilota automatico» e più aperti ad una soluzione alternativa raggiunta direttamente da Belgrado e Prishtina.
 
Purché non sia una soluzione che scoperchi per l’ennesima volta il «vaso di Pandora»: lo scambio di territori cui si sta guardando rischia di essere pericoloso e minaccia di scatenare una reazione a catena di portata regionale. Si tratta, infatti, di uno scambio di territori per linee etniche: i confini sarebbero ritracciati in modo che rientrerebbero sotto la piena sovranità serba i distretti a maggioranza serba del Kosovo settentrionale (tra Leposavić, Zvečan, e Zubin Potok, fino a Kosovska Mitrovica), mentre al Kosovo verrebbe assegnata l’estrema parte sud-orientale della Serbia, la zona, a maggioranza albanese, della valle di Preshevo, con le municipalità di Bujanovac, Medvedja, e la stessa Preshevo.
 
D’altra parte, come ha scritto Gordana Filipović, «due decenni dopo la disintegrazione della ex Jugoslavia, nel conflitto più sanguinoso dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, riscrivere i confini rischierebbe di destabilizzare una regione ancora alle prese con gravi tensioni tra i vari gruppi», serbi, albanesi, croati, bosniaci, macedoni. La Republika Srpska potrebbe rivendicare la separazione dalla federazione croato-musulmana cui è “unita” nel contesto, anche questo nato da una riscrittura post-bellica dei confini, della Bosnia Erzegovina. La Macedonia, ancora alle prese con la disputa con la Grecia sul proprio nome, è popolata da una forte componente albanese, non insensibile al richiamo separatista. 
 
Perfino la parola “guerra” sembra, purtroppo, tornare in auge. Contrario all’apertura mostrata da Thaçi nei confronti della proposta sui confini, il premier albanese kosovaro, Ramush Haradinaj, si è spinto al punto da dichiarare che la guerra ha sancito questi confini, e solo una nuova guerra potrà definirne di nuovi. Nessuno sembra o vuole ricordare che un accordo di principio tra le due capitali è già stato siglato: risale al 19 aprile 2013, lascia intatti i confini, definisce lo status del Kosovo senza un suo riconoscimento ufficiale ed esplicito da parte della Serbia, prevede, all’interno dei confini kosovari, la formazione di una comunità dei comuni serbi, sulle dieci municipalità a maggioranza serba della regione, dunque non solo i distretti del Nord del Kosovo, dotata di sostanziale autonomia. 

Potrebbe essere il viatico per risolvere la questione in maniera costruttiva, nel senso che, citando Daniel Serwer della John Hopkins University, «se la Serbia e il Kosovo vorranno essere stati democratici e membri dell’UE, dovrebbero lasciare le loro minoranze nazionali entro i confini esistenti». Ed ovviamente, impegnarsi lungo la strada di un accordo reciprocamente accettabile, e nella tutela dei diritti di tutti, in particolare delle minoranze nazionali. Dovremmo davvero lasciarci alle spalle gli incubi degli “stati etnici”. Ma non sembra sia ancora, purtroppo, arrivato il momento. 

Linkto: ildialogo.org
 

giovedì 22 marzo 2018

Kosovo: quando la guerra «ferma» il tempo


Foto di Arben Llapashtica, via Wikimedia Commons


Sembra incredibile, ma le cose stanno così: tutti gli orologi attivati da rete elettrica in Europa, come ad esempio, ma non solo, gli orologi delle radio-sveglie, dei forni elettrici, del riscaldamento elettrico, sono sistematicamente in ritardo, accusano cioè un ritardo, che si è progressivamente accumulato a partire dal gennaio di quest’anno, che ammonta adesso a circa sei minuti. 

La spiegazione più immediata sta in una “irregolarità” nella frequenza della rete elettrica europea, come ha confermato un comunicato emesso lo scorso 6 marzo dalla ENTSOE, la Rete Europea degli Operatori dei Sistemi di Trasmissione dell’Elettricità, vale a dire la rete degli operatori di rete elettrica attivi nel cosiddetto «Continental European Power System», un’area comune di frequenza elettrica sincronizzata, che abbraccia 25 Paesi e che si estende dalla Spagna alla Polonia e dai Paesi Bassi alla Turchia. Qui, dalla metà del gennaio 2018 – riporta il comunicato – «si sta verificando una continua deviazione nella frequenza di sistema rispetto al valore principale di 50 Hz». 

Perché questo scostamento sia così significativo e possa avere effetti così paradossalmente rilevanti, è lo stesso comunicato a spiegarlo, quando specifica che un sistema elettrico sincronizzato è un sistema ad ampio raggio (in termini tecnici, una griglia di elettricità) che copre diversi Paesi che operano sulla base di una frequenza sincronizzata e che è tenuta insieme, sotto il profilo elettrico, in normali condizioni di sistema. Nell’Europa continentale, tale frequenza sincronizzata è pari a 50 Hz. 

Tuttavia «affinché il sistema funzioni correttamente, la frequenza non può essere inferiore a 47.6 Hz. e superiore a 52.4 Hz. Ai valori-limite di 47.5 Hz. (sotto-frequenza) e di 52.5 Hz. (sovra-frequenza) i dispositivi collegati si disconnettono automaticamente. La frequenza media a partire da metà gennaio del 2018 sino ad oggi è stata di 49.996 Hz.» inferiore ai 50 Hz. della frequenza media di sincronizzazione. Questo determina il ritardo. 

Vi è un ammanco di energia attualmente pari a 113 GWh. La conseguente riduzione della frequenza sotto i 50 Hz. provoca un ritardo, oggi pari a sei minuti, in tutti gli orologi alimentati dall’energia elettrica nel continente europeo. Ma cosa ha determinato questo vero e proprio, sorprendente, «rallentamento del tempo»? 

«Le deviazioni di potenza» – spiega il comunicato della ENTSOE – «hanno origine nella zona di controllo denominata Serbia, Macedonia, Montenegro (SMM) e, in particolare, in Kosovo e Serbia». E la questione, che a prima vista sembrava ascrivibile a mere motivazioni “tecniche”, finisce per avere invece risvolti e ragioni ben più profonde, politiche: «I disaccordi politici che contrappongono le autorità della Serbia e del Kosovo hanno determinato questo impatto sull’elettricità. Se non sarà trovata una soluzione a livello politico, il rischio di tale deviazione potrà permanere». 

Da quanto si apprende, infatti, proprio a partire dalla metà del gennaio di quest’anno, il Kosovo ha iniziato a consumare più elettricità di quanta ne produce, in relazione ai parametri di produzione e di consumo stabiliti e regolati a livello europeo. Questo ammanco di energia non è stato ripianato e, pertanto, dal momento che il sistema elettrico europeo è interconnesso e i valori regolati in maniera tale da coinvolgere tutti i Paesi connessi nella rete, l’ammanco ha causato un geometrico «effetto domino» da un capo all’altro del continente. 

Come è stato riferito dalla stampa, se vi è uno squilibrio da qualche parte, questo si riverbera sulle altre parti; se vi è una riduzione, questa porta a una lenta diminuzione della frequenza. E così, a cascata, la mancata soluzione dei problemi del Kosovo e lo stallo negli accordi tra Belgrado e Prishtina, ha finito per riverberarsi sul continente. 

Che la controversia richieda una soluzione di natura politica, lo dimostra il tenore delle reciproche accuse tra autorità serbe e kosovare: l’operatore elettrico serbo ha precisato che, nei mesi di gennaio e febbraio, le autorità kosovare hanno prelevato, senza autorizzazione, energia elettrica dall’area continentale europea di sincronizzazione, determinando quindi l’ammanco, la riduzione di frequenza, e il ritardo negli orologi; viceversa, dall’operatore elettrico kosovaro hanno riconosciuto che energia elettrica sia stata stornata nel Kosovo settentrionale, fuori dal controllo delle autorità centrali kosovare, e tuttavia quei consumi elettrici non sono stati pagati all’ente elettrico. 

Il Nord del Kosovo, a maggioranza serba e legato a Belgrado, è in ampia misura fuori dal controllo delle autorità centrali, a maggioranza albanese, del Kosovo. Anche questa situazione è figlia di una controversia politica: Belgrado e Prishtina hanno pattuito un Accordo sull’Energia nel 2015 finalizzato alla costituzione, da parte dell’ente elettrico della Serbia, di una propria controllata per la fornitura dell’energia elettrica in Kosovo, per le municipalità a maggioranza serba della regione; ma l’accordo non è stato implementato, la compagnia prevista non è stata ancora registrata e autorizzata, e le autorità kosovare mostrano, nel migliore dei casi, una certa “indolenza”, nell’implementazione di questi accordi, finalizzati, con altri, alla normalizzazione delle relazioni tra le due “capitali”. 

Il primo accordo di principio per la normalizzazione delle relazioni risale, ormai, al 19 Aprile 2013, l’epoca dei famosi, storici, Accordi di Bruxelles, o Brussels Agreement. Quasi cinque anni di ritardi. E sei, incredibili, minuti.

venerdì 17 marzo 2017

"The Boiling Point"

Leonard Raven-Hill (1867-1942), "The boiling point", Punch, 2 Ottobre 1912
  

Come arrivano stati e regioni dei Balcani Occidentali all'importante appuntamento, di oggi e domani, in occasione del “Vertice a Sei”, a Sarajevo, tra il Commissario Europeo all'Allargamento, Johannes Hahn, e le leadership di Bosnia, Serbia, Montenegro, Macedonia, Albania e dell'auto-governo del Kosovo? Il contesto regionale con cui le cancellerie e gli osservatori si trovano a che fare è uno dei più problematici dell'intero panorama europeo e registra, in questa fase, uno dei momenti più acuti di crisi e di inquietudine. Non è solo la prospettiva incerta e faticosa dell'allargamento europeo ad essere messa in discussione; ancora una volta, è la stessa possibilità di pace e convivenza nella regione a segnare battute di arresto assai preoccupanti.

Anche per questo, più che nel recente passato, le diplomazie si esercitano in un “lavoro sul simbolico”, un “intervento sugli immaginari” che non si vedeva da tempo. Abbiamo già raccontato, qui, dell'intervento di Federica Mogherini, Alto Rappresentante della Politica Estera UE, sul ponte della città divisa di Mitrovica, tra gli Albanesi e i Serbi del Kosovo, in occasione della sua vista il 4 Marzo nella regione; analogamente, venerdì 17 Marzo, Johannes Hahn inaugurerà l'apertura del ponte sulla Sava a Svilaj, a cavallo tra la Bosnia e la Croazia. I “ponti” tornano ad essere veicolo di immaginari potenti: non solo contro i nuovi muri che, non solo in Europa - e qui soprattutto nei Balcani - si ergono per costruire nuove separazioni e impostare nuovi respingimenti “sovrani”; ma anche per segnalare l'esigenza della convivenza e della costruzione della pace.  

Sebbene le cancellerie non manchino di esprimere, ad ogni occasione, “pieno sostegno” al percorso europeo di questo o quel paese della regione (ultimi, in ordine di tempo, il ministro degli esteri italiano, in visita a Belgrado lo scorso 14 marzo, e la cancelliera tedesca, presso la quale si è recato il premier serbo ancora lo scorso 14 marzo), non sempre questo “dialogo strutturato” viene percorso con coerenza né mancano forzature e condizionamenti. Le dichiarazioni, “in parallelo”, del ministro italiano e della cancelliera tedesca, se da una parte confermano il sostegno di Roma e Berlino al percorso europeo, insistono dall'altro sul fare di più e meglio sia nel senso delle riforme interne che, in questo caso la Serbia - ma non si tratta solo della Serbia - devono intraprendere, sia nel senso della “liberalizzazione” sempre più spinta dei mercati nazionali nei confronti del mercato europeo. Senza contare, ovviamente, pressioni anche di altro tipo: come quella, paventata a più riprese, di subordinare il percorso europeo della Serbia al riconoscimento del Kosovo come Stato, alimentando tensioni nel dialogo bilaterale e cancellando di fatto la risoluzione 1244 del 1999.

D'altro canto, una recente risoluzione del Parlamento Europeo, votata in Commissione Esteri il 28 febbraio, approvata con 40 voti favorevoli, 12 contrari e 5 astensioni, si è perfino spinta a stigmatizzare il fatto che cinque paesi membri dell'Unione Europea (Spagna, Romania, Slovacchia, Grecia e Cipro) non riconoscano il Kosovo come Stato, notando come se i Paesi membri si allineassero su una linea comune rafforzerebbero la credibilità della UE ed affermando, in questo caso persino paradossalmente, che un riconoscimento ufficiale del Kosovo come Stato finirebbe per aiutare a “normalizzare” le relazioni tra il Kosovo stesso e la Serbia.  

Né il Consiglio Europeo è stato in grado di approvare un documento comune sui Balcani Occidentali a conclusione della riunione tenuta lo scorso 10 marzo: nelle conclusioni, il Consiglio sottolinea l'importanza della prosecuzione del processo di riforma, delle relazioni di buon vicinato e delle iniziative di cooperazione regionale; peraltro, come ribadito dal presidente della Commissione Europea, Jean Claude Juncker, non è stato un errore l'avere annunciato che non ci sarebbe stato nessun nuovo ingresso nell'UE durante il mandato dell'attuale Commissione, poiché, come riportato dalla stampa, «nessun candidato è pronto per l'ingresso».

Non mancano, poi, nuove minacce e criticità: dalla Bosnia è stata avanzata alle Nazioni Unite la richiesta di rivedere la sentenza della Corte dell'Aja del 2007 che assolse la Serbia in quanto tale dall'accusa di genocidio in Bosnia (richiesta respinta dalla Corte lo scorso 8 Marzo); dal Kosovo, quando ci si aspetterebbe un rilancio del dialogo mediato a Bruxelles e la piena implementazione degli Accordi del 19 Aprile 2013 e del 25 Agosto 2015, avanza addirittura la proposta di trasformare la “Kosovo Security Force” in un vero e proprio esercito regolare del Kosovo (richiesta che, se approvata, non potrebbe che bypassare il dettato stesso della costituzione del Kosovo e che non ha mancato di suscitare preoccupazione anche negli ambienti UE e NATO), progetto per ora accantonato ma che resta sullo sfondo come una minaccia nei rapporti regionali.  

Intanto, annunciata a più riprese per il 20 Gennaio, la riapertura del ponte-simbolo di Mitrovica slitta ancora a data da destinarsi: per quello che la Mogherini stessa auspicava potesse diventare, da “simbolo della divisione”, un “simbolo del dialogo”, si parla adesso addirittura del mese di maggio. Intanto, il 2 Aprile, si voterà in Serbia per il nuovo presidente della Repubblica; il successivo 18 Giugno si terranno le elezioni legislative in Albania; e la Macedonia, ancora senza governo dopo le ultime elezioni politiche, è attraversata da proteste e dissidi, anche questi a sfondo etno-politico, tra nazionalisti macedoni e minoranza albanese locale.

Ancora una volta, i frutti avvelenati del nazionalismo e le interferenze interessate delle maggiori potenze scaricano sui Balcani crisi e tensioni; e i Balcani tornano, ancora una volta, al centro dell'Europa, quando la pace e la convivenza nell'Europa del Sud e dell'Est significano pace e convivenza per il continente intero.  

lunedì 9 gennaio 2017

Serbia multietnica

Foto Stewart Butterfield (flickr) [CC BY 2.0], via Wikimedia Commons

È recente la notizia, positiva, che ci ricorda, da un lato, che la Serbia resta Paese propriamente multi-etnico, con la Bosnia, tra quelli emersi dalla disgregazione della Jugoslavia, federazione pluri-nazionale per eccellenza, e ci informa, d'altro canto, che il tema della tutela della pluralità etnica e della diversità culturale e quello della difesa dei diritti umani e delle libertà fondamentali non possono che essere strettamente intrecciati.
 
Alla vigilia di Natale, lo scorso 23 dicembre, è stato siglato, da parte del ministro dell'istruzione di Serbia, Mladen Šarčević, del direttore dell'Istituto per i libri di testo in uso nelle scuole, Dragoljub Kojičić, e dei rappresentanti dei consigli nazionali delle minoranze in Serbia (bosniaca, bulgara, ungherese, rumena, rutena, slovacca e croata) un significativo memorandum sulla cooperazione nel settore dei libri di testo nelle lingue delle minoranze. Con l'ottavo tra questi, il consiglio della minoranza albanese, sarà analogamente firmato un allegato alle stesse condizioni, quando avrà inizio l'implementazione del memorandum stesso.
 
Come messo in evidenza da un comunicato del ministero, «il memorandum si riferisce al completamento dei libri di testo per le scuole primarie, con riferimento a quelle minoranze che hanno intere classi impegnate nell'apprendimento in lingua madre all'interno della scuola primaria». Inoltre, «il rispetto dei diritti umani in materia di istruzione, con particolare attenzione a promuovere la conservazione della pluralità inter-culturale e a incoraggiare le identità nazionali e le culture delle minoranze, sono i principali punti che hanno orientato l'iniziativa del ministero», come riferito in una comunicazione dell'ufficio del ministro, un indipendente all'interno del governo, non appartenente a nessuno dei due principali partiti della coalizione (i progressisti, nazional-conservatori, dell'SNS, e i socialisti, socialdemocratici, dell'SPS), un passato da dirigente scolastico.
 
La notizia segue quella del 24 marzo, quando il processo di ratifica del memorandum è stato avviato; al fine di raggiungere la piena attuazione del piano d'azione per i diritti delle minoranze, infatti, il Ministero, insieme con l'Istituto e i Consigli delle minoranze, ha affrontato la questione dei libri di testo in lingua madre, dapprima con le minoranze rumena, rutena, ungherese, bulgara, croata, bosniaca, slovacca, e, quindi, con i rappresentanti della minoranza albanese, il cui memorandum è stato firmato lo scorso mese di agosto.
 
Si è trattato, in questo caso, di una “notizia nella notizia”, per la problematicità dei rapporti tra la minoranza albanese e le istituzioni serbe, non solo per i noti motivi storici, tra cui quelli legati alla questione kosovara e alle rivendicazioni della minoranza albanese della valle di Preševo, ma anche per la più recente controversia dei libri di testo, legata agli eventi del marzo 2016, quando migliaia di libri di testo in albanese, provenienti dal Kosovo, diretti alle scuole di Preševo, furono bloccati al terminal amministrativo e infine spediti indietro.
 
Il memorandum prevede che, prima dell'inizio dell'anno scolastico, ciascuna minoranza presenti una lista di libri di testo. Gli allegati prevedono la fornitura di 84 nuovi titoli di cui 25 in lingua bosniaca, 18 in croato, 16 in slovacco, 12 in bulgaro, 5 in rumeno, 5 in ruteno e 3 in ungherese. A questi andranno aggiunti quelli che si definiranno per la lingua albanese. Ciò potrebbe rappresentare un ulteriore punto di distensione nei rapporti bilaterali. 

E questo è stato uno degli effetti dell'accordo in relazione ai, diversamente problematici, rapporti con la Croazia. Infatti, all'indomani della stipula del memorandum, la Croazia ha manifestato l'intenzione di “rimuovere le proprie riserve” in merito all'apertura di un nuovo capitolo del negoziato di adesione della Serbia all'UE, facendo riferimento, in particolare, al capitolo 26 (Istruzione e Cultura) dei negoziati in corso.
 
La decisione della Croazia, peraltro, è maturata non solo in conseguenza dell'accordo, ma anche a seguito del pressing esercitato dalle diplomazie europee ed atlantiche. Come è stato riportato da fonti di stampa, infatti,  la Commissione Europea e gli Stati Membri avevano già dichiarato di considerare la questione materia prettamente bilaterale, che sarebbe dovuta essere risolta tra Serbia e Croazia e che non avrebbe dovuto coinvolgere le istituzioni comunitarie. 

La Croazia si era trovata isolata nel suo veto alla prosecuzione dei negoziati della Serbia, in un momento in cui, con le elezioni tedesche alle porte, non si avverte, tra le cancellerie, alcun bisogno di creare nuove occasioni di controversia nella UE o di alimentare ulteriori focolai di tensione in quella che resta la sempre più delicata “rotta balcanica” delle migrazioni e dei rientri dalla Siria e dall'Iraq.
 
Qui, in ogni caso, la geo-politica resta sullo sfondo. Il memorandum riguarda i diritti delle minoranze e il pluralismo culturale, la possibilità, cioè, con la tutela dei diritti universali, di preservare la diversità e il pluralismo delle culture. E consente di salutare il nuovo anno con una rinnovata speranza “interculturale”. 

giovedì 3 novembre 2016

Una "Capitale Europea della Cultura"

Acka27 (Opera Propria) [Public Domain], attraverso Wikimedia Commons

La capitale europea della cultura torna nei Balcani, nel territorio, in particolare, della ex Jugoslavia e, per la prima volta, si apre la strada verso un Paese non membro dell'Unione Europea: il 13 ottobre scorso, infatti, la Commissione Europea ha annunciato che il titolo di “Capitale Europea della Cultura”, per il 2021, è stato assegnato alla città di Novi Sad, una delle più importanti città della regione, storica città d'arte e di cultura, ieri della Jugoslavia, oggi della Serbia, capoluogo della regione autonoma della Vojvodina. Sebbene la notizia sia passata in sordina presso la nostra stampa, nondimeno si tratta di una notizia importante, non solo per gli appassionati di arte e di cultura, ma soprattutto per quanti ritengono la cultura e l'arte occasioni di conoscenza e di reciprocità, opportunità da cogliere non solo in senso economico, ma prevalentemente in direzione di una più solida conoscenza, una più autentica amicizia tra i popoli e una più piena convergenza tra le culture.

Novi Sad può ben rappresentare questi ideali. È città bella ed elegante, da sempre crocevia di popoli e di culture, dove il corso delle vicende storiche e le ripetute conquiste che si sono avvicendate nella città, che conta oggi quasi 400.000 abitanti, le hanno conferito un fascino multi-etnico e multi-religioso, pluralistico e cosmopolita. È l'antica “Cusum”, fondata dai Romani nel I secolo a. C.; la “Petrikon” dei Bizantini che vi sconfissero gli Unni, che l'avevano conquistata nel V secolo; la “Petrovaradin” ungherese, del Regno di Ungheria, a cavallo tra X e XII sec., sebbene anche Ostrogoti, Avari e Bulgari la avessero, precedentemente, conquistata; dal 1526 divenne parte dell'Impero Ottomano ed assunse una nuova vocazione di “limes” europeo, crocevia tra l'Europa cristiana e l'Oriente islamico; dal 1687 fu parte dell'Impero Asburgico, e, tra il Settecento e l'Ottocento assunse una tale importanza per i serbi da acquisire il titolo di “Atene Serba”.

Oggi, Novi Sad è un autentico crogiolo di popoli: Serbi (76%), Ungheresi (5%), Slovacchi (2%) e poi ancora Montenegrini e Croati, Bosniacchi e Rom… Non è solo la città dalle mille lingue (tanto è vero che è conosciuta con il suo nome originario, Novi Sad, che vuol dire “Nuovo Campo” o “Nuova Colonia”, tradotto nelle diverse lingue, dall'ungherese al tedesco, dallo slovacco al romeno) ma anche la città delle mille religioni, almeno da quando fu designata, sotto l'imperatrice Maria Teresa d'Austria, “città libera” nel 1748. Oggi a Novi Sad convivono cristiani ortodossi (soprattutto, in ampia maggioranza, di rito serbo ma anche di rito greco) e cattolici, nonché luterani, islamici ed ebrei che, un tempo, costituivano una comunità fiorente (come testimonia la presenza in città di una splendida Sinagoga), al punto da contare una presenza tra le mille e le duemila unità nel corso del Settecento, ma che, dopo gli stermini nazisti nel corso della seconda guerra mondiale, è stata radicalmente decimata. Dopo l'aggressione nazista alla Jugoslavia, inaugurata il 6 aprile 1941, infatti, la città fu annessa all'Ungheria fascista, e liberata dai partigiani il 23 ottobre 1944, quando, con il territorio della Vojvodina, entrò, come regione della Serbia, nella Jugoslavia Socialista.

Vera capitale della cultura e della memoria, Novi Sad sembra rispecchiare in pieno uno dei criteri cruciali della Commissione Europea per poter fregiarsi del titolo di “Capitale della Cultura”: non solo «per ciò che è e per ciò che ha fatto», ma anche, e in particolare, «per ciò che si propone di organizzare» e di fare. Nel quadrilatero, stretto sul Danubio, tra Boulevard Zar Lazar, Boulevard Oslobodjenja e Boulevard Venizelos, è racchiusa una quantità impressionante di testimonianze culturali, tra le quali la Matica Serba, poco distante la Chiesa di S. Nicola, del 1730, la più antica chiesa ortodossa della città (la cupola è interamente rivestita in oro), ancora oltre la Chiesa della Assunzione, del 1736 e, giunti nel cuore della città vecchia, in Piazza della Libertà (“Trg Slobode”), il Municipio, il Palazzo della Banca della Vojvodina, il Teatro Nazionale, la Cattedrale, in stile neo-gotico, e la statua di Svetozar Miletić (1826-1901), anche detta “Uomo di Ferro”, politico, scrittore, rivoluzionario, già sindaco della città e leader dei Serbi della Vojvodina nell'Ottocento.

Se, come indicano le linee guida della Commissione Europea, «la città è invitata a sfruttare le sue particolarità e a dare dimostrazione di grande creatività» e «la manifestazione è l'occasione per migliorare la cooperazione nel settore culturale e per promuovere il dialogo culturale a livello europeo», non si può che essere ottimisti nei confronti di questa scelta, che sembra dare forza all'intendimento originario della manifestazione, quando, nell'ormai lontano 1985, su iniziativa di Melina Merkouri, artista ed antifascista, all'epoca ministro della cultura in Grecia, «il titolo di «Capitale Europea della Cultura» è stato ideato per contribuire al ravvicinamento dei popoli europei» e concorrere ai suoi obiettivi prioritari, quali promuovere e valorizzare il patrimonio e il dialogo culturale, «valorizzare la ricchezza, la diversità delle culture europee ed i loro tratti comuni, migliorare la conoscenza che i cittadini europei hanno gli uni degli altri, favorire la presa di coscienza dell'appartenenza ad una medesima comunità «europea». Sullo sfondo di una stagione che torna ad essere difficile, irta di conflitti per i Balcani e l'Europa tutta, l'individuazione di Novi Sad quale Capitale Europea della Cultura del 2021 è anche un messaggio di speranza e di futuro, da raccogliere e da concretizzare. 

domenica 1 maggio 2016

Design per un Mondo Nuovo


Resterà aperta e visitabile per l'intero mese di maggio a Belgrado una mostra molto particolare, utile per indagare, da una prospettiva insolita, il percorso di costruzione della Jugoslavia e le modalità di comunicazione dei suoi valori fondativi, dei suoi paradigmi ideologici e dei suoi conseguimenti sociali. Si tratta della mostra “Design per un Mondo Nuovo” (in inglese «Design for a New World», dall'originale serbo «Dizajn za Novi Svet»), inaugurata presso il MIJ (Museo di Storia della Jugoslavia), lo scorso mese di Dicembre e la cui programmazione proseguirà sino al prossimo 29 Maggio.

È una mostra interessante perché, sebbene estremamente compatta per la scelta dei curatori di aggregare gli espositori per macro-aree tematiche e per abbinare, in ciascuna sezione, una parte espositiva (con l'insieme dei materiali nitidamente esposti “a vista”) e una parte antologica (con l'insieme dei restanti materiali raccolti in cartelle sfogliabili), porta alla luce una quantità notevole di materiali di archivio e si presta ad una gamma quanto mai estesa e variegata di possibili chiavi di lettura.

Prima di tutto: a quale “design” fa riferimento “il nuovo mondo” di cui si parla nel titolo? Essenzialmente, il design realizzato nel corso della storia della Jugoslavia Socialista, dai suoi artisti, grafici e designer, che di volta in volta, in un arco di tempo che va dal 1945-1946 al 1990-1991, tale quindi da coprire l'intera stagione di vita della “Seconda Jugoslavia”, si sono cimentati con le diverse funzionalità che lo strumento del design, quindi la grafica visuale adattata alle esigenze della comunicazione, poteva e può servire: dall'iconografia ufficiale alla propaganda politica, dalle campagne di massa alla pubblicità, dalla promozione di concetti, valori e figure fino all'arte “di stato” e i congressi di partito.

  
I curatori, Ivan Manojlović, attivo presso il MIJ stesso, e Koraljka Vlajo, “senior curator” presso il Museo delle Arti e dell'Artigianato a Zagabria, hanno risposto a questa sfida con una costellazione di espositori in una delle due sale espositive principali del museo, organizzando i materiali in otto sezioni: Simbologia di Stato, Culto di Tito, Rivoluzione e Lotta di Liberazione Nazionale, Culto dei Lavoratori, Servire il Popolo, Industrializzazione, Modernizzazione e Prosperità. Non una scelta particolarmente originale, forse, dettata da quelli che erano e sono sempre rimasti i temi dell'iconografia socialista nella Jugoslavia dell'Autogestione, ma indubbiamente efficace, sebbene non immune dal rischio dell'arbitrarietà: i pannelli, ad esempio, dedicati all'autogestione socialista (la forma specificamente jugoslava del controllo operaio della produzione o, in termini più essenziali, il ruolo non subalterno dei lavoratori all'interno della produzione jugoslava), alludono al “Culto dei Lavoratori” o fanno riferimento al “Servire il Popolo”? Sono un aspetto dell'Industrializzazione o non piuttosto una vera e propria Simbologia di Stato?

In un contesto sociale e politico, come quello della Jugoslavia Socialista, in cui il lavoro produttivo di valore è, al tempo stesso, soggetto e oggetto, protagonista e destinatario, dello sforzo della modernizzazione in senso socialista dello stato e della società ed in cui l'autogestione stessa ne è la forma specifica ed originale, ma anche un aspetto dello “stato del benessere” in veste jugoslava, c'è da aspettarsi che questi interrogativi rimangano insoluti e tali contraddizioni siano destinate a generare aporie, incertezze, inquietudini. Eppure, sta proprio in questo il fascino ed il rilievo di questa mostra. Pur non avendo davvero alcuna finalità apologetica, essa finisce per l'essere una vera e propria narrazione visuale - attraverso l'arte visuale - dell'evoluzione del motto costitutivo della “Fratellanza ed Unità” (che non a caso ritorna negli slogan che a volte accompagnano i manifesti in esposizione) e riesce in maniera efficace ad illustrare la novità e la originalità dell'esperienza sociale e politica jugoslava.
 

Vi riesce anche esaltando, soprattutto nelle sezioni dedicate alla Modernizzazione e alla Prosperità, la complessità delle relazioni della Jugoslavia con il resto del mondo: una apertura al mondo a 360°, in questa forma assolutamente unica tra tutte le esperienze di socialismo storico del XX secolo, e che si esprime tanto nell'influenza del design industriale occidentale sulla grafica visuale jugoslava (sia quando si tratta di promuovere i “brand” nazionali, sia quando si tratta di promuovere l'immagine turistica della Jugoslavia attraverso le sue molteplici bellezze), quanto su alcune soluzioni tecniche o stilistiche (l'uso della fotografia, il cromatismo, la stilizzazione) che rimandano ad un dialogo costantemente in corso, almeno a partire dagli anni Sessanta, con la “visual art” e il design occidentale.

Si può forse banalizzare la mostra nel senso di rappresentarla come “una galleria di poster”; in realtà, mai come in questa circostanza, la forma serve unicamente a veicolare la sostanza e i poster servono solo a materializzare i concetti grafici che vi sono impressi. Un'occasione importante, pensando all'importanza della comunicazione e della “interazione attraverso le idee” che questa mostra intende rappresentare, anche sullo sfondo dell'attuale panorama sociale e politico post-jugoslavo, anche in relazione allo svolgimento degli sforzi, degli attori della "pace con giustizia", per riconnettere tessuti di memoria e di relazione e per rigenerare ponti di dialogo e di cooperazione, oltre i muri e tutte le barriere. 

Primo Maggio a Belgrado

Primo Maggio a Belgrado: Terazije

Il primo maggio di Belgrado è stato, quest'anno, molto particolare e potenzialmente rivelatore. Vi si sovrapponevano, per uno scherzo del calendario, due tra le festività più importanti dell'anno: la storica Festa dei Lavoratori, la Giornata Internazionale dedicata ai Diritti e alle Lotte dei Lavoratori e delle Lavoratrici di tutto il mondo, tradizionalmente associata al 1° Maggio, e la Pasqua Ortodossa, la festa più importante e, senza dubbio, una delle più sentite nel calendario liturgico serbo, che, quest'anno, è venuta a cadere proprio il 1° Maggio, in occasione dell' “International Labour Day”.

Le origini del Labour Day sono remote nel tempo ed anche per questo, come spesso accade per le feste “ritualizzate”, finiscono per perdersi nella memoria collettiva. Non sarà forse del tutto inutile ricordare che la data è associata alle lotte e ai diritti dei lavoratori e delle lavoratrici perché legata alla rivendicazione universale della riduzione dell'orario di lavoro alle “otto ore”. Il 1° maggio del 1886, a Chicago, furono organizzati uno sciopero e una manifestazione per rivendicare le otto ore, una manifestazione repressa nel sangue, dalla polizia, dopo giorni di mobilitazione, e per la quale, l'anno successivo, furono condannati a morte quattro operai, quattro sindacalisti e quattro anarchici.

Quest'anno, a Belgrado come in tutta la Serbia, il 1° maggio è stato però il giorno della Pasqua Ortodossa, che, come sempre per la Pasqua Cristiana, non ha una data fissa, ma variabile di anno in anno: la Pasqua viene infatti celebrata la prima domenica dopo il primo plenilunio di primavera,  calcolato, secondo la tradizione ortodossa, in base al calendario giuliano, a differenza delle chiese cattoliche e riformate che, com'è noto, fanno riferimento al calendario gregoriano. La differenza fa sì che, mentre la pasqua cattolica viene normalmente celebrata tra fine marzo e fine aprile, la pasqua ortodossa può essere celebrata tra i primi di aprile e la prima settimana di maggio: quest'anno proprio il 1° maggio. Inutile, in questa sede, tornare sul significato della Pasqua per i cristiani.

Meno inutile, e degno di qualche considerazione, registrare la circostanza della doppia ricorrenza nella capitale della Serbia, Paese dalla forte e profonda tradizione cristiano-ortodossa, Belgrado. Dove, per effetto della singolare coincidenza e degli effetti della lunga transizione post-jugoslava (le due circostanze hanno più di una superficie di contiguità), il risultato è che della Festa dei Lavoratori praticamente non ci si è neanche accorti, tale è stato il “peso” della ricorrenza pasquale e tale è ormai diventato lo svuotamento del significato del lavoro, con decine di esercizi commerciali, soprattutto bar, ristoranti, chioschi turistici, aperti, talvolta l'intera giornata, praticamente come se nulla fosse. 

L'effetto specifico della Pasqua è stato che, se usualmente la sinistra e il sindacato organizzano in occasione del 1° Maggio una manifestazione e un corteo per le zone del centro della capitale, essenzialmente Terazije e, ovviamente, Piazza della Repubblica, luogo dei raduni politici per eccellenza, quest'anno non se n'è vista neanche l'ombra, se non fosse stato per un corteo auto-gestito da organizzazioni militanti di base, radicale o antagonista, con un centinaio di persone. Non si è vista né una autentica organizzazione né una efficace mobilitazione popolare, pochissimi cittadini hanno mostrato interesse alla "parada", solo i turisti si fermavano a fare riprese e scattare fotografie.

La Pasqua ha finito per sussumere, in qualche modo, l'intera gamma dei significati della festa: la celebrazione, la ricorrenza, la pausa dal lavoro, per chi se la è potuta consentire, magari l'uscita fuori porta e la passeggiata per parchi e musei; tutti i significati della festa, tranne uno: quello di ricordare e fare avanzare i diritti e le conquiste di tutti i lavoratori e di tutte le lavoratrici e farlo, magari, in coerenza con i presupposti della celebrazione stessa, vale a dire quella di unire tutti i lavoratori e le lavoratrici del mondo (si perdoni la semplicità, è proprio così) in una battaglia comune per una serie di diritti universali, tra i quali, appunto, quello della riduzione dell'orario di lavoro e di condizioni di lavoro più sicure, giuste e dignitose. In questo 1° Maggio a Belgrado, insomma, si è visto tutto, tranne che la politica, in una delle feste che eravamo abituati a considerare tra le più cariche di politica dell'intero calendario e tra le più attese e meglio organizzate dalle forze progressiste.

Cosa c'entra tutto questo con la lunga transizione post-jugoslava? A questo punto non dovrebbe essere difficile dire: la fine del socialismo, della autogestione e della “fratellanza ed unità” ha comportato anche la fine dei miti fondativi e l'emersione di nuove narrazioni sostitutive. Tra queste, in particolare in Serbia, il sostrato profondo della lunga durata nazionale e religiosa, emerge ancora e profondamente, caratterizzando questa lunga transizione e facendo sorgere nuovi interrogativi. Per quanti di noi si impegnano per la trasformazione costruttiva dei conflitti e per il progresso delle ragioni della pace e della giustizia (meglio: della pace con giustizia, della "pace positiva"), come negli auspici del progetto PRO.ME.T.E.O., una nuova, esigente, occasione di impegno, sul terreno dei tessuti sociali e della costruzione di condivisione, delle memorie sociali e collettive per l'avvenire. 

mercoledì 29 luglio 2015

Ulpiana: monumental site and world heritage


Based on the Reportage by Zef Ndrecaj
Ulpiana in the hand of those who destroyed it
(the hand of  Turkish archaeologists)
http://www.revistadrini.com/?p=25013

Ulpiana is a city founded in the early II century by the Emperor Trajan. Ulpiana was a very famous Illyrian city, before the arrival of the Romans and the reconstruction after the invasion was only a continuation of the re-novation and the re-construction of Ulpiana as a city and an Illyrian settlement. The city is near the city of Pristina in today Kosovo.

Ulpiana10 di Atdheu - Opera Propria - Licenza CC BY-SA 3.0 - WIKI Commons


During the Roman occupation in the I century AD, Ulpiana was an extremely strong protective fortress from the Illyrian epoch and the Illyrian - Roman war caused a great damage of the city of Ulpiana. Roman rule brought a number of changes in cultural life and social life in Dardania. They arose towns, castles, villages, villas rustica, cult objects, as well as the ancient road network on the road routes of the previous Dardanian reign.

Even after the Roman conquest, among the most important cities, became Ulpiana again, now built on the devastating ruins that the invasion brought on it. That Ulpiana was an Illyrian settlement before the Romans as also testified by the recent discoveries in palafit residence, cemetery with Dardanian first phase ceramics and iron ornaments from IV century BC. These show that Ulpiana was filed on prehistoric layers Dardanian residence.

Goths invasions in Illyria, during the V century, would have included Ulpiana which again faced the experience of the greatest devastation by the earthquake that struck Dardania in 518 and caused great havoc and huge damage to the city. After the destruction, Emperor Justinian rebuilt the ruined walls and the destructed objects, while in tribute, the city was baptized with the name of new Ulpiana and “Secunda Justiniana” (Justiniana Secunda).

Walled city up to 3 mt. wide and with two semicircular towers of 27.5 mt. has irregular rectangle shape. It occupies the area of 35, 5 ha. About 50 mt. East of Ulpiana on VI century was raised a fortified settlement, which has identified with the city Justinopol. 

Ulpiana11.1 di Atdheu - Opera Propria - Licenza CC BY-SA 3.0 - WIKI Commons

 
In 1406, Prince Paul Dukagjini (1384-1446), referred to as "the wisdom", put on the top of the Principality of Dukagjini Ulpiana metropolis (new city founded again by him), which reigns on along with his brother Nikole Dukagjini, noted for his "bravery". Later on, in 1410 the heir Prince of Paul Dukagjini was born in Ulpiana, Leke Dukagjini, whose cultural background is supposed to be done in the most advanced developing centers of the time, such as Shkodra, Ragusa, Venice.

Dukagjini fought under the command of Skanderbeg against the Ottomans during the last two years of the legendary war of Skanderbeg. During times of peace they also fought against each another, as Albanian loyalties came and went during that period of their history. Dukagjini continued to fight with limited success against the Ottoman Empire, carrying on as the leader of the Albanian resistance after the death of Skanderbeg, until 1479, and becoming, with him, the most famous and welcomed Albanian Hero for Albanian People.

Overshadowed by the legend of Skanderbeg, Dukagjini is most well known for the set of laws ruling the highlands of Northern Albania, known as the "Kanuni i Lekë Dukagjinit". Although researchers of history and customs of Albania usually refer to Gjeçovi's text of the Kanuni as the only existing version which is uncontested, written by Lekë Dukagjini, it was actually incorrect. 

The text of the Kanuni, often contested and with many different interpretations which significantly evolved since 15th century, was only named after Dukagjini, not in the sense he effectively compiled the book but since his was the first attempt to collect and systematize customary norms of Albanian People. Whilst identifying Skanderbeg as the "dragon prince" who dared to fight against any foe, chronicles portray Dukagjini as the "angel prince" who, with dignity and wisdom, ensured the continuity of the Albanian identity.

It was estimated that in 1450 the capital of the Principality fell and the fighting that took place there completely destroyed Ulpiana. Evidence of the destruction and looting of everything from Ulpiana are the base in the Basilica in line with one more paleochristian basilica in Gracanica, close to Ulpiana buildings, whose foundations are made of reused stones, showing as well fragments of the “Stela Dardanian” inscriptions.  

Ulpiana16 di Atdheu - Opera Propria - Licenza CC BY-SA 3.0 - WIKI Commons

 
So the looting of the stones that Ulpiana basilica lasted in the centuries, helped raising the XIV century Gracanica monastery. Even this was a bargain between the Serbs and the Turks who had to do with the looting of everything from Ulpiana with the sole purpose to make radically disappear any autochthony Illyrian presence in that city. In 1458 Prizren, center of commerce and culture developments in the Principality of Dukagjini, fell, and, in 1458-1481, Leke Dukagjin built some strength in depth of his principality territories.

After the Turkish invasion on the big Illyrian centres, everything went to change for the structure of these cities. Construction of the Mosque of Sultan Murad, Sultan Pajaziti, Baths, etc. in the vicinity of Ulpiana - in today Prishtina - are recorded but also in other centers elsewhere Peja and Prizren.

Today we are not able, nor can restore a castle or a princely palace of Leke Dukagjin, while, much less, we could appreciate and admire what does not exist any more with superlatives: “the best in the world, in the Mediterranean, in the region”, because at that time “the castles in prosperous cities (Albanian) ... the mansions of monuments ... vanished from the earth ... remained as the beauty and the splendor of the old” (Fan Noli: 591-592).

As - again - this writing of Fan Noli, we not only care about the renovation but also allow the archaeological discoveries emanating from those who destroyed them, just those who looted, ransacked, and destroyed all that was Dardanian - Illyrian - Albanian.
 
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«Archaeological excavations conducted in 1953 allowed to bring to light the remains of the thistle, a temple, fortifications, some buildings and a basilica to one navata. It was detected a necropolis, in the north of the settlement, which returned epigraphs and several sarcophagi, which are still in situ, one of which in marble.

Shortage of funds, lack of specialized staff and location extremely uncomfortable have not allowed scientists to create a comprehensive study and a definitive one on this site, still used for cultivation by local farmers who, working fields, extract archaeological assets of every kind and involuntarily cause destruction of fragile or reversal stratigrafy. 

To these problems is added the presence of illegal immigrants who benefited from the total absence of police and the responsible for the area, stealing any finding to sell almost exclusively to foreigners.

During surveys to Ulpiana it has been possible to observe the deep state of degradation prevailing in the area of necropolis and the northern sector. In particular, some sarcophagi appear deliberately damaged for reasons still unknown. The covering slabs are also moved».

Ulpiana22 di Atdheu - Opera Propria - Licenza CC BY-SA 3.0 - WIKI Commons


So the research that will make the invaders showed we lose not only Ulpiana, but slowly we will lose history which makes us proud as being Illyrian, being Albanian. Today personally consider that invaders destroyed and killed us for 500 years. Dear reader once again the only question is ... 

Where are you going, this people, and what will be after a few year, in this nation? People disappeared in war but more in peace.

So, day by day, my people is dying, dying from that to not have history, and people without history is dead!