giovedì 30 giugno 2016

Vidovdan, incidenti in Kosovo

Gazimestan, Campo dei Merli, Kosovo

Ancora una volta, la celebrazione della ricorrenza di S. Vito (Vidovdan), in Kosovo, è stata attraversata da violenze e polemiche, che hanno fatto salire la tensione nei rapporti inter-comunitari e confermato, ove ve ne fosse bisogno, la perdurante attualità delle conseguenze del conflitto etno-politico degli anni Novanta e la drammatica continuità di un dopoguerra infinito.
 
Presso il Gazimestan, la torre-mausoleo commemorativa, che campeggia nel centro della Piana dei Merli, in Kosovo, poco distante da Prishtina, il capoluogo, circa 1000 persone, tutti serbi del Kosovo, si sono radunate martedì scorso, 28 giugno, nella celebrazione della ricorrenza, per commemorare il giorno di S. Vito e, in particolare, il 627° anniversario della battaglia di Campo dei Merli, anche detta “Battaglia del Kosovo”, uno degli scontri salienti dell'Europa del Medioevo.
 
Per i Serbi del Kosovo, sia in relazione alla propria storia e alle tradizioni culturali, sia in relazione alla storia del luogo e al significato che ad essa viene attribuito, si tratta di una celebrazione particolarmente importante, nella quale si commemora l'eroica sconfitta delle armate serbe e slave, guidate del principe serbo Lazar Hrebeljanović, contro le forze soverchianti dell'Impero Ottomano, guidate sul campo di battaglia dal sultano, Murad, scontratesi proprio il 28 Giugno del 1389.
 
Si tratta di un memoriale importante, come si comprende, ma, di più ancora, di un vero e proprio “luogo della memoria” per i Serbi in particolare, sia in relazione al patrimonio di memoria collettiva e di identità di gruppo che si condensa intorno all'evento, sia in relazione al “luogo” specifico in cui tali eventi hanno avuto posto, un luogo che si è venuto, di conseguenza, caricando di un significato sempre più profondo, talvolta utilizzato dalla propaganda sia per alimentare, con i fasti della celebrazione, la retorica nazionalista, sia per costituire una propria base di legittimazione.
 
Nel corso della celebrazione, Milutin Timotijević, il sacerdote serbo-ortodosso, secondo quanto riportato da fonti di stampa locali, si è rivolto alla folla con le parole: «Gloria e lode al Principe Lazar che è diventato il modello della determinazione del nostro popolo, e il cui esempio ci mostra come vivere! Sarebbe necessario fossimo molti di più, qui, perché se abbandoniamo questa terra, se le madri serbe non avranno più figli - non ci potremo presentare alle porte del Paradiso!».
 
È difficile, per la nostra mentalità, capire queste parole, se non le si contestualizza, detto con semplicità, nella storia e nella geografia. In un senso della storia diffusamente percepito presso i Serbi e, con varianti e differenze, estensivamente, nelle tradizioni cristiano-ortodosse, meno come lineare e razionale che come ciclico ed esemplare, basato cioè sull'importanza esemplare ed il rilievo fondativo associato a determinati eventi e talune figure della storia, tra cui, in misura importante, la battaglia del Kosovo, nei suoi sviluppi, nei suoi presupposti e nelle sue conseguenze.
 
Ma anche nella “geografia dei luoghi”, del Kosovo che, proprio in quanto, per diversi aspetti, culla della cultura e della religiosità serba, tra i nuclei fondativi dell'antico stato serbo medioevale e per l'insistenza di un lungo retaggio religioso e culturale, non solo viene rivendicato come terra natale della nazione serba ma è anche associato ad una idea di resistenza, quella storica, delle armate cristiane contro l'avanzata ottomana, e quella attuale, in cui, dopo la guerra del 1999 e la proclamazione dell'indipendenza del 2008, il governo della regione è nelle mani delle forze politiche albanesi kosovare e i serbi del Kosovo sono ridotti a minoranza, peraltro diffusamente “enclavizzata”.
 
Il portato del conflitto etno-politico e il diffuso sentimento nazionalista, in questa fase, soprattutto da parte albanese kosovara, rendono la coesistenza quanto mai problematica e gli episodi di violenza a sfondo culturale sempre in agguato. Proprio il minibus che conduceva i serbi kosovari a casa, di ritorno dalla commemorazione al Gazimestan, è stato fatto oggetto di lanci di sassi e molotov da parte di estremisti albanesi kosovari e due serbi sono rimasti feriti. Analoghi incidenti presso Mitrovica, dove serbi sono stati fatti oggetto di lanci di pietre e bottiglie.
 
Se impressiona la spirale di violenza, non meno sconcerto desta la reazione politica da parte delle leadership locali, improntata a violenza e contrapposizione. Ramush Haradinaj, leader del partito nazionalista albanese kosovaro AAK (Alleanza per il Futuro del Kosovo), ha lanciato una provocazione nel proporre «di costruire un nuovo monumento, presso il Gazimestan, dedicato alle vittime albanesi della Battaglia del Kosovo». Il ministro del lavoro del governo serbo, Aleksandar Vulin, ha replicato sostenendo che «quelli che non hanno storia cercano di rubare la storia degli altri».
 
Contemporaneamente, a Mitrovica, nel settore serbo della città divisa tra serbi e albanesi, è stato inaugurato un monumento al Principe Lazar, in una cerimonia alla quale hanno presenziato il direttore dell'Ufficio per il Kosovo del Governo Serbo, Marko Djurić, il ministro kosovaro Ljubomir Marić e il vicepremier, Branimir Stojanović, un evento, quest'ultimo, subito condannato dalle autorità albanesi kosovare, che lo hanno bollato come una “provocazione politica”.
 
Separazione delle memorie, incomunicabilità delle culture e strumentalizzazioni della “politica” continuano a dominare la scena, in Kosovo. Occasioni d'incontro, di riduzione della tensione e di facilitazione del confronto sono sempre più necessarie, insieme con nuove leadership, non nazionaliste, e nuove occasioni, di sviluppo e di lavoro, per “umanizzare” le parti e superare la retorica della contrapposizione con le conseguenze dolorose di un conflitto ancora troppo presente.

Nel Giorno di S. Vito: 28 Giugno 1991 - 2016

Spectei (p6020562.jpg up by Taavetti) [CC BY-SA 2.0 ] Wikimedia Commons


Il 28 Giugno, il giorno di S. Vito, i giornali italiani riportano le notizie dell'inizio della fine della Jugoslavia Socialista. Il 25 Giugno le prime dichiarazioni indipendentiste. Il 26 e 27 Giugno i primi combattimenti in Slovenia. È l'inizio della guerra delle guerre, la guerra nella (ormai ex) Jugoslavia, l'inizio di quella lunga teoria di guerre e conflitti sanguinosi che avrebbe, per i successivi quattro anni e mezzo, lacerati i Balcani, insanguinata l'Europa, decretata la fine della “Seconda Jugoslavia”. Il giorno di S. Vito è il memoriale del principe Lazar e dei serbi caduti per difendere i territori slavi durante l'epopea della Battaglia del Kosovo contro l'Impero Ottomano. È il giorno della Battaglia di Kosovo Polje (28 Giugno 1389), ma anche la festa di S. Vito, legata, peraltro, ad una incredibile sequela di eventi memoriali nella storia serba. La vittoria ottomana del 1389 aprì la porta alla penetrazione ottomana nell'Europa Continentale e il 28 Giugno, per il suo impatto e per il suo significato, è assurto a “luogo della memoria”, universale, dei caduti di tutte le guerre. Poco più di sei secoli dopo, una nuova battaglia si combatte nei Balcani, con nuovi caduti e nuove memorie.
 
«Su Lubiana, silenziosa ed impaurita, un boato ed un bagliore». Inizia così la cronaca di Guido Rampoldi, su “La Stampa” del 28 Giugno 1991, dell'inizio della “breve guerra”, la guerra in Slovenia o “Guerra dei Dieci Giorni”, che, nel breve volgere di due settimane, avrebbe inaugurata la dolorosa “successione incatenata” delle guerre di dissoluzione della (ormai ex) Jugoslavia. «Tutti gli sloveni che hanno cariche federali le abbandonano e il vice del premier Ante Marković, Pregl, lasciando Belgrado, racconta: l'Armata ha deciso da sola, senza informare il vertice jugoslavo». Una testimonianza, peraltro, contraddetta in sostanza dall'articolo a fianco, dove, un paio di colonne a destra, la cronaca di Ingrid Badurina riferisce che l'Armata «ha ricevuto appoggio incondizionato dalla Presidenza Federale riunitasi ieri a Belgrado. In realtà, quest'organo monco, senza presidente né vicepresidente, non ha più alcuna legittimità per prendere decisioni. Assenti lo sloveno Drnovsek, il croato Mesić, il macedone Tupurkovski», una chiara applicazione del “disimpegno” o “boicottaggio”, da parte delle autorità secessioniste, delle istituzioni federali della Jugoslavia. Dalle quali non erano mancati tentativi, puntualmente respinti, di mediazione e di salvaguardia della “fratellanza e unità”, ormai ridotte a simulacro nel fuoco della crisi, della Jugoslavia: è ancora Badurina a riferire che «il governo propone una moratoria di tre mesi su tutte le decisioni prese dalle repubbliche che riguardano l'indipendenza, la dissociazione dalla Jugoslavia, le autonomie locali, il cambiamento delle frontiere». Il presidente sloveno, Kucan, «ha dichiarato... che la Slovenia interromperà i contatti con Belgrado» (“La Stampa”, Venerdì 28 Giugno 1991, p. 5).
 
Una separazione incostituzionale, a norma di costituzione jugoslava del 1974, cui gli indipendentisti pure si sono, a più riprese, a torto o a ragione, richiamati, la quale, se da un lato all'art. 1 fonda la Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia come stato federale e comunità statale di «popoli volontariamente uniti e delle loro repubbliche socialiste nonché delle loro province socialiste autonome del Kosovo e della Vojvodina», dall'altro all'art. 5 richiama il principio per cui «i confini della Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia non possono essere mutati senza il consenso di tutte le Repubbliche e Provincie Autonome» e «i confini tra le Repubbliche... soltanto in base al loro accordo, e quando si tratta dei confini di una Provincia Autonoma, anche in base alla sua adesione». Nella parte terza dedicata ai rapporti interni alla Federazione, il dettato costituzionale è ancora più chiaro. Secondo l'art. 244, che basa sul principio di “fratellanza e unità” i rapporti repubblicani, «nella Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia, i popoli e i gruppi nazionali, i lavoratori e i cittadini realizzano ed assicurano la sovranità, l'eguaglianza, la libertà nazionale, l'indipendenza, l'integrità territoriale, la sicurezza, l'autodifesa sociale, la difesa del Paese, la posizione internazionale e le relazioni del Paese con gli altri stati e le organizzazioni internazionali, ...i fondamenti delle libertà democratiche e dei diritti dell'uomo e del cittadino... e l'unità del mercato jugoslavo, concordando il comune sviluppo economico e sociale e gli altri loro comuni interessi». Mentre l'art. 251 sancisce «anticostituzionale qualsiasi atto e qualsiasi azione che incrini l'unità del mercato jugoslavo».
 
Lo stesso giorno, 28 Giugno 1991, “l'Unità” titola: «In Jugoslavia è guerra civile», Giuseppe Muslin pone l'accento sul rischio di “effetto domino” che sarebbe passato alla storia, paradigmaticamente, come “balcanizzazione”: «La minoranza dei Serbi nelle due repubbliche [la Crozia e la Bosnia] ha deciso di formare una repubblica autonoma, unendo la (Hrvatska) Krajina alla Bosanska Krajina. Le due regioni contermini adesso rischiano di appiccare il fuoco anche alla Bosnia Erzegovina, oltre che alla Croazia. … Resta il fatto che anche per la Bosnia si apre una fase di destabilizzazione che potrebbe accelerare la disgregazione stessa della Repubblica». Sin dalla copertina del “giornale fondato da Antonio Gramsci”, Renzo Foa tratta «di quei nodi di cui si è parlato molto in questi giorni e che hanno la loro origine, soprattutto, in uno squilibrio di natura economica, che ha avuto la meglio su tutti gli altri fattori politici, nel momento in cui è tramontato il collante dell'ideologia». E sembra quasi parlare della deludente attualità della comunità europea quando ammonisce che «se non siamo capaci, con la forza che ci deriva dalla storia della nostra democrazia, di “intervenire” alle porte di casa nostra per cercare di prevenire l'esplosione di crisi che - in ogni modo - si abbatteranno anche su di noi, credo che sia rimesso in discussione il ruolo internazionale del nostro Paese. Finora l'Italia non è stata capace di fare niente. Né con le sue forze, né trascinando l'Europa, intesa come Comunità, ad una iniziativa in grado di sciogliere i nodi che in tutti questi anni si sono accumulati nella Federazione Jugoslava» (“L'Unità”, Venerdì 28 Giugno 1991, p. 1 e p. 3).
 
Il giorno precedente, sulle prerogative costituzionali e le competenze federali, si era soffermato anche Dušan Pilić, dalle colonne di “Repubblica”, confermando che «I confini - dice Marković - la dogana e tutti quegli elementi economici che le repubbliche avevano approvato e accettato sono e resteranno di competenza della federazione finché essa avrà tali competenze: e cioè finché non si arriverà all'accordo sul futuro della Jugoslavia. Zagabria e Lubiana evidentemente correvano troppo veloci e con la loro separazione potevano provocare, in altre parti del Paese, serie complicazioni. «Il governo temeva che la Bosnia, la Croazia e la Serbia si trasformassero in campi di sanguinose battaglie: ha così scelto la strada dell'intervento... Si attendeva... la reazione serba alla decisione della Croazia di trasformare i confini amministrativi in confini di Stato. I dirigenti serbi, a eccezione di alcuni deputati dell'estrema destra, hanno accolto con tranquillità le decisioni del governo federale: è un affare che riguarda la federazione, ha dichiarato un deputato del partito al potere». Su “Repubblica” è riportata anche l'ambigua posizione delle cancellerie occidentali, in primo luogo degli Stati Uniti, che da un lato intervengono perché non si crei un focolare di instabilità fuori controllo, dall'altro spingono per il riconoscimento dei diritti nazionali di Slovenia e Croazia e premono per un cambiamento radicale nella configurazione e nell'assetto della Jugoslavia Socialista se è vero che «prendendo atto che i croati non considerano la loro proclamazione d'indipendenza una secessione e che gli sloveni sono disposti a negoziare, i portavoce hanno espresso il parere che ci sia spazio per un compromesso. E hanno ribadito che gli aiuti economici occidentali andranno solo alla Jugoslavia unita perché l'unione è il presupposto della democratizzazione del Paese e del suo passaggio al “libero mercato”. […] Stando alle indiscrezioni della Casa Bianca, l'obiettivo americano è una modifica della Federazione Jugoslava che conceda maggiore autonomia alle sei Repubbliche. George Bush chiederebbe alla Germania e all'Italia, i Paesi con le massime leve economiche su Belgrado, di premere subito in questo senso» (“Repubblica”, 27 Giugno 1991).
 
La fine della Jugoslavia era già cominciata e, leggendo con sguardo retrospettivo le cronache dell'epoca, appaiono tra le polveri e le nebbie di eventi fitti e drammatici, i veri motivi della contesa: la precipitazione della crisi economica e della conseguente instabilità politica; l'ascesa al potere di élite nazionaliste pronte a soffiare sulla identificazione etnica per legittimare il proprio potere all'indomani dell'introduzione del multipartitismo; la balcanizzazione e, in particolare, la disgregazione della Jugoslavia come opzione (non esclusiva ma non secondaria) delle cancellerie occidentali, per smantellare il socialismo della fratellanza e dell'unità, per insediare una spina nel fianco del processo costituente europeo, per creare una testa di ponte verso Oriente. Siamo, più che mai, alla vigilia del presente. E oggi, come e diversamente da ieri, siamo chiamati a rispondere: con una nuova solidarietà nella «jugosfera», una rinnovata cooperazione economica e politica, nuove opportunità da offrire alle prospettive della convivenza e alla scelta della “pace con giustizia”. 

venerdì 3 giugno 2016

Luoghi della Memoria per la Pace

www.facebook.com/lapaginaincomune
     Il lavoro collettivo sviluppato dagli studenti del Liceo Classico “Galluppi” di Catanzaro, a monte della conferenza dedicata al volume sui temi della “memoria” e della “pace” dal titolo La Pagina in Comune (Ad Est dell'Equatore, Napoli, 2015), nell'ambito della XIV edizione della Fiera del Libro Gutenberg (quest'anno dedicata a “Demoni e Meraviglie”), è stato un lavoro strutturato e prezioso. Un lavoro così ben sviluppato e riccamente articolato da avere cambiato i connotati della conferenza stessa, che si è sempre più allontanata dal cliché della relazione dell'autore e domande del pubblico, per diventare piuttosto un forum di confronto e co- elaborazione, con gli studenti che hanno illustrato le loro riflessioni e condiviso la loro lettura del testo, e l'autore che ha poi offerto una serie di approfondimenti e di rimandi su alcuni punti specifici dell'opera.
    L'opera in questione è un lavoro abbastanza singolare: La Pagina in Comune, infatti, non è solo un testo, piuttosto sintetico e denso, intorno al nesso “memoria” e “pace” che, a partire da alcuni luoghi della memoria, materiali (come i luoghi monumentali presenti a Prishtina ed a Mitrovica, in Kosovo, o come i luoghi della socialità condivisa come la Kulla e, nelle case tradizionali, la Oda albanese, nella quale si radunano i familiari e gli ospiti e si esibiscono i valori del dialogo, del rispetto e dell'onore, della dignità e dell'ospitalità, che pure continuano a giocare un ruolo importante nella regione) o immateriali (come, tra gli altri, i contenuti di valore racchiusi in alcuni codici tradizionali, come nel caso del Kanun albanese, ed in alcune pratiche rituali, come nella celebrazione serbo-ortodossa della “slava”, il santo della casa), ricostruisce il senso emergente di questi luoghi e il sedimento di “cultura” e di “memoria” in esso racchiuso, che può svolgere un ruolo importante nella ricostruzione dei legami sociali e, in definitiva, della “pace positiva”.
    La Pagina in Comune è anche il documento di una ricerca-azione intorno alla percezione del post-conflitto kosovaro, nella quale non si sono solo indagati i motivi storici e sociali che hanno reso tali giacimenti culturali così interessanti ai fini del lavoro di pace, ma si sono anche effettuate delle indagini su un campione di 120 persone, soprattutto giovani, intorno alla loro percezione del conflitto, alle motivazioni del perdurante post-conflitto, con tutto il suo portato di divisione e separazione, di rottura dei legami sociali e debolezza della garanzia dei diritti, e alle condizioni di una possibile ricomposizione sociale (che gli studenti hanno prontamente individuato, recuperando il contenuto delle risposte dei giovani kosovari, nelle quali si punta l'attenzione sulla fragilità economica, la disoccupazione diffusa e la mancanza di prospettive, sulla carenza di occasioni di incontro, condivisione e reciprocità inter-etnica e multi-culturale, sulla inadeguatezza delle élite locali, spesso, in Kosovo, compromesse con la guerra e il portato di una lunga, dolorosa, stagione di violenza).
    Coordinati dalla dirigente del Liceo, Elena De Filippis, orientati nel loro itinerario di ricerca dalla docente, Claudia Pulice, i giovani interlocutori, protagonisti della rassegna, hanno affrontato, nel loro percorso, tutti i nodi salienti della narrazione da loro affrontata, se di narrazione, in senso generale, si può parlare, non trattandosi di ricostruzione narrativa o di finzione letteraria, bensì di saggistica, di uno studio, cioè, a partire dalla ricerca-azione poc'anzi segnalata, intorno alle possibilità offerte dal lavoro di pace a sfondo culturale in un contesto post-conflitto come l'odierno Kosovo, nel cuore dei Balcani. In prima battuta, l'interesse dei partecipanti si è rivolto ai presupposti della ricerca, incardinata all'interno della progettazione di cooperazione internazionale svolta dagli operatori di pace, che sviluppano un itinerario progettuale nel senso di costruire reciproche competenze, quali operatori professionali impegnati nelle situazioni di conflitto e post-conflitto, con compiti di prevenzione della violenza e di moderazione della escalazione, ma anche di individuazione delle cause della violenza e di potenziamento dei fattori di pace locali. Ovviamente, per progetti che si sviluppano su piccola scala, che non coinvolgono imponenti strutture e non impegnano ingenti finanziamenti, non è possibile stimolare tutti i fattori locali di pace, tra i quali peraltro, senza dubbio, vanno annoverati i potenziali dello sviluppo economico e di un ambiente favorevole ad un lavoro dignitoso per tutti i kosovari.
    È possibile tuttavia, muovendosi sul terreno culturale, interrogare altri fattori, che appunto, sedimentando il terreno complesso della memoria e della cultura, possono segnalare tanto i potenziali di rischio e di minaccia alla condivisione e alla coesistenza, quanto i potenziali della relazione e della reciprocità. Il retaggio della storia di convivenza incorporato nella Jugoslavia Socialista e, per diversi aspetti, l'esperienza di un socialismo con caratteri di apertura e di autogestione, caso singolare nella storia dei paesi di “socialismo realizzato” dell'Europa centro-orientale; la lunga narrazione della “fratellanza ed unità” ed il carattere nonviolento originario dello stesso movimento nazionale dell'auto-determinazione kosovara; le caratteristiche del tessuto locale, insieme con il ruolo sociale dell'accoglienza, dell'ospitalità e del perdono che pure permangono, con tutto il loro portato di ambiguità e di ambivalenza, nelle strutture profonde delle comunità locali, sono alcuni di questi fattori, che provano ad esprimere le condizioni di aderenza dell'iniziativa al contesto (nella sua dimensione storica, sociale, culturale) ed a rappresentare le condizioni di fattibilità per una azione votata al “culture-oriented peace-building”, che interroga i giacimenti culturali per la costruzione della pace positiva.
    Questo percorso, lungo la falsariga della narrazione racchiusa nel volume, si è svolto all'interno di percorsi pubblici di attivazione: dapprima, con il progetto P.U.L.S.A.R. (Project on Understanding and Linkages to Serbs and Albanians Reconcile), con il sostegno della Tavola Valdese, quindi, nella fase attuale, con il progetto PRO.ME.T.E.O. (Productive Memories to Trigger and Enhance Opportunities), con il sostegno del Comune di Napoli, che pure aveva, anni prima, sostenuto, con il progetto dei “Corpi Civili di Pace in Kosovo”, la prima sperimentazione di un ente locale esplicitamente dedicata ai Corpi Civili di Pace in zona di conflitto. Innestare il concetto del “culture-oriented peace-building” all'interno dello spazio di azione proprio dei Corpi Civili di Pace significa, in Kosovo, anzitutto riflettere sulla sua ricchezza sociale, culturale, comunitaria: su un Kosovo, sorprendentemente, molto più come luogo di bellezze o di scoperte, attraversato da un singolare dinamismo giovanile e associativo e ricco di giacimenti memoriali, che come luogo di guerra e di divisione, costantemente schiacciato nel mortificante cliché di un “eterno dopoguerra” o del “buco nero” d'Europa.
    Non a caso, un ulteriore aspetto che, nella loro ricerca, gli studenti hanno sollevato è stato quello dei “luoghi della memoria”, facendo riferimento, come indicato anche nel volume, alla ricerca seminale di Pierre Nora e dei suoi Les Lieux de Mémoire (1984-1992), con cui si è dato impulso ad un filone di ricerca particolarmente vivo e stimolante. Il luogo della memoria resta associato, infatti, alla “memoria collettiva”, secondo due ipotesi di ricerca: da un lato, i luoghi della memoria (che possono essere, peraltro, materiali o immateriali, luoghi fisici o figurati) come “istanze” in cui si condensano stratificazioni di memoria (intesa come memoria collettiva) profonde, dotate cioè di una “eccedenza semantica”, il cui valore trascende il senso in sé del luogo e si arricchisce del valore aggiunto di un patrimonio riconosciuto; luoghi, cioè, che la comunità riconosce come salienti in quanto propri, perché vi si attribuiscono significati profondi o perché vi si sono svolti eventi importanti; dall'altro, la “memoria collettiva” come patrimonio di acquisizioni in cui la comunità si riconosce ed in cui rinviene i giacimenti della propria identità, a sua volta molteplice e cangiante, anche in relazione alle manipolazioni che le élite esercitano sulle trame delle memorie come legittimazione di nuove narrazioni.
    I Balcani e, in particolare, il Kosovo, sono ricchi di “luoghi della memoria” e, al di là di questi, sono luogo in cui il rovesciamento e la manipolazione delle memorie collettive si sono esercitati con particolare intensità, circostanza, quest'ultima, che li accomuna a diversi altri contesti di post-conflitto: qui la memoria dei “vinti” (tra cui le minoranze etniche e gli attivisti nonviolenti) è stata sostituita da una memoria dei “vincitori”, fondata sul mito della guerriglia armata e della violenza separatista, dalle cui file peraltro proviene una parte consistente dell'attuale gruppo dirigente (si vedano, a titolo di esempio, i mausolei della guerriglia). Non che manchi un'altra tradizione, più antica e, quindi, difficile da recuperare, ma non per questo meno vivace ed autentica: la tradizione dell'ospitalità e dell'inclusione che si concretizza in altri luoghi di rilievo, ulteriore aspetto, quest'ultimo, su cui gli studenti hanno focalizzato la propria attenzione, la Oda albanese (la sala delle riunioni e degli incontri degli uomini, al cui centro trovavano posto il braciere, uno o più tappeti, gli oggetti simbolici e gli arredi domestici, spesso anche una “qibla”, ad indicare la direzione della Mecca), piuttosto che la Kulla sud-balcanica (i fortini, le residenze fortificate dotate di cortile, alte e tozze, dai muri spessi e solidamente fortificate, in un singolare sincretismo di edificio residenziale diffuso tra l'Albania, la Serbia meridionale, il Montenegro) o, per i serbi, l'importanza del Monastero, come centro della vita comunitaria.
    In una successiva relazione, gli studenti hanno messo a fuoco un ulteriore tema della ricerca che, peraltro, rimanda all'intervista a Mirjana Menković, direttrice del Museo Etnografico di Belgrado, secondo la quale si avverte molto più l'esigenza, anziché di memoriali o epitomi celebrativi, di istituzioni culturali efficaci e di luoghi educativi adeguati, non solo ai fini della “trasmissione” della memoria presso le giovani generazioni, ma anche nel senso della “rivitalizzazione” delle memorie come base per una narrazione culturale ricca di senso e, almeno relativamente, immune dalle manipolazioni della propaganda. Se, infatti, la memoria collettiva è una base identitaria forte, essa può essere ripercorsa criticamente, come, ad esempio, è possibile fare attraverso il Kanun, il codice consuetudinario albanese, che, pur essendo portato di tradizioni ancestrali e retaggi patriarcali, profondamente regressivi, tuttavia mette in luce ideali e valori dotati di una proiezione fortemente costruttiva, dalla dignità, all'onore, alla promessa (la besa). Questi patrimoni immateriali, messi in luce nella ricerca e ricapitolati dagli studenti, mostrano, sovente, al di là dell'attinenza con le culture tradizionali e la vitalità sociale della regione, sfaccettature culturali particolarmente composite e ricche, come nella tradizione del Djurdjevdan (la festa di S. Giorgio, vera e propria “festa della primavera” trans-culturale)  o nella tradizione della Slava (la celebrazione del santo della casa, una eredità pre-cristiana scaturita dal culto del dio, tra i vari dei, protettore della casa), oggi patrimonio mondiale immateriale UNESCO dell'umanità.
    Anche qui si rinviene un passaggio trans-culturale ed anche questo aspetto è stato sollevato dagli studenti: non mancando di dedicare un accenno all'odierna, drammatica ed epocale, vicenda delle migrazioni e degli esodi lungo la “rotta balcanica”, lungo la quale si intrecciano e si confondono le epopee migratorie della povertà e della guerra, e aprendo un ulteriore, esigente, sguardo in prospettiva sulla regione e l'Europa tutta.