lunedì 20 dicembre 2021

Il diritto alla pace

BanyanTree assumed, no machine-readable source provided, CC BY SA 3.0, commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=218130


Esiste un diritto alla pace? È un’obiezione che spesso viene posta, quando ci si sofferma sulla tragedia della guerra, sullo sconvolgente volume di distruzione e disperazione che determina, su ciò che sarebbe opportuno e necessario fare per impedirla, impedire la guerra e agire efficacemente per la pace. Ma è anche un’obiezione più che mai pertinente e attuale in un tempo, la nostra attualità, nel quale sempre più gravi diventano le minacce alla pace e alla sicurezza internazionale e sempre più a repentaglio appaiono diritti e tutele che pure si sarebbe portati a ritenere assicurati, garantiti. Il tema della pace è, cioè, più urgente e decisivo che mai. Non solo in relazione alla quantità di guerre che ancora si svolgono ai quattro angoli del pianeta, alle conseguenze disastrose dei conflitti armati in termini di diritti, sicurezza umana e sociale, possibilità di una vita sicura e dignitosa per i popoli e le comunità, e al volume degli affari legati al complesso militare-industriale e alla produzione e vendita di armamenti sempre più sofisticati e letali. Ma anche in relazione alla possibilità di traguardare un diverso ordine delle cose, di delineare un itinerario - nella «pace con giustizia» - di inclusione e di prosperità per i popoli, in definitiva, di assicurare le migliori condizioni possibili affinché le opportunità di vita e di benessere possano essere estese al numero più ampio possibile di persone, a tutte le latitudini, e tutti i diritti umani, in tutte le loro generazioni, possano essere garantiti, a tutti e a tutte, in tutto il mondo.

Sono i dati del SIPRI, tra gli altri, a confermare l’emergenza di queste preoccupazioni. Sono almeno 39 gli Stati nei quali sono stati registrati conflitti attivi nel 2020; almeno 120 mila sono le vittime, sempre nel 2020, direttamente ascrivibili ai conflitti armati; sempre più gravi diventano le conseguenze associate alla violenza dei conflitti, in particolare in termini di fuga delle persone dalle proprie case e dai propri beni, insicurezza alimentare, gravi violazioni del diritto umanitario internazionale, vale a dire l’insieme dei diritti e delle norme che, in tempo di conflitto armato, proteggono le persone che non prendono - o non prendono più - parte alle ostilità e pongono limiti all’impiego di mezzi e metodi di guerra. Una dinamica internazionale di conflitto e di violenza armata che, peraltro, al di là di certa retorica intesa a celebrare i «75 anni di pace in Europa», riguarda direttamente anche l’Europa: sia se guardiamo alla storia recente, al passato prossimo, del nostro continente, ad esempio in riferimento ai conflitti nei Balcani Occidentali, sia se guardiamo al nostro presente, con la guerra tra Armenia e Azerbaijan per il controllo del Nagorno-Karabakh e il conflitto armato c.d. “a bassa intensità”, ma non per questo meno significativo, in Ucraina, oltre che ai diversi casi di conflitto congelato o di situazioni irrisolte di conflittualità, dal Kosovo a Cipro. Quanto al volume del business della guerra, sono ancora i recenti dati del SIPRI a fare luce su questa ulteriore emergenza nell’emergenza: «si stima che nel 2020 la spesa militare mondiale abbia raggiunto i 1.981 miliardi di dollari, ... più alta del 2.6% rispetto al 2019 e del 9.3% rispetto al 2011. L’onere militare globale - la spesa militare globale come quota del PIL globale - è cresciuto di 0.2 punti percentuali nel 2020, raggiungendo il 2.4%..., l’aumento più consistente dalla crisi ... del 2009».

Come indicano i dati del MILEX, l’Osservatorio sulle spese militari italiane, l’Italia è un attore di primo piano, sia sul versante della guerra e della militarizzazione, sia sul versante della produzione e del commercio di armamenti; al MILEX si deve, tra l’altro, la «valutazione tendenziale della spesa militare complessiva “diretta” per il 2022 di ca. 25.8 miliardi di euro (che diventano 26.5 miliardi con ulteriori costi indiretti). Ciò significa un aumento di 849 milioni rispetto alle medesime valutazioni effettuate sul 2021 con una crescita del 3.4% rispetto all’anno precedente e addirittura dell’11.7% sul 2020 e del 19.6% sul 2019». Torna allora l’urgenza della domanda iniziale: esiste un diritto alla pace? Proprio il 19 dicembre, esattamente il 19 dicembre 2016, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottava la Risoluzione 71/189 con l’importante «Dichiarazione sul Diritto alla Pace». I presupposti di tale diritto sono evidenziati in risoluzione, dove si legge che «la promozione della pace» è un «requisito vitale per il pieno soddisfacimento di tutti i diritti umani per tutti» e, al tempo stesso, che «il pieno sviluppo di una cultura della pace è integralmente connesso alla realizzazione del diritto di tutti i popoli ... all’autodeterminazione», insieme con la salvaguardia dei principi fondamentali della giustizia internazionale, che pure il testo richiama, la risoluzione pacifica delle controversie, la non ingerenza negli affari interni, il rispetto dell’integrità territoriale e dell’indipendenza politica di ciascuno Stato. 
 
Una risoluzione, sotto il profilo etico e politico, di grande spessore, fatta di appena cinque articoli. In base all’art. 1, «ognuno ha il diritto di godere della pace in modo tale che tutti i diritti umani siano promossi e protetti e lo sviluppo sia pienamente realizzato»; in base all’art. 2, «gli Stati sono tenuti a rispettare, attuare e promuovere uguaglianza e non-discriminazione, giustizia e stato di diritto, e garantire la libertà dalla paura e dal bisogno come mezzo per costruire la pace dentro e tra le società»; e ancora, in base all’art. 4, «vanno promosse istituzioni nazionali e internazionali di educazione alla pace al fine di rafforzare in tutti gli esseri umani lo spirito di tolleranza, dialogo, cooperazione e solidarietà. A tal fine, l’Università per la Pace dovrebbe contribuire al grande compito universale di educare alla pace impegnandosi nell’insegnamento, nella ricerca .. e nella diffusione della conoscenza». 
 

mercoledì 10 novembre 2021

Contro antisemitismo, fascismi vecchi e nuovi, xenofobia

Darwinek, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons


«Quando gli ebrei sono presi di mira a causa delle loro convinzioni o della loro identità, quando Israele viene individuato in ragione dell’odio antiebraico, questo è antisemitismo». La vicepresidente USA, Kamala Harris, ha presieduto la sessione di apertura della conferenza, sul tema «Never Is Now», dell’Anti-Defamation League, lo scorso 7 novembre, esprimendo il proprio sostegno alla lotta contro l’ondata crescente di antisemitismo.

La prima sessione è stata dedicata all’antisemitismo e i crimini d’odio, con l’introduzione della vicepresidente USA, seguita dall’intervento del ministro degli esteri israeliano, Yair Lapid, il dialogo tra le note giornaliste Sheera Frenkel e Kara Swisher sulla diffusione dell’odio e della disinformazione online attraverso i social media, e, infine, un confronto, sugli stessi temi, tra Jonathan Greenblatt, direttore della Anti-Defamation League e già assistente speciale alla Casa Bianca con Barack Obama e direttore dell’Ufficio per l’Innovazione Sociale e la Partecipazione, e Daniel Dae Kim, attore e produttore, recentemente salito alla ribalta delle cronache per il suo impegno contro la discriminazione delle minoranze, in particolare delle comunità asiatiche, negli USA, e contro l’insorgere dei fenomeni di crimini d’odio, razzismo e xenofobia, legati alla diffusione della pandemia.

La seconda sessione ha avuto invece per tema “L’unità di fronte all’antisemitismo”, indicando, a fronte della pluralità e della varietà dell’universo dell’ebraismo in Occidente, pericoli e sfide poste dall’ondata antisemita avvertita nelle diverse comunità ebraiche. Molte sono, com’è noto, le comunità ebraiche statunitensi, dai riformatori ai conservatori, dai ricostruzionisti agli ortodossi, e molti gli statunitensi di origine ebraica legati alla cultura ebraica ma non appartenenti né osservanti. In questo scenario, sostanzialmente pluralistico e secolare, da una parte l’antisemitismo può assumere forme diverse, dall’altra è necessario trovare, tra le diverse esperienze culturali e religiose, terreno comune per favorire il dialogo e contrastare le discriminazioni.

La terza sessione, particolarmente delicata, ha riguardato invece le tematiche dell’attivismo anti-sionista e delle propensioni antisemite che si affacciano anche nel contesto degli spazi e dei movimenti democratici. Il panel, ad esempio, segnala che «spesso attivisti ebrei sono esclusi da alcune comunità che si battono per la giustizia sociale e a volte persino attaccati a causa del loro legame con Israele»; e indica l’esigenza di avanzare «approfondimenti su come distinguere tra espressioni e azioni critiche nei confronti di Israele ed espressioni e azioni che creano situazioni in cui l’antisemitismo rischia di essere tollerato e persino incoraggiato».

È ovviamente, per quanti e quante si battono per la pace, il progresso e la giustizia sociale, un tema cruciale: non è mai superfluo ribadire, infatti, la distinzione tra antisemitismo (riprendendo la definizione data in apertura dalla stessa Kamala Harris, «prendere di mira gli ebrei in quanto ebrei» e «contrastare Israele in quanto tale in ragione dell’odio antiebraico») e antisionismo (come critica razionale all’ideologia nazionale del sionismo e alle politiche messe in opera dal governo d’Israele), come peraltro ribadito anche in alcune recenti sentenze della magistratura italiana (ad esempio la sentenza del 24 maggio 2017 del Tribunale di Vercelli).

Nel focus «Game Over? Come l’odio online si sta infiltrando nelle nuove piattaforme», la descrizione del panel riferisce come «l’odio, le offese e le molestie online si sono diffuse al di là dei social media nello spazio virtuale delle nuove piattaforme, come il mondo dei giochi online (gaming), la cui popolarità e la cui diffusione sono letteralmente esplose durante la pandemia. Tante ormai le persone in contatto con il mondo dei giochi online, le cui piattaforme sono ormai “abitate” in modo simile a come sono “abitati” i social media. Come le piattaforme di social media, anche questi spazi interattivi possono ospitare una retorica estremista, antisemita e ostile: l’83% degli adulti e il 60% dei giovani hanno subito odio o molestie attraverso le comunità di gioco online».

Kamala Harris ha usato poi una frase ebraica diffusa negli ambienti dell’ebraismo progressista, e che, nel corso della pandemia, ha finito per essere adottata e menzionata anche in altri contesti, vale a dire «Tiqqun 'olam (תיקון עולם‎)» nel senso di «curare il mondo», non solo in relazione agli sforzi per uscire dalla pandemia verso una maggiore democrazia, inclusione, giustizia sociale, ma anche per ribadire l’impegno contro l’antisemitismo e la xenofobia. L’espressione ebraica, del resto, ha attinenza non solo con il concetto di cura, ma anche con il concetto di bene comune e di giustizia sociale. È stata l’occasione, infine, per ricordare la nomina della storica della Shoah, Deborah Lipstadt, come inviata speciale del Dipartimento di Stato per monitorare l’antisemitismo.

La sua figura, del resto, non è solo quella di una delle più accreditate storiche della Shoah e dei movimenti antisemiti, essendo già stata consulente presso lo United States Holocaust Memorial Museum. Per chi ricorda lo splendido film, La verità negata, in cui la protagonista è interpretata da Rachel Weisz, è alla sua figura che è ispirata la storia del processo che confermò, anche in via giudiziaria, il saggista David Irving come negazionista della Shoah. La sentenza ribadiva, tra l’altro, che David Irving era un «attivo negazionista dell’Olocausto», un antisemita e un razzista, ed era inoltre «associato con estremisti di destra che promuovono il neo-nazismo».

L’antisemitismo come forma specifica di razzismo, xenofobia e discriminazione, e le variegate pulsioni ultra-nazionaliste, neo-fasciste e neo-naziste, vecchi e nuovi fascismi, si accompagnano e si alimentano a vicenda e ciò richiede attenzione, «vigilanza democratica», per preservare gli spazi del conflitto e della mobilitazione, da infiltrazioni e insorgenze regressive. Non a caso, la conferenza si è svolta ad 82 anni dalla Notte dei Cristalli (Kristallnacht), l’ondata di pogrom e devastazione del 9 novembre 1938, quando i nazisti distrussero centinaia di sinagoghe, uffici e negozi ebraici in Germania, Austria e parti della Cecoslovacchia: «l’antisemitismo non è una reliquia del passato». Proprio per questo, va tenuto al riparo dalle strumentalizzazioni e preservato da adozioni controproducenti. Come infatti ha scritto Johan Galtung, «la violenza è radicata nelle relazioni cattive; la pace in relazioni buone, rigettate dagli antisemiti, e gli autoproclamati certificatori di antisemitismo non mi renderanno mai tale. Ma la loro narrativa è basata esclusivamente su vittime innocenti e malvagi perpetratori».

sabato 23 ottobre 2021

Mobilitazioni di pace e giustizia


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Protesters march down Pennsylvania Av. toward the Capitol, CC BY SA 3.0

 
È noto che le “guerre dei Balcani”, il lungo ciclo di conflitti che ha segnato il collasso e lo smembramento della Jugoslavia, a partire dal 1991 e fino ai conflitti in Kosovo tra il 1998 e il 1999, hanno rappresentato una pagina, complessa e dolorosa, della più recente storia d’Europa, e hanno, al tempo stesso, costituito una sorta di paradigma del «conflitto etno-politico» del nostro tempo, nel quale finiscono per confluire tanto la strumentalizzazione a fini di potere della cosiddetta questione nazionale, quanto la manipolazione della dimensione umanitaria come chiave di impropria legittimazione, presso le opinioni pubbliche occidentali, di ingerenze ed interventi armati. Al tempo stesso, lo spaccato balcanico, con tutto il valore simbolico della lacerazione del tessuto di convergenza e di solidarietà tra i popoli che veniva a rappresentare e con tutto il carico emotivo segnalato dal ritorno, pesante e sanguinoso, della guerra nel cuore dell’Europa, è stato, come tante volte è stato messo in evidenza, anche il teatro di una vivace partecipazione democratica e di una intensa mobilitazione solidale tra le più significative e straordinarie dei tempi recenti: una mobilitazione, di carattere internazionale, chiaramente dislocata «contro la guerra e per la pace» e che ha indicato una potente testimonianza di pacifismo concreto, di «concreta utopia», animata da associazioni e comitati, reti civiche e solidali, cittadini e cittadine, attivisti e attiviste, che si sono attivati e mobilitati, appunto, personalmente e concretamente, per cercare di prevenire l’escalazione, fermare la violenza, fornire sostegno e supporto.

Quella testimonianza trova oggi l’occasione preziosa di una rievocazione e di una riflessione grazie alla mostra dal titolo «Wake up, Europe! Support and solidarity mobilizations with Bosnia and Herzegovina and its citizens, 1992-1995» (Svegliati, Europa! Mobilitazioni di sostegno e solidarietà con la Bosnia - Erzegovina e i suoi cittadini, 1992-1995), su iniziativa del Museo di Storia della Bosnia - Erzegovina, in collaborazione con il “Memory Lab” e con il supporto dell’Istituto Francese e del Goethe Institute di Bosnia - Erzegovina. La mostra, inaugurata lo scorso 20 ottobre, presso il Museo di Storia della Bosnia - Erzegovina, a Sarajevo, rappresenta un’occasione preziosa per riflettere su quel periodo storico e sugli eventi che lo hanno attraversato e lacerato, ma anche per interrogarsi sul presente, sulla solidarietà internazionale e sulle concrete utopie del nostro tempo, sull’attivismo e la lotta per la pace e contro la guerra, nel tempo difficile della nostra attualità, a cavallo tra crisi economica e sociale, conseguenze della pandemia e del «governo della pandemia», con il corollario di misure ad essa legate, incessante militarizzazione e vecchi e nuovi nazionalismi. Come infatti segnala la presentazione della mostra, si tratta di «un esempio di solidarietà europea nel recente passato che può essere di grande ispirazione per il presente: durante la guerra in Bosnia - Erzegovina del 1992 - 1995, numerose iniziative sono sorte in Francia, Germania, Spagna, Italia, Svezia, Repubblica Ceca ed altri Paesi; cittadini, ONG, gruppi informali e artisti hanno promosso sostegno e solidarietà alla Bosnia - Erzegovina e ai suoi cittadini in vari modi: aiutando i rifugiati giunti in diversi Paesi europei; raccogliendo e consegnando cibo, medicine, vestiti e altri materiali a Sarajevo e in Bosnia - Erzegovina; organizzando incontri, manifestazioni, campagne ed altre attività, volte a mobilitare i propri concittadini, fare pressione sui propri governi ..., e sostenere i gruppi civici in Bosnia e in altre parti della ex Jugoslavia. Si è trattato di una mobilitazione ampia ed eterogenea, un misto di impegno umanitario e di impegno civile ..., e per molti degli attori coinvolti, la cooperazione e la solidarietà con la Bosnia - Erzegovina sono proseguite anche dopo la guerra».

Tra i tanti Paesi, ricordati anche in questa cornice, non si può dimenticare l’impegno che ha attraversato da un capo all’altro il nostro Paese, impegnato in una mobilitazione solidale, pacifista e antimilitarista, che ha rappresentato, lungo tutti gli anni Novanta e, in alcuni casi, anche oltre, un esempio di attivazione solidale e di impegno politico di grande portata. Se, da un lato, è pressoché impossibile completare un elenco esaustivo e minuzioso delle centinaia di attivazioni, spesso piccolissime, ma non per questo meno significative, che hanno animato e continuano ad animare il panorama della solidarietà internazionale e internazionalista con popoli e comunità dei Balcani e, in particolare, della ex Jugoslavia, dall’altro è possibile ricordare almeno alcune pagine. La «marcia dei Cinquecento» a Sarajevo, ad esempio, lanciata dall’appello di mons. Tonino Bello dell’estate 1992 e concretizzata grazie soprattutto all’impegno dei Beati Costruttori di Pace, che porta, il 6 dicembre 1992, cinquecento pacifisti a partire da Ancona alla volta di Sarajevo. La marcia per la pace e la nonviolenza (una forma di interposizione nonviolenta) «Mir Sada» (Pace Ora), tra il 2 e il 14 agosto 1993. La campagna «Kosovo I Care», organizzata, in particolare, dai Beati Costruttori di Pace, l’Associazione Papa Giovanni XXIII, MIR e Pax Christi, cui prendono parte oltre duecento attivisti, partiti da Bari il 7 dicembre 1998. La «Campagna Kosovo per la nonviolenza e la riconciliazione», promossa dai Beati Costruttori di Pace, Agimi, MIR e Pax Christi, capace di coinvolgere circa venti associazioni e di sviluppare, tra il 1993 e il 2003, quattro delegazioni, tra il 1995 e il 1997, il progetto della Ambasciata di Pace a Prishtina, capoluogo del Kosovo, e tra il 2000 e il 2003, formazione per formatori e formatrici al dialogo inter-etnico. E ancora, in tempi più recenti, il programma dei «Dialoghi di Pace» nei Balcani e in Kosovo, dal 2002 al 2006; il lavoro del Corpo Nonviolento di Pace della Operazione Colomba in Kosovo, dal 1998 al 2010, e dei Corpi Civili di Pace in Kosovo a partire dal 2011. Spesso, come si vede, piccoli progetti, capaci di innescare energie nel lavoro di pace e di solidarietà, tra i tanti esempi di “utopia concreta”, da sviluppare ancora e ancora, nella memoria e nell’impegno. 
 

mercoledì 20 ottobre 2021

Una riflessione sulla “riconciliazione”: il caso di Francia e Algeria


Mehnimalik, French Wikipedia, CC BY-SA 3.0:
Monument aux martyrs de la Guerre d'Algérie

In occasione della cerimonia istituzionale per il sessantesimo anniversario della strage degli algerini, una delle pagine più tragiche del colonialismo francese, avvenuta a Parigi il 17 ottobre 1961, il presidente francese, Emmanuel Macron, ha riconosciuto i contorni e la tragedia della strage come una «verità indiscutibile». Tuttavia, la commemorazione non ha registrato un discorso da parte del presidente francese, come sarebbe stato forse giusto e opportuno aspettarsi, viceversa è stata accompagnata da un comunicato della Presidenza, tracciato nel senso di indicare, al tempo stesso, la gravità della strage e le responsabilità storiche di parte francese. Come ha riportato la stampa, «questa tragedia è stata a lungo taciuta, negata o nascosta», mentre i tragici eventi del 17 ottobre 1961 non possono essere qualificati se non come una «sanguinosa repressione».

Il comunicato prosegue segnalando che «la Francia guarda con lucidità a tutta la sua storia e ne riconosce le responsabilità chiaramente accertate. Lo deve innanzitutto a sé stessa, a tutti coloro che la guerra d’Algeria e il suo susseguirsi di crimini, commessi da tutte le parti, hanno ferito nel corpo e nell’anima. Lo deve in particolare ai suoi giovani, perché non rimangano prigionieri nei “conflitti della memoria” e sappiano costruire, nel rispetto e nel riconoscimento reciproco, il proprio futuro». Se da un lato, viene riconosciuto che «i crimini commessi quella notte sotto l’autorità di Maurice Papon sono imperdonabili per la Repubblica», dall’altro viene indicata l’autorità del prefetto di Parigi, Papon, e non dello Stato francese, quale nucleo della responsabilità della repressione, che si inserisce peraltro nel contesto più ampio del colonialismo francese in terra d’Algeria.

Torna, in queste parole, il tema, delicato e controverso, per altri aspetti discutibile e ambiguo, del “conflitto della memoria”, già al centro di analoghe prese di posizione da parte dell’Eliseo. A Sciences Po a Parigi, è attivo un gruppo di lavoro sul rapporto dello storico Benjamin Stora su “Memoria della colonizzazione e della guerra d’Algeria”. Il rapporto è stato redatto nel gennaio 2021 come base per una commissione di “Memoria e Verità” allo scopo di impostare «iniziative congiunte tra la Francia e l’Algeria sui temi della memoria» con l’obiettivo ultimo della “riconciliazione”. Il rapporto, pubblicato da Le Figaro, propone una ricostruzione in base alla quale immaginare un percorso di “memoria e verità”, e si sofferma, in particolare, su dieci proposte:

1. l’istituzione in Francia di una commissione “Memoria e Verità” incaricata di promuovere iniziative congiunte tra Francia e Algeria sui temi della memoria (le “questioni della memoria”);

2. la commemorazione delle date simboliche del conflitto, tra le quali l’accordo di Evian del 19 marzo 1962, l’omaggio agli harkis, i lealisti algerini sostenitori delle forze francesi tra il 1954 e il 1962, il 25 settembre, e la repressione, appunto, dei manifestanti algerini in Francia il 17 ottobre 1961, nonché la proposta di erigere “luoghi della memoria” in quattro campi di internamento per algerini in Francia;

3. la restituzione all’Algeria della spada dell’emiro Abdelkader, eroe della resistenza nel XIX secolo;

4. il riconoscimento dell’assassinio dell’avvocato e militante Ali Boumendjel (1919 - 1957), figura di primo piano del movimento progressista e del Consiglio Mondiale per la Pace, nella battaglia di Algeri (1957);

5. l’istituzione di una commissione mista di storici francesi e algerini per fare luce sui rapimenti e gli assassinii di cittadini europei ad Orano nel 1962;

6. lo sviluppo dei lavori sui test nucleari francesi nel Sahara e sulle loro conseguenze, nonché quelli riguardanti le mine antipersona durante la guerra;

7. la facilitazione degli spostamenti degli harkis e dei loro discendenti tra la Francia e l’Algeria;

8. la conservazione dei cimiteri europei in Algeria, nonché dei cimiteri ebraici e delle tombe dei soldati algerini morti per la Francia durante la guerra;

9. lo sviluppo della ricerca sugli archivi, con l’obiettivo di trasferire alcuni archivi dalla Francia all’Algeria e consentire ai ricercatori dei due Paesi l’accesso agli archivi francesi ed algerini;

10. infine, la ripresa del progetto (2010) di un “Museo di Storia della Francia e dell’Algeria” a Montpellier.

Tuttavia, lungi dall’imbastire un vero e proprio percorso di costruzione di commissioni per la verità e la riconciliazione, si tratta in sostanza di una iniziativa unilaterale della parte francese, che non ha mancato di suscitare polemiche e scatenare anche, recentemente, un vero e proprio scontro politico-diplomatico con l’Algeria, liberatasi, è bene ricordarlo, al prezzo di una dura guerra di liberazione nazionale dal giogo francese, costata, secondo stime, la vita di almeno trecentomila algerini, non meno di un milione secondo le autorità algerine.

Secondo quanto riferito dai media, non sarebbero mancate addirittura prese di posizione riecheggianti echi neo-coloniali o quanto meno venature provocatorie da parte del presidente francese, che avrebbe evocato una presunta rendita della memoria nel percorso di costruzione dell’Algeria post-indipendenza e che avrebbe parlato delle istituzioni algerine in termini di un sistema politico-militare, portando il governo algerino a denunciare, di conseguenza, i «commenti irresponsabili» e l’«inammissibile ingerenza negli affari interni» dell’Algeria.

Lo scorso 2 ottobre l’Algeria ha quindi deciso di richiamare il proprio ambasciatore a Parigi in segno di protesta di fronte alle dichiarazioni attribuite al presidente francese, e il 3 ottobre è arrivata la comunicazione della chiusura dello spazio aereo (spazio di sorvolo) algerino agli aerei militari francesi, una zona dello spazio aereo normalmente utilizzata dall’aviazione francese per raggiungere o lasciare la regione sahariana e subsahariana.

Se da un lato la Francia ha annunciato, anche con l’iniziativa del rapporto, la propria intenzione di avviare un percorso di “riconciliazione” legato al proprio passato coloniale, mai, tuttavia, fermamente e radicalmente messo in discussione e condannato, dall’altro continua a mantenere una presenza militare imponente nella regione. La Francia è presente in Senegal, Costa d’Avorio, Gabon e Gibuti con contingenti, che, nell’insieme, assommano ad oltre tremila unità; allo stesso tempo, è presente con oltre cinquemila uomini in Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Chad nella missione “Barkhane”; nell’ambito del dispositivo militare europeo è presente nel Mediterraneo e nell’Africa subsahariana e ha una missione marittima nel Golfo di Guinea. Sono oltre trentamila gli effettivi francesi dislocati nelle diverse missioni militari, bilaterali e multinazionali, nel mondo. La presenza militare francese, di carattere imperialistico, nella regione, è dunque più che mai eclatante.

Secondo le dichiarazioni dei veterani della Guerra d’Indipendenza (1954-1962), lo storico francese autore del rapporto, Benjamin Stora, ha celato i crimini coloniali della Francia in Algeria e non ha affrontato, nel rapporto, i numerosi crimini perpetrati dallo Stato francese. La stessa cerimonia del 17 ottobre ha suscitato la prevedibile reazione da parte algerina: il presidente dell’Algeria, Abdelmadjid Tebboune, ha respinto l’approccio, il «pensiero colonialista», in merito alle questioni di natura storica con la Francia e ha ribadito, in un messaggio in occasione dell’anniversario della strage del 17 ottobre 1961, «la preoccupazione di affrontare i temi della storia e della memoria, senza compiacimenti o compromessi, e con vivo senso di responsabilità [...] lontano dall’infatuazione e dal predominio del pensiero colonialista arrogante da parte di gruppi incapaci di liberarsi dal loro estremismo cronico», come si legge in un comunicato pubblicato sul sito internet della presidenza algerina.

Già a suo tempo i veterani avevano indicato che «gli algerini non si aspettano che lo Stato francese fornisca un risarcimento economico per i milioni di vite perse; invitano, piuttosto, lo Stato francese a riconoscere i propri crimini contro l’umanità», e, da più parti, è stato deplorato il fatto che l’Eliseo abbia sinora rifiutato sistematicamente di pronunciare scuse ufficiali e di intraprendere passi effettivi e concreti per impostare, con l’Algeria, un percorso di riconoscimento dei crimini commessi. Se, come è noto, di fronte alle lacerazioni e ai conflitti della storia, non è praticabile alcuna “memoria comune”, così non è realizzabile l’idea “di scrivere una storia comune tra l’Algeria e la Francia”. Dunque, come si diceva sopra, mancano due degli elementi necessari per attivare un vero e proprio percorso di «verità e riconciliazione»: il pieno riconoscimento dei torti e delle ingiustizie, e un approccio condiviso, non unilaterale, animato da sincere intenzioni di comprensione e di convivenza, che sia, al tempo stesso, capace di gettare luce sul passato e aprire le porte a una nuova speranza e a rinnovati rapporti in direzione dell’avvenire, una diversa, cioè, propensione verso il passato e immagine al futuro, che non può prescindere dalla parola, dall’ascolto e dalla partecipazione delle persone, della società.

L’esempio offerto dalla Commissione per la Verità e la Riconciliazione, per il superamento dell’apartheid in Sudafrica, la cessazione della segregazione etnica e la riparazione dei torti conseguenti è un esempio positivo, in un contesto del tutto diverso, di giustizia “riabilitativa” piuttosto che di giustizia “retributiva” in cui il punto non è solo distinguere tra il (chi ha) torto e la (chi ha) ragione, punire il colpevole e risarcire la vittima, sanzionare il reo perché sia ridotta la possibilità della recidiva; il punto è, in particolare, quello di individuare con rigore e nettezza i torti e le responsabilità, espungere dal contesto sociale contenuti e fattori che possano disarticolare il tessuto delle relazioni e la qualità della democrazia, distinguere il colpevole dalla colpa commessa e, per questa via, proteggere l’umanità di tutti e tutte e offrire al colpevole stesso una possibilità, affinché la colpa sia riconosciuta e confinata e, nella misura del giusto e del possibile, il colpevole sia reinserito. Quella rottura esige di salvaguardare l’umanità delle persone e, al tempo stesso, la compiutezza dei rapporti sociali.

Tale modello di giustizia, nel caso sudafricano ed altri casi simili, ha consentito alla popolazione di acquisire consapevolezza condivisa delle ingiustizie patite per evitare che potessero e possano ripetersi ancora in futuro; ha dato una possibilità ai responsabili di acquisire consapevolezza delle colpe commesse, della violenza compiuta e del dolore provocato, chiedendo perdono non solo di fronte alla vittima ma di fronte alla intera comunità; e ha offerto uno spazio e un tempo alle vittime per condividere, a livello pubblico e sociale, il dolore, la violenza, l’ingiustizia subita, facendo del loro il caso esemplare di giustizia da esigere, non solo per sé, ma per tutti e tutte. Non si tratta di “perdonare” e “dimenticare”, ma di trascendere il dolore e il trauma e traguardare una prospettiva di giustizia e di inclusione. Ciò è valso in Sudafrica, e può valere nei casi in cui ciascuna delle parti abita un medesimo spazio pubblico, che risulterebbe del tutto sfigurato senza una tale “compresenza”.

Riconoscere il portato dei movimenti storici di liberazione, all’insegna dell’autodeterminazione, resta centrale, in ogni caso, per contrastare ogni forma di colonialismo e neo-colonialismo e per ribadire la centralità dei diritti e della libertà dei popoli, fondamento dell’amicizia e della solidarietà tra le nazioni. Non è un caso che il 4 luglio 1976 proprio ad Algeri, per iniziativa di Lelio Basso, fosse proclamata la Dichiarazione universale dei diritti dei popoli, vale a dire la Carta di Algeri, proposta di paradigma dei diritti dei popoli e compimento, al tempo stesso, del processo di decolonizzazione inaugurato all’indomani della seconda guerra mondiale. Qui si riconosce, in premessa, che «l’imperialismo, in forza di meccanismi e di interventi perfidi o brutali, con la complicità di governi spesso da esso stesso imposti, continua a dominare una parte del mondo», e si rivendica, all’art. 28, che «ogni popolo i cui diritti fondamentali sono gravemente misconosciuti ha il diritto di farli valere soprattutto attraverso la lotta politica o sindacale e anche, in ultima istanza, attraverso il ricorso alla forza».