sabato 23 ottobre 2021

Mobilitazioni di pace e giustizia


ragesoss,
Protesters march down Pennsylvania Av. toward the Capitol, CC BY SA 3.0

 
È noto che le “guerre dei Balcani”, il lungo ciclo di conflitti che ha segnato il collasso e lo smembramento della Jugoslavia, a partire dal 1991 e fino ai conflitti in Kosovo tra il 1998 e il 1999, hanno rappresentato una pagina, complessa e dolorosa, della più recente storia d’Europa, e hanno, al tempo stesso, costituito una sorta di paradigma del «conflitto etno-politico» del nostro tempo, nel quale finiscono per confluire tanto la strumentalizzazione a fini di potere della cosiddetta questione nazionale, quanto la manipolazione della dimensione umanitaria come chiave di impropria legittimazione, presso le opinioni pubbliche occidentali, di ingerenze ed interventi armati. Al tempo stesso, lo spaccato balcanico, con tutto il valore simbolico della lacerazione del tessuto di convergenza e di solidarietà tra i popoli che veniva a rappresentare e con tutto il carico emotivo segnalato dal ritorno, pesante e sanguinoso, della guerra nel cuore dell’Europa, è stato, come tante volte è stato messo in evidenza, anche il teatro di una vivace partecipazione democratica e di una intensa mobilitazione solidale tra le più significative e straordinarie dei tempi recenti: una mobilitazione, di carattere internazionale, chiaramente dislocata «contro la guerra e per la pace» e che ha indicato una potente testimonianza di pacifismo concreto, di «concreta utopia», animata da associazioni e comitati, reti civiche e solidali, cittadini e cittadine, attivisti e attiviste, che si sono attivati e mobilitati, appunto, personalmente e concretamente, per cercare di prevenire l’escalazione, fermare la violenza, fornire sostegno e supporto.

Quella testimonianza trova oggi l’occasione preziosa di una rievocazione e di una riflessione grazie alla mostra dal titolo «Wake up, Europe! Support and solidarity mobilizations with Bosnia and Herzegovina and its citizens, 1992-1995» (Svegliati, Europa! Mobilitazioni di sostegno e solidarietà con la Bosnia - Erzegovina e i suoi cittadini, 1992-1995), su iniziativa del Museo di Storia della Bosnia - Erzegovina, in collaborazione con il “Memory Lab” e con il supporto dell’Istituto Francese e del Goethe Institute di Bosnia - Erzegovina. La mostra, inaugurata lo scorso 20 ottobre, presso il Museo di Storia della Bosnia - Erzegovina, a Sarajevo, rappresenta un’occasione preziosa per riflettere su quel periodo storico e sugli eventi che lo hanno attraversato e lacerato, ma anche per interrogarsi sul presente, sulla solidarietà internazionale e sulle concrete utopie del nostro tempo, sull’attivismo e la lotta per la pace e contro la guerra, nel tempo difficile della nostra attualità, a cavallo tra crisi economica e sociale, conseguenze della pandemia e del «governo della pandemia», con il corollario di misure ad essa legate, incessante militarizzazione e vecchi e nuovi nazionalismi. Come infatti segnala la presentazione della mostra, si tratta di «un esempio di solidarietà europea nel recente passato che può essere di grande ispirazione per il presente: durante la guerra in Bosnia - Erzegovina del 1992 - 1995, numerose iniziative sono sorte in Francia, Germania, Spagna, Italia, Svezia, Repubblica Ceca ed altri Paesi; cittadini, ONG, gruppi informali e artisti hanno promosso sostegno e solidarietà alla Bosnia - Erzegovina e ai suoi cittadini in vari modi: aiutando i rifugiati giunti in diversi Paesi europei; raccogliendo e consegnando cibo, medicine, vestiti e altri materiali a Sarajevo e in Bosnia - Erzegovina; organizzando incontri, manifestazioni, campagne ed altre attività, volte a mobilitare i propri concittadini, fare pressione sui propri governi ..., e sostenere i gruppi civici in Bosnia e in altre parti della ex Jugoslavia. Si è trattato di una mobilitazione ampia ed eterogenea, un misto di impegno umanitario e di impegno civile ..., e per molti degli attori coinvolti, la cooperazione e la solidarietà con la Bosnia - Erzegovina sono proseguite anche dopo la guerra».

Tra i tanti Paesi, ricordati anche in questa cornice, non si può dimenticare l’impegno che ha attraversato da un capo all’altro il nostro Paese, impegnato in una mobilitazione solidale, pacifista e antimilitarista, che ha rappresentato, lungo tutti gli anni Novanta e, in alcuni casi, anche oltre, un esempio di attivazione solidale e di impegno politico di grande portata. Se, da un lato, è pressoché impossibile completare un elenco esaustivo e minuzioso delle centinaia di attivazioni, spesso piccolissime, ma non per questo meno significative, che hanno animato e continuano ad animare il panorama della solidarietà internazionale e internazionalista con popoli e comunità dei Balcani e, in particolare, della ex Jugoslavia, dall’altro è possibile ricordare almeno alcune pagine. La «marcia dei Cinquecento» a Sarajevo, ad esempio, lanciata dall’appello di mons. Tonino Bello dell’estate 1992 e concretizzata grazie soprattutto all’impegno dei Beati Costruttori di Pace, che porta, il 6 dicembre 1992, cinquecento pacifisti a partire da Ancona alla volta di Sarajevo. La marcia per la pace e la nonviolenza (una forma di interposizione nonviolenta) «Mir Sada» (Pace Ora), tra il 2 e il 14 agosto 1993. La campagna «Kosovo I Care», organizzata, in particolare, dai Beati Costruttori di Pace, l’Associazione Papa Giovanni XXIII, MIR e Pax Christi, cui prendono parte oltre duecento attivisti, partiti da Bari il 7 dicembre 1998. La «Campagna Kosovo per la nonviolenza e la riconciliazione», promossa dai Beati Costruttori di Pace, Agimi, MIR e Pax Christi, capace di coinvolgere circa venti associazioni e di sviluppare, tra il 1993 e il 2003, quattro delegazioni, tra il 1995 e il 1997, il progetto della Ambasciata di Pace a Prishtina, capoluogo del Kosovo, e tra il 2000 e il 2003, formazione per formatori e formatrici al dialogo inter-etnico. E ancora, in tempi più recenti, il programma dei «Dialoghi di Pace» nei Balcani e in Kosovo, dal 2002 al 2006; il lavoro del Corpo Nonviolento di Pace della Operazione Colomba in Kosovo, dal 1998 al 2010, e dei Corpi Civili di Pace in Kosovo a partire dal 2011. Spesso, come si vede, piccoli progetti, capaci di innescare energie nel lavoro di pace e di solidarietà, tra i tanti esempi di “utopia concreta”, da sviluppare ancora e ancora, nella memoria e nell’impegno. 
 

mercoledì 20 ottobre 2021

Una riflessione sulla “riconciliazione”: il caso di Francia e Algeria


Mehnimalik, French Wikipedia, CC BY-SA 3.0:
Monument aux martyrs de la Guerre d'Algérie

In occasione della cerimonia istituzionale per il sessantesimo anniversario della strage degli algerini, una delle pagine più tragiche del colonialismo francese, avvenuta a Parigi il 17 ottobre 1961, il presidente francese, Emmanuel Macron, ha riconosciuto i contorni e la tragedia della strage come una «verità indiscutibile». Tuttavia, la commemorazione non ha registrato un discorso da parte del presidente francese, come sarebbe stato forse giusto e opportuno aspettarsi, viceversa è stata accompagnata da un comunicato della Presidenza, tracciato nel senso di indicare, al tempo stesso, la gravità della strage e le responsabilità storiche di parte francese. Come ha riportato la stampa, «questa tragedia è stata a lungo taciuta, negata o nascosta», mentre i tragici eventi del 17 ottobre 1961 non possono essere qualificati se non come una «sanguinosa repressione».

Il comunicato prosegue segnalando che «la Francia guarda con lucidità a tutta la sua storia e ne riconosce le responsabilità chiaramente accertate. Lo deve innanzitutto a sé stessa, a tutti coloro che la guerra d’Algeria e il suo susseguirsi di crimini, commessi da tutte le parti, hanno ferito nel corpo e nell’anima. Lo deve in particolare ai suoi giovani, perché non rimangano prigionieri nei “conflitti della memoria” e sappiano costruire, nel rispetto e nel riconoscimento reciproco, il proprio futuro». Se da un lato, viene riconosciuto che «i crimini commessi quella notte sotto l’autorità di Maurice Papon sono imperdonabili per la Repubblica», dall’altro viene indicata l’autorità del prefetto di Parigi, Papon, e non dello Stato francese, quale nucleo della responsabilità della repressione, che si inserisce peraltro nel contesto più ampio del colonialismo francese in terra d’Algeria.

Torna, in queste parole, il tema, delicato e controverso, per altri aspetti discutibile e ambiguo, del “conflitto della memoria”, già al centro di analoghe prese di posizione da parte dell’Eliseo. A Sciences Po a Parigi, è attivo un gruppo di lavoro sul rapporto dello storico Benjamin Stora su “Memoria della colonizzazione e della guerra d’Algeria”. Il rapporto è stato redatto nel gennaio 2021 come base per una commissione di “Memoria e Verità” allo scopo di impostare «iniziative congiunte tra la Francia e l’Algeria sui temi della memoria» con l’obiettivo ultimo della “riconciliazione”. Il rapporto, pubblicato da Le Figaro, propone una ricostruzione in base alla quale immaginare un percorso di “memoria e verità”, e si sofferma, in particolare, su dieci proposte:

1. l’istituzione in Francia di una commissione “Memoria e Verità” incaricata di promuovere iniziative congiunte tra Francia e Algeria sui temi della memoria (le “questioni della memoria”);

2. la commemorazione delle date simboliche del conflitto, tra le quali l’accordo di Evian del 19 marzo 1962, l’omaggio agli harkis, i lealisti algerini sostenitori delle forze francesi tra il 1954 e il 1962, il 25 settembre, e la repressione, appunto, dei manifestanti algerini in Francia il 17 ottobre 1961, nonché la proposta di erigere “luoghi della memoria” in quattro campi di internamento per algerini in Francia;

3. la restituzione all’Algeria della spada dell’emiro Abdelkader, eroe della resistenza nel XIX secolo;

4. il riconoscimento dell’assassinio dell’avvocato e militante Ali Boumendjel (1919 - 1957), figura di primo piano del movimento progressista e del Consiglio Mondiale per la Pace, nella battaglia di Algeri (1957);

5. l’istituzione di una commissione mista di storici francesi e algerini per fare luce sui rapimenti e gli assassinii di cittadini europei ad Orano nel 1962;

6. lo sviluppo dei lavori sui test nucleari francesi nel Sahara e sulle loro conseguenze, nonché quelli riguardanti le mine antipersona durante la guerra;

7. la facilitazione degli spostamenti degli harkis e dei loro discendenti tra la Francia e l’Algeria;

8. la conservazione dei cimiteri europei in Algeria, nonché dei cimiteri ebraici e delle tombe dei soldati algerini morti per la Francia durante la guerra;

9. lo sviluppo della ricerca sugli archivi, con l’obiettivo di trasferire alcuni archivi dalla Francia all’Algeria e consentire ai ricercatori dei due Paesi l’accesso agli archivi francesi ed algerini;

10. infine, la ripresa del progetto (2010) di un “Museo di Storia della Francia e dell’Algeria” a Montpellier.

Tuttavia, lungi dall’imbastire un vero e proprio percorso di costruzione di commissioni per la verità e la riconciliazione, si tratta in sostanza di una iniziativa unilaterale della parte francese, che non ha mancato di suscitare polemiche e scatenare anche, recentemente, un vero e proprio scontro politico-diplomatico con l’Algeria, liberatasi, è bene ricordarlo, al prezzo di una dura guerra di liberazione nazionale dal giogo francese, costata, secondo stime, la vita di almeno trecentomila algerini, non meno di un milione secondo le autorità algerine.

Secondo quanto riferito dai media, non sarebbero mancate addirittura prese di posizione riecheggianti echi neo-coloniali o quanto meno venature provocatorie da parte del presidente francese, che avrebbe evocato una presunta rendita della memoria nel percorso di costruzione dell’Algeria post-indipendenza e che avrebbe parlato delle istituzioni algerine in termini di un sistema politico-militare, portando il governo algerino a denunciare, di conseguenza, i «commenti irresponsabili» e l’«inammissibile ingerenza negli affari interni» dell’Algeria.

Lo scorso 2 ottobre l’Algeria ha quindi deciso di richiamare il proprio ambasciatore a Parigi in segno di protesta di fronte alle dichiarazioni attribuite al presidente francese, e il 3 ottobre è arrivata la comunicazione della chiusura dello spazio aereo (spazio di sorvolo) algerino agli aerei militari francesi, una zona dello spazio aereo normalmente utilizzata dall’aviazione francese per raggiungere o lasciare la regione sahariana e subsahariana.

Se da un lato la Francia ha annunciato, anche con l’iniziativa del rapporto, la propria intenzione di avviare un percorso di “riconciliazione” legato al proprio passato coloniale, mai, tuttavia, fermamente e radicalmente messo in discussione e condannato, dall’altro continua a mantenere una presenza militare imponente nella regione. La Francia è presente in Senegal, Costa d’Avorio, Gabon e Gibuti con contingenti, che, nell’insieme, assommano ad oltre tremila unità; allo stesso tempo, è presente con oltre cinquemila uomini in Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Chad nella missione “Barkhane”; nell’ambito del dispositivo militare europeo è presente nel Mediterraneo e nell’Africa subsahariana e ha una missione marittima nel Golfo di Guinea. Sono oltre trentamila gli effettivi francesi dislocati nelle diverse missioni militari, bilaterali e multinazionali, nel mondo. La presenza militare francese, di carattere imperialistico, nella regione, è dunque più che mai eclatante.

Secondo le dichiarazioni dei veterani della Guerra d’Indipendenza (1954-1962), lo storico francese autore del rapporto, Benjamin Stora, ha celato i crimini coloniali della Francia in Algeria e non ha affrontato, nel rapporto, i numerosi crimini perpetrati dallo Stato francese. La stessa cerimonia del 17 ottobre ha suscitato la prevedibile reazione da parte algerina: il presidente dell’Algeria, Abdelmadjid Tebboune, ha respinto l’approccio, il «pensiero colonialista», in merito alle questioni di natura storica con la Francia e ha ribadito, in un messaggio in occasione dell’anniversario della strage del 17 ottobre 1961, «la preoccupazione di affrontare i temi della storia e della memoria, senza compiacimenti o compromessi, e con vivo senso di responsabilità [...] lontano dall’infatuazione e dal predominio del pensiero colonialista arrogante da parte di gruppi incapaci di liberarsi dal loro estremismo cronico», come si legge in un comunicato pubblicato sul sito internet della presidenza algerina.

Già a suo tempo i veterani avevano indicato che «gli algerini non si aspettano che lo Stato francese fornisca un risarcimento economico per i milioni di vite perse; invitano, piuttosto, lo Stato francese a riconoscere i propri crimini contro l’umanità», e, da più parti, è stato deplorato il fatto che l’Eliseo abbia sinora rifiutato sistematicamente di pronunciare scuse ufficiali e di intraprendere passi effettivi e concreti per impostare, con l’Algeria, un percorso di riconoscimento dei crimini commessi. Se, come è noto, di fronte alle lacerazioni e ai conflitti della storia, non è praticabile alcuna “memoria comune”, così non è realizzabile l’idea “di scrivere una storia comune tra l’Algeria e la Francia”. Dunque, come si diceva sopra, mancano due degli elementi necessari per attivare un vero e proprio percorso di «verità e riconciliazione»: il pieno riconoscimento dei torti e delle ingiustizie, e un approccio condiviso, non unilaterale, animato da sincere intenzioni di comprensione e di convivenza, che sia, al tempo stesso, capace di gettare luce sul passato e aprire le porte a una nuova speranza e a rinnovati rapporti in direzione dell’avvenire, una diversa, cioè, propensione verso il passato e immagine al futuro, che non può prescindere dalla parola, dall’ascolto e dalla partecipazione delle persone, della società.

L’esempio offerto dalla Commissione per la Verità e la Riconciliazione, per il superamento dell’apartheid in Sudafrica, la cessazione della segregazione etnica e la riparazione dei torti conseguenti è un esempio positivo, in un contesto del tutto diverso, di giustizia “riabilitativa” piuttosto che di giustizia “retributiva” in cui il punto non è solo distinguere tra il (chi ha) torto e la (chi ha) ragione, punire il colpevole e risarcire la vittima, sanzionare il reo perché sia ridotta la possibilità della recidiva; il punto è, in particolare, quello di individuare con rigore e nettezza i torti e le responsabilità, espungere dal contesto sociale contenuti e fattori che possano disarticolare il tessuto delle relazioni e la qualità della democrazia, distinguere il colpevole dalla colpa commessa e, per questa via, proteggere l’umanità di tutti e tutte e offrire al colpevole stesso una possibilità, affinché la colpa sia riconosciuta e confinata e, nella misura del giusto e del possibile, il colpevole sia reinserito. Quella rottura esige di salvaguardare l’umanità delle persone e, al tempo stesso, la compiutezza dei rapporti sociali.

Tale modello di giustizia, nel caso sudafricano ed altri casi simili, ha consentito alla popolazione di acquisire consapevolezza condivisa delle ingiustizie patite per evitare che potessero e possano ripetersi ancora in futuro; ha dato una possibilità ai responsabili di acquisire consapevolezza delle colpe commesse, della violenza compiuta e del dolore provocato, chiedendo perdono non solo di fronte alla vittima ma di fronte alla intera comunità; e ha offerto uno spazio e un tempo alle vittime per condividere, a livello pubblico e sociale, il dolore, la violenza, l’ingiustizia subita, facendo del loro il caso esemplare di giustizia da esigere, non solo per sé, ma per tutti e tutte. Non si tratta di “perdonare” e “dimenticare”, ma di trascendere il dolore e il trauma e traguardare una prospettiva di giustizia e di inclusione. Ciò è valso in Sudafrica, e può valere nei casi in cui ciascuna delle parti abita un medesimo spazio pubblico, che risulterebbe del tutto sfigurato senza una tale “compresenza”.

Riconoscere il portato dei movimenti storici di liberazione, all’insegna dell’autodeterminazione, resta centrale, in ogni caso, per contrastare ogni forma di colonialismo e neo-colonialismo e per ribadire la centralità dei diritti e della libertà dei popoli, fondamento dell’amicizia e della solidarietà tra le nazioni. Non è un caso che il 4 luglio 1976 proprio ad Algeri, per iniziativa di Lelio Basso, fosse proclamata la Dichiarazione universale dei diritti dei popoli, vale a dire la Carta di Algeri, proposta di paradigma dei diritti dei popoli e compimento, al tempo stesso, del processo di decolonizzazione inaugurato all’indomani della seconda guerra mondiale. Qui si riconosce, in premessa, che «l’imperialismo, in forza di meccanismi e di interventi perfidi o brutali, con la complicità di governi spesso da esso stesso imposti, continua a dominare una parte del mondo», e si rivendica, all’art. 28, che «ogni popolo i cui diritti fondamentali sono gravemente misconosciuti ha il diritto di farli valere soprattutto attraverso la lotta politica o sindacale e anche, in ultima istanza, attraverso il ricorso alla forza».

sabato 9 ottobre 2021

Un discorso memoriale per contrastare l’antisemitismo

Beny Shlevich - www.flickr.com/photos/shlevich/37431682
CC BY  SA 2.0 -  commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=1307789

Nella recente visita istituzionale in Ucraina, il presidente israeliano Isaac Herzog ha tenuto un vero e proprio “discorso memoriale”, la cui valenza politica pare evidente, per commemorare l’ottantesimo anniversario del massacro di Babi Yar, una pagina non particolarmente nota tra i molti episodi di violenze e massacri condotti dai nazisti, in tempo di guerra, non solo nei territori dell’Europa centrale e orientale. Molto significativo, per rappresentare propriamente il “carattere memoriale” del discorso, il fatto che queste parole siano state pronunciate nel contesto del costituendo Babi Yar Holocaust Memorial, che si annuncia essere, quando sarà ultimato, uno dei più grandi in assoluto e senza dubbio il più grande tra gli istituti memoriali (uno specifico “luogo della memoria” anche con scopi di ricerca ed educazione delle giovani generazioni) nell’Europa orientale.

«Della maggior parte delle vittime di Babi Yar non rimane traccia. Nessun nome, nessun ricordo. […] È tempo di ricordare, ed è per questo che siamo qui oggi», è stato uno dei passaggi del discorso, così come riportato dalla stampa. D’altra parte, la realizzazione del Memorial è stata giudicata «un capitolo importante nella storia dell’Ucraina e di Israele, dell’Ucraina e del popolo ebraico». Del resto, prima ancora della partenza per la visita istituzionale, una dichiarazione rilasciata dal gabinetto presidenziale ammoniva a «non dimenticare il terribile massacro di Babi Yar, in cui furono sterminati 33.000 ebrei ...: uomini, bambini, anziani e donne». Indubitabile, del resto, la portata e la gravità di questo, tra i tanti, eccidio: il massacro è considerato il maggiore compiuto dai nazisti e dai loro collaborazionisti nel corso dell’invasione ai danni dell’Unione Sovietica, ed è, in tal senso, l’episodio più grave tra gli eccidi nazisti, dopo il massacro di Odessa (oltre 50.000 ebrei massacrati nell’ottobre del 1941 ad opera delle truppe tedesche e rumene) e l’Aktion Erntefest (oltre 40.000 ebrei massacrati a Lublino e nei campi di Majdanek, Poniatowa e Trawniki da parte delle SS e delle formazioni paramilitari naziste del “Sonderdienst” ucraino tra il 3 e il 4 novembre del 1943). Vittime di eccidi nazisti in terra ucraina - e non solo - furono prigionieri di guerra, comunisti e antifascisti, nazionalisti e minoranze nazionali. Pesanti ovunque le responsabilità dei collaborazionisti, tra cui i fascisti italiani, come documenta l’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia circa le stragi compiute da nazisti e fascisti contro il popolo italiano, tra il 1943 e il 1945.

In uno dei passaggi del discorso, è stata dedicata una riflessione di portata più complessiva circa la necessità di ricordare “la storia del popolo ebraico” (in Ucraina e non solo) «con pogrom e uccisioni che hanno avuto luogo e sono continuati fino al terribile massacro di Babi Yar». La vicenda dell’antisemitismo in Europa ha infatti una storia lunga e drammatica e, di volta in volta in forme nuove e diverse, episodi o eventi di carattere antisemita non cessano di destare inquietudine e preoccupazione in diversi Paesi (tra cui l’Italia) del continente. Il Babi Yar Holocaust Memorial si propone, sotto questo aspetto, di diventare un luogo “della memoria e del rispetto” e programma di ospitare un complesso museale, una biblioteca/mediateca, un archivio, uno spazio dedicato alla ricerca e un luogo di preghiera multi-religioso (chiesa, moschea, sinagoga, e anche un luogo dedicato alla spiritualità non confessionale) e una piattaforma multimediale, anche per programmi educativi.

Nel 2018, su richiesta della Commissione Europea, l’Agenzia dell’Unione Europea per i diritti fondamentali, con sede a Vienna, ha condotto un’indagine sulle percezioni e sugli episodi riferiti dai cittadini ebrei europei relativi a crimini d’odio, discriminazione e antisemitismo in 12 Paesi membri della UE, vale a dire Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Ungheria, Italia, Paesi Bassi, Polonia, Spagna, Svezia e, all’epoca, Gran Bretagna che, nel loro insieme, ospitano oltre il 95% della popolazione ebraica europea. L’indagine, ampiamente rappresentativa, ha raggiunto 16.395 persone, di età superiore ai sedici anni, che si identificano come ebrei («self-identified Jewish people»). Nove ebrei su dieci (89%) ritengono che l’antisemitismo sia aumentato nel loro Paese, otto su dieci (85%) considerano l’antisemitismo un problema serio; considerano l’antisemitismo particolarmente grave su internet e nei social media (89%), ma anche negli spazi pubblici (73%), nei media tradizionali (71%) e nella vita politica (70%). Sono inoltre indicate alcune tra le dichiarazioni con connotati antisemiti più comuni - del tipo «gli israeliani si comportano come i nazisti nei confronti dei palestinesi» (51%), «gli ebrei hanno troppo potere» (43%) o «gli ebrei sfruttano il vittimismo della Shoah per i propri scopi» (35%); anche in questo caso, risulta dall’indagine che tali espressioni siano più comuni online (80%), decisamente più frequenti online che nei media tradizionali (56%) o in manifestazioni politiche (48%).

L’indagine rileva che uno su quattro (28%) ha subito molestie riconducibili all’antisemitismo o di carattere antisemita e quattro su dieci (40%) si dicono preoccupati di subire un’aggressione di matrice antisemita; preoccupante anche il dato dell’indagine per cui uno su tre (34%) dice di evitare di partecipare a eventi o visitare siti ebraici perché non si sente al sicuro “come ebreo” quando si trova sul posto o durante il viaggio. Molto significativi anche alcuni dati riguardanti l’Italia: sebbene il 32% ritenga che le autorità contrastino efficacemente l’antisemitismo, oltre il 90% ritiene l’antisemitismo in internet particolarmente problematico. D’altra parte, come pure è stato ricordato, in Germania la vendita di cimeli inneggianti al fascismo e al nazismo è vietata: «Considerando le sofferenze che la Germania ha causato tra il 1933 e il 1945 non c’è alcuna ragione di tutelare il commercio di questi oggetti» come ha ricordato Felix Klein. È anche una questione di democrazia: per contrastare le rinnovate spinte alla criminalizzazione della diversità e delle differenze, le tendenze all’assurda equiparazione tra nazismo e comunismo, i progetti di moltiplicare muri e barriere per separare e respingere.