venerdì 8 novembre 2019

Appunti sull’attivazione internazionalista e per le questioni internazionali

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L’iniziativa internazionalista è, per tutte le soggettività progressiste e democratiche, solidaristiche e nonviolente, un terreno di impegno strategico e necessario. In queste due parole, vi è anche il senso della traiettoria che è necessario imprimere a questa azione, perché possa essere autentica, sincera, credibile, originale, e, possibilmente, innovativa.

Quando parliamo di iniziativa internazionalista e di solidarietà internazionale parliamo, allo stesso tempo, di un impegno strategico: la parola d’ordine della «pace» è una delle tre intorno alle quali si condensò la formula degli impegni programmatici della Rivoluzione d’Ottobre, nel 1917; sul tema della guerra e della pace e sul rifiuto della guerra imperialistica delle borghesie nazionali e dei cosiddetti «crediti di guerra» si determinò la divisione, nell’ambito delle socialdemocrazie europee, che determinò lo stallo, prima, e la fine, poi, della Seconda Internazionale, ponendo le basi della costituzione della Terza Internazionale; la pace è fondamento costituzionale del nostro ordinamento democratico, tanto è vero che, a norma di Costituzione, «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». 

Ma, come si diceva, il terreno della solidarietà internazionale è anche un terreno necessario. C’è dibattito, nel campo delle forze antimilitariste e pacifiste, sulla corretta declinazione dell’antimilitarismo e su una corretta definizione di «pacifismo»: è qui appena il caso di sottolineare come le categorie storiche, a fronte del necessario aggiornamento e dell’opportuna attualizzazione cui devono essere sottoposte, continuano a rappresentare il lessico comune delle forze progressiste e comuniste a livello mondiale, e della sentita e condivisa esigenza di lottare contro l’imperialismo (categoria economica, prima che politica, com’è noto dalla lezione leniniana), contro il neo-colonialismo (a sostegno delle lotte per l’emancipazione dei popoli, tenendo sempre insieme i principi cardine della fratellanza, dell’auto-determinazione dei popoli, della non-ingerenza nelle questioni interne dei singoli Stati), contro il militarismo (inteso come vero e proprio «dispositivo politico», cioè, al tempo stesso, dispositivo di comando e di gerarchia di potere su scala internazionale, fattore ordinatore della produzione, a partire dal cosiddetto «complesso militare-industriale», strumento di minaccia o di risoluzione delle controversie e dei confitti attraverso l’esercizio della guerra). Parliamo di pacifismo, quindi, nel senso di una azione strategica per la pace, e parliamo della pace nel senso della «pace positiva», vale a dire del nesso unitario e inscindibile tra pace, emancipazione e giustizia sociale.

Dunque, a partire da tali presupposti, come costruire iniziativa nell’ambito delle questioni internazionali? O, in estrema sintesi, come “fare solidarietà” internazionale? «Fare solidarietà» è sempre una pratica: forte di precise e rigorose connotazioni analitiche, la solidarietà è, sempre e comunque, esercizio di partecipazione e di coinvolgimento. L’iniziativa che si intende costruire in tal senso, pertanto, dovrebbe sempre tenere lo sguardo su almeno tre elementi fondamentali: in primo luogo, individuare sempre con precisione l’oggetto, il tema politico e l’area geografica di riferimento, sviluppando, a partire da questa, gli opportuni rimandi e le necessarie estensioni (è il caso tipico di tre contesti a noi molto vicini: Cuba socialista e il Venezuela bolivariano, che consentono di riflettere sul subcontinente latino-americano; la lotta di resistenza e di auto-determinazione del popolo palestinese, che consente di far luce sul complesso della vicenda vicino-orientale; gli esiti delle cosiddette “primavere arabe” che, con le loro innovazioni e le loro contraddizioni, rimandano e alludono alla vicenda complessiva del Mediterraneo). In secondo luogo, l’iniziativa internazionalista, per essere propriamente tale, dovrebbe sempre consentire di stabilire un «dialogo tra i mondi», tra la nostra realtà vicina e la realtà cui si guarda, per consentire una relazione e uno scambio di pratiche e di esperienze (si pensi all’esperienza bolivariana e alla elaborazione del «Socialismo per il XXI secolo»). Infine, consentire l’intreccio di relazioni, coinvolgendo i protagonisti delle lotte e stabilendo legami di solidarietà (come nel caso delle comunità di immigrate e immigrati, nei nostri territori, attivi in esperienze di lotta). 

Declinare efficacia e innovazione, una sfida per l’internazionalismo del nostro tempo. 

lunedì 4 novembre 2019

Paesaggi Balcanici: dalle «Vie del Danubio» alla Costruzione della Pace

Felix Romuliana, Gamzigrad (Zajecar, Serbia): Foto di Gianmarco Pisa


È una delle possibili «Vie del Danubio», il grande fiume d’Europa e la via magistrale di connessione di popoli e culture, a cavallo tra la Mitteleuropa e l’Oriente Europeo, l’Europa centrale e austro-tedesca con il mondo slavo e la penisola balcanica. Si tratta della «Via degli Imperatori dell’Antica Roma e dei Vini del Danubio», itinerario culturale riconosciuto dal Consiglio d’Europa, che si dipana attraverso quattro paesi, Croazia, Serbia, Bulgaria e Romania, attraversando ben 20 siti archeologici e 12 distretti enologici, ove sono distinguibili sia elementi identitari comuni, quali lo sfondo paesaggistico danubiano e il retaggio storico classico, sia elementi culturali distintivi, che fanno, appunto, la «ricchezza nella diversità» di questa vera e propria polifonia multiculturale.

Nel tratto serbo dell’itinerario, i grandi (non certo unici) complessi sono tre, nell’ordine con cui sono stati attraversati e nell’ipotesi di un itinerario ideale facente base a Belgrado: appunto la capitale, Belgrado, con la vicina Kostolac, l’antica Viminacium; quindi Zaječar, con la vicina Gamzigrad, che ospita l’antico complesso di Romuliana; e infine il capoluogo dello Srem, l’antica Sirmio, Sremska Mitrovica, all’epoca Sirmium. 

A Gamzigrad, Romuliana è nella lista del patrimonio dell’umanità dal 2007 e l’eccezionale unicità del sito è rappresentata dalla sua configurazione di «complesso», dove il palazzo fortificato dell’imperatore Galerio (dedicato alla madre Romula, da cui il nome), edificato tra il III e il IV secolo, è in realtà una spettacolare combinazione del palazzo imperiale, di due templi, e di una serie di altre costruzioni. A Sremska Mitrovica, dell’antica Sirmium resta, in particolare, il quartiere commerciale con una strada principale e resti delle strade e delle edificazioni adiacenti, realizzate, in più fasi, tra il II e il V secolo.

Infine, tornando verso Belgrado, l’antica Viminacium, odierna Kostolac, rappresenta uno dei primi siti legionari sul Danubio, del quale restano tracce di strutture militari e civili, dell’anfiteatro e delle terme. Da Belgrado, il tragitto sino a Kraljevo consente di connettere queste tracce con le memorie della storia del Paese, nella quale Kraljevo ha svolto un ruolo importante, nelle cui prossimità sorge il Monastero di Žiča, anch’esso patrimonio culturale di eccezionale importanza, uno dei cosiddetti monasteri di fondazione, e per questo centro delle celebrazioni dell’ottavo centenario della autocefalia della Chiesa Ortodossa Serba, che ricorre quest’anno (1219-2019).

Kraljevo non è distante da Niš, anch’essa legata alla memoria classica, dal momento che l’antica Naissus ha dato i natali all’imperatore Costantino il Grande. L’itinerario prosegue da Kraljevo, porta del sud della Serbia, verso il Kosovo, il cui patrimonio culturale e paesaggistico, è indiscutibile, dal momento che spazia dagli antichi ritrovamenti archeologici della Dardania e di Roma, alle sorprendenti costruzioni moderniste nello stile del razionalismo socialista dell’epoca jugoslava. A proposito della quale, quello che fu uno dei monumenti simbolo di Prishtina, vale a dire il Monumento alla Fratellanza e all’Unità, ha finito perfino per acquisire nuova vita, con la risistemazione della piazza che lo ospita, ora attrezzata anche con piccole aree verdi e punti sosta.

A 12 kilometri da Prishtina si trova Gračanica e, ad un kilometro da questa, lungo la strada per Laplje Selo, il sito archeologico di Ulpiana, anch’esso passato dal più totale abbandono (di cui siamo stati testimoni) ad una efficace risistemazione e valorizzazione (di cui pure siamo testimoni). All’epoca della presenza imperiale nella Dardania, la città si trasformò da tipico insediamento dardanico a tipica città romana, nel corso del I secolo, prendendo il nuovo nome dall’imperatore Marco Ulpio Traiano. 

Ulpiana divenne «splendidissima» tra il III ed il IV secolo e si presenta oggi nella forma di un complesso archeologico importantissimo, razionalmente – simmetricamente – organizzato nelle parti che lo compongono, da Nord verso Sud (in direzione contraria a quella di ingresso) con la porta maggiore (Porta Nord), la via di accesso (Cardo Maximus), una Taberna, le Terme, un Tempio pagano, una Basilica paleocristiana, infine una notevole Villa urbana e uno spettacolare Battistero ottagonale.

Rientrati a Gračanica, non si può non orientarsi verso lo spettacolare Monastero, anch’esso patrimonio dell’umanità dal 2006, con il suo superbo sistema di colonne e di cupole e i rilevanti affreschi, risalenti al 1321. Costituisce patrimonio dell’umanità in solido con il Monastero di Dečani, anch’esso nella lista dal 2004, ultimato nel 1335 da Stefan Dečanski, figlio di Stefan Milutin, costruttore di Gračanica. 

L’esterno, elegantemente armonioso, in un perfetto bilanciamento di romanico e gotico, e l’interno, letteralmente stupefacente, con i suoi mille ritratti affrescati su uno sfondo di blu lapislazzuli (singolare al punto da essere definito «Blu di Dečani») rappresentano un esempio superbo di unità culturale e spirituale, una perfetta interpretazione, per il contesto e i contenuti che rappresenta, di una unità paesaggistica capace di veicolare il carattere universale di questo patrimonio e rappresentare i più alti valori di solidarietà e di pace. 

Enfatizzati, per chiudere questo «itinerario di itinerari», da uno dei patrimoni simbolo della cultura albanese, le Kullat a Junik (Peć/Pejë), a sua volta non distante da Dečani, sulla strada per Gjakova (Ðakovica), come tutte le Kullat, simbolo comunitario e di accoglienza. La stessa Gjakova, del resto, è una delle poche città, in Kosovo, ad avere conservato, nel suo centro storico, i caratteri tradizionali della architettura albanese kosovara. Ancora, da questo patrimonio culturale, un messaggio potente, la cui attualità pare, oggi, più forte che mai.

La fotogallery e il reportage a puntate sono su:
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