martedì 10 gennaio 2012

Welcome Mr. President!

Una discussione interessante che abbiamo avuto modo di riprendere, al rientro in automobile, lungo la via di Gorazdevac, durante uno degli accompagnamenti dal gruppo di studio, è stata quella sulla lingua e sulla nazionalità, con un ragazzo egiziano della nostra equipe.
Certo l’evento del giorno difficilmente può racchiudere, specie se così specifico, i diversi significati che una delle giornate così cariche di lavoro, impegni e incontri, inevitabilmente finisce con il portare con sé. Eppure anche quell’accompagnamento, al di là del significato specifico che ricopre qui il fatto in sé, con tutto il suo carico di difficoltà, è stato esemplare di una, anzi di molte delle realtà del Kosovo, che inevitabilmente finiscono per ruotare attorno al perno della nazionalità, dell’identità linguistica e dell’appartenenza comunitaria. Gorazdevac, per entrambe le questioni, un po’ come Pristina o Mitrovica, finisce per somigliare sempre più a una sorta di “ombelico” del mondo.
Intanto perché è attualmente presidiata dalla KFOR slovena e certo la scelta, per quanto dettata dai motivi di rotazione che caratterizzano la TFW (Task Force West, quella posta sotto il comando italiano) non è delle più felici come in molti, tra i giovani della comunità serba, ci ricordano: intanto per qualche errore storico (geografico o linguistico), come quello di aver segnato il cartello stradale per la base di Villaggio Italia con la dizione slovena del nome serbo che suona Bielo Polje, quando dovrebbe essere più semplicemente, nell’originale serbo, Belo Polje; e poi per qualche ragione, del resto a quest’ultima attinente, di tipo più profondo, storico e ideologico, legato cioè alle ragioni dei conflitti che hanno insanguinato la ex Jugoslavia e che sono partiti proprio dallo scoccare delle secessioni della Slovenia e della Croazia ed, in particolare, i serbi e gli sloveni, sin dai tempi della Jugoslavia titina, non nutrono particolari motivi di simpatia reciproca.
E successivamente perché tutt’intorno a questo villaggio si dispone una delle più caratterizzanti circolari del conflitto: non solo per essere stato un distretto tra i più martoriati di tutto il Kosovo, quello di Pec/Peja, appunto, ma anche per essere contornato da una cinta di villaggi a composizione mista, come quello di Poceste, dove troviamo anche una piccola comunità egiziana, lungo la strada che porta a Rozanje, nodo di confine con il Montenegro, da cui, del resto, provengono diversi degli esponenti di questo a tratti incredibile micro-cosmo.
Il nostro amico è uno di questi, esponente della comunità egiziana di Poceste, ed è lui il protagonista di una conversazione, iniziata con il clamoroso fraintendimento del nostro tentativo di spiegargli la corretta pronuncia di alcuni sostantivi della lingua serba, che lui si ostinava a pronunciare con la tipica sillabazione del dialetto serbo-bosniaco di provenienza, dimenticando che la pronuncia bosniaca è jekava (come appunto in Bielo Polje) mentre quella serba, peraltro estremamente varia, è ekava (vale a dire conserva il suono consonantico puro della vocale).
Il che è di per sé argomento significativo, dal momento che traduce la differenziazione linguistica fondamentale che esiste tra le lingue slavo meridionali della parte settentrionale e costiera (sloveno, croato e serbo-bosniaco) e quelle della parte centrale e meridionale, corrispondenti a tutta l’area della Serbia storica: un aspetto centrale, questo, anche per capire le discriminanti linguistiche, che – qui più che altrove – diventano anche discriminanti comunitarie, come dimostrano le appartenenze identitarie reciprocamente configgenti di serbi e croati, legate anche a specifici motivi religiosi ed ideologici, o, per altro verso, la riforma linguistico nazionalistica della Croazia di Tudjiman che ha preteso di disconoscere l’unitarietà linguistica storica del serbo-croato per creare, sostanzialmente a tavolino e con una pattuglia di accademici compiacenti, un croato artificioso e bizantino, irreale ed astorico.
Più volte ti fanno notare da queste parti, come il cemento identitario dello spirito nazionale , che è un po’ una caratteristica fondamentale in tutta l’Europa sud-orientale, riguardando anche Grecia e Macedonia e, per altri versi, l’Albania, risieda molto più nell’identità linguistica e nell’appartenenza comunitaria (socio-politica) che non nella religione o nella mera separazione etnica, pur la religione contando molto (soprattutto sui fronti contrapposti delle comunità croata e serba, la prima cattolica fondamentalista e la seconda ortodossa ed auto-cefala) e comunque in considerazione del fatto che una discriminante puramente etno-comunitaria è da queste parti inammissibile per gli storici contatti e le profonde relazioni storiche tra le diverse comunità, consolidatesi in anni di traffici congiunti e matrimoni misti, che ancora porta una parte della popolazione serba (anche, sebbene in minor misura, serbo-kosovara) a definirsi jugoslava prima ancora che serba (e comunque in nessun caso kosovara, a dimostrazione che una identità autonoma di popolo, che dovrebbe essere uno dei fondamenti dello stato-nazione, da queste parti non esiste o è irrilevante).
La cosa dà da pensare anche sul piano dell’identità etnica, che diventa di per sé, da queste parti, orgoglio etico: come dimostra l’indisponibilità del nostro a riconoscere che “egiziani” non è solo un gruppo etnico autonomo, ma anche un ceppo della comunità rom (ma sarebbe impossibile, e ce ne rendiamo conto, subito, pretendere da lui una simile apertura…)
Sembra di ricordare il film che avevamo visto la sera stessa: “Benvenuto Signor Presidente” è una pantomima grottesca dell’arrivo di Bill Clinton in un villaggio della Bosnia a tre anni dalla fine del conflitto in Bosnia: pantomima irrituale e paradossale, ma in definitiva, balcanica tout court.

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