martedì 10 gennaio 2012

Ederlezi

E’ difficile trovare un elemento saliente che faccia da gancio o da tramite, quando l’intenzione è quella di parlare dei rom: si tratta di un argomento che vive in sé della dimensione della complessità e che è destinato ogni volta a sollevare una tale mole di considerazioni e di contraddizioni da rendere difficile tirare, di volta in volta, il bandolo giusto della matassa. Forse è proprio la straordinaria ricchezza e complessità – nel senso, prima di tutto, di articolazione – delle diverse sorgenti linguistiche, sociali e culturali di questo popolo che rendono così complicata quella matassa e determinano, un po’ per ignoranza, un po’ per esorcismo, ancorché poco comprensibile e del tutto illegittimo – quella messe di stereotipi, ricorsività e luoghi comuni dei quali questa comunità sembra essere destinataria privilegiata.
Non sarà il caso di fare il trito elenco delle baggianate: che sono sporchi, che rubano e, questo davvero indice di una matrice culturale dura a morire, che vanno “vagabondando”; se non per sottolineare quanto queste matrici alludano a retroterra culturali assolutamente persistenti, ad una immagine che si ha dell’altro costituitasi in visione, in vero e proprio armamentario culturale del quale, soprattutto nel cosiddetto “occidente civilizzato”, si è fatto al contempo bagaglio ed armatura, per riempirsi la bocca e le orecchie di troppo spesso vacue parole e per rinchiudersi a riccio ogni qual volta la presenza dell’altro (o semplicemente di una differenza o presunta tale) ti costringa a mettersi in gioco.
La presenza dei Rom è sempre una presenza scandalosa, nel senso sociale, ma prima ancora nel senso cristiano del termine: mettono a nudo, con il solo atto di esserci, le vane certezze e i sensi di colpa di tante delle popolazioni che li hanno fuggiti nel passato, oppure, a più riprese, perseguitati e respinti e tra queste soprattutto le popolazioni occidentali, che ne sono state “comunità di destinazione” sin a partire dal Basso Medioevo. Si tratta, tuttavia, di uno scandalo proficuo, efficace, e se per una volta è concesso poter disporre di un luogo comune, che sia almeno quello giusto, nel quale sia racchiusa, cioè, una verità storica o una norma di condotta sociale: i Rom sono l’unico popolo che non ha fatto guerra a nessuno ma che hanno sempre subito le guerre degli altri.
Un luogo comune, certamente, ma che contiene una grande, e troppo spesso dimenticata, verità: la verità della sistematica discriminazione (nelle diverse forme con le quali si è presentata nel corso della storia) di cui i Rom sono stati fatti segno e bersaglio, all’insegna delle quale hanno attraversato regioni ed epoche storiche e sull’onda nefasta delle quali sono alla fine giunti sino a noi, talvolta sino ai margini delle nostre case. Queste considerazioni possono essere certamente utili per impostare un corretto lavoro di mediazione interculturale ovvero di integrazione psico-sociale basato sul lavoro comune di ricerca per la pace, diritti umani e integrazione sociale presso le tre comunità salienti del Kosovo (tra le quali i Roma costituiscono una presenza significativa, troppo spesso e a torto, obliterata, dal momento che, valga per tutti questa considerazioni, costituiscono l’unica comunità minoritaria sostanzialmente distribuita ai quattro angoli della regione, pur se concentrata in alcuni grandi campi/ghetto, tra cui, nella zona Nord corrispondete al distretto di Mitrovica, quelli di Osterode e di Cesmin Lug ): ma soprattutto sono utili a monte, se non altro per comprendere l’impostazione del lavoro e le scaturigini di una specificità sociale e culturale che deve essere sempre tenuta presente e che – mai come in questo caso – costituisce un fattore di arricchimento prezioso e rilevante.
Se da una parte, per rispondere alla prima delle due questioni,  c’è poco lavoro di pace e di trasformazione nonviolenta dei conflitti che si possa fare con i Rom, sostanzialmente un popolo pacifico e un popolo ghetto per le condizioni, qui in Kosovo in modo spaventosamente evidente, che non riguardi due temi fondamentali e su cui tanto bisognerebbe insistere, quali quelli della conoscenza dei diritti umani e dell’emancipazione femminile (dal momento che la maggior parte dei conflitti tra i Rom avvengono all’interno del campo e soprattutto in famiglia e la condizione della donna, pur non dissimile da quelle di altre realtà tradizionali presenti in Kosovo, è deprecabile), che agisca molto più, dunque, nella direzione della capacitazione e del rafforzamento dei diritti, delle tutele e delle garanzie – dopo la fine della Yugoslavia, praticamente ridottesi a zero); dall’altra parte si pone la seconda delle due questioni. Si tratta della questione della conoscenza: parlare di luoghi comuni, lo si sa, significa parlare soprattutto di ignoranza, l’ignoranza di chi non è capace di perseguire gli universi di provenienza (o gli universi della provenienza, vale in entrambe le direzioni).
I Rom sono infatti una sorta di presenza antesignana, anche a Vucitrn, nella zona di Gobulija, dove una parte dei Rom della zona centro (e, in parte, di Pec/Peja) provengono e dove a mia volta mi recherò, nell’occasione di una delle ricognizioni per l’insediamento del progetto dei Corpi Civili di Pace in Kosovo. Questo è forse il gancio che andavamo cercando all’inizio: quello offerto dall’essere i Rom una sorta di costante della nostra “civiltà”, pur con tutto il portato della loro unicità. Un elemento di questi è quello che ho avuto la fortuna di vivere nell’occasione del 6 magio (Djurdjevdan): che è si il giorno di San Giorgio della tradizione ortodossa, ma è soprattutto il giorno di Ederlezi per i Rom, la festa nazionale più importante del loro calendario.

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