martedì 10 gennaio 2012

Il "lungo ritorno" in Kosovo


Una lunga traversata dell’Europa del Sud-Est è quella che mi ha condotto in Kosovo per la seconda volta, animato dall’usuale convinzione di poter dare e ricevere, offrire un contributo allo svolgimento di un processo che so essere interessante e, al tempo stesso, conseguire una ulteriore occasione di maturazione e di arricchimento, sia sul piano umano sia su quello professionale.
Stavolta, evidentemente, ho la consapevolezza di poter valutare alcuni contesti non solo sulla base di una preparazione puramente formale, come era accaduto nell’occasione della prima missione, in cui, non potendo rispondere al richiamo della memoria, potevo fare affidamento pressoché esclusivamente sulle motivazioni e sull’apprendimento “accademico”.
In questa circostanza al richiamo della memoria risponde l’esperienza accumulata nel mese di permanenza, tra giugno e luglio 2005, nel quadro di progetto “Dialoghi di Pace” sotto l’esperienza progettuale che, forse con efficacia ma certamente senza troppa fantasia, avevamo denominato “La Pace non è una Fiaba”, richiamando così l’oggetto di quella sperimentazione; e, inoltre, può avere luogo l’esercizio della valutazione basata sull’analogia, sul raffronto e sulla cosiddetta “valutazione ex post”, che certamente non esauriscono il novero dei percorsi di indagine e razionalizzazione che consentono di esprimere un giudizio su una determinata circostanza, ma che comunque possono ugualmente costituire dei supporti interessanti e, nel mio caso, delle “guide per l’azione”.
Attraverso i Balcani, come mi è capitato di fare in questa occasione, prendendo il treno da Roma la sera del 27 aprile, viaggiando l’intera notte ed arrivando a scoprire l’alba di Villach, punto della Carinzia a cavallo tra tre Paesi, ed infine volando al mattino del 28 aprile tra Ljubljana (capitale della Slovenia) e Pristina, che non è capitale ma che molti vorrebbero vedere assurgere a tale rango, non solo tra le comprensibili aspirazione della comunità albanese kosovara ma anche nell’ambito delle interessate valutazioni della comunità internazionale.
Certamente, la Slovenia offre un punto di vista interessante per chi intenda ragionare intorno alle evoluzioni dell’Europa sud-orientale nel corso degli ultimi quindici anni, a contare dalle guerre di secessione che hanno a più riprese insanguinato la regione e che portano ancora con sé tutto il loro carico di dolore e di odio, un misto di sofferenza umana e di lacerazione sociale, tra dichiarazione di indipendenza di Stati etnicamente ripuliti e nuove rotte degli affari troppo spesso illegali.
Da questo punto di vista è vero che la Slovenia non è la Croazia: non rappresenta il modello di uno stato nazionalitario etnicamente omogeneo che a suon di armi ha tentato di imporre la su egemonia regionale; e tuttavia è lo Stato delle mille bandiere e delle mille piccole rivendicazioni, pur essendo, tra quelli che interessano la regione, quello che ha meglio saputo coniugare l’istanza nazionale con il paradigma della modernizzazione e che per questo viene vista oggi, rispetto all’area balcanica, grosso modo come dieci anni fa si vedeva l’Argentina nel contesto latino-americano, come una sorta di modello, la cui affermazione economico-sociale deve essere riprodotta ed esportata (non è un caso che nel corso di quest’anno l’FMI l’abbia acquisita al novero dei Paesi ad economia avanzata, dalla posizione di Paese in transizione che precedentemente ricopriva e che ancora tuttavia caratterizza la sua situazione).
Coniugare nazionalismo e modernizzazione significa, dal punto di vista dell’esperienza slovena, saper riassumere il bene e il male del proprio modello sociale in pochi slogan, che la propaganda ufficiale ha immediatamente fatti propri, come quello che vuole la limitata estensione geografica una occasione per proteggere “la propria individualità”, o quello che rivendica la performance economica come modello di benessere diffuso (nello stesso momento in cui i “campioni” dell’industria nazionale vanno a "conquistare" i mercati dei Paesi vicini, come dimostra, tra gli altri, il caso dell’industria degli elettrodomestici “Gorenje”).
La Slovenia conta però circa due milioni di abitanti, ha un’economia in crescita e non gravi problemi con le sue minoranze italiana e ungherese stanziate sui corrispondenti confini. Una situazione imparagonabile, evidentemente, a quella del Kosovo, molto piu' ridotta per estensione geografica e popolazione, nel cui milione di abitanti dobbiamo contare anche il circa 10% di minoranze nazionali che ancora vivono quotidianamente il lascito del conflitto etno-politico e che sono di volta in volta oggetto degli opposti rancori: i serbi enclavizzati dagli albanesi e ripetutamente sottoposti a violenze piccole e grandi di ogni tipo, i rom segregati dagli albanesi perché ancora marchiati dello stigma dei “collaborazionisti” serbi; gli albanesi nell’attesa del riconoscimento formale dello status che nasconde però la realtà di quel simulacro di Stato che è oggi la regione.
E’ un situazione, quella che ancora si vive in Kosovo, aperta a soluzioni di qualsiasi tipo e c’è qualcosa di metaforico nel fatto stesso che il giorno del mio arrivo a Pristina sia anche quello della ri-discesa nella regione, per colloqui formali con le controparti serba ed albanese, di una delegazioni delle Nazioni Unite per discutere del futuro status regionale.

E’ indubbiamente una giornata tipo, nell’ordinaria amministrazione del post-conflitto in Kosovo, nel quale da adesso mi re- immergo.

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