Il tema della relazione tra il comparto civile e quello militare è un tema sofisticato e complesso: sofisticato per la sua impostazione, complesso per la sua rilevanza strategica, che attiene sia al portato dei vissuti psicologici, sia alle questioni del coordinamento operativo e del tessuto di relazioni che si instaurano sul campo. Su questo argomento, d’altro canto, il dibattito è aperto e contrastato, molto meno all’interno delle sfere della gerarchia militare, dove è data per scontata la presenza della cooperazione civile e dove vi sono registri di relazioni con la cooperazione governativa e quella non-governativa, sovente utilizzata quale fonte di informazioni o canale di comunicazione utile ai fini dell’instaurazione di relazioni “amichevoli” con la comunità locale, molto più all’interno dei movimenti che lavorano per la pace, nell’ambito dell’associazionismo e della cooperazione non governativa, dove troppo spesso, ancora oggi, ci si muove “ a vista”, sovente senza un coordinamento ed una effettiva condivisione intorno alle modalità di realizzazione di queste forme di coordinamento o di relazione.
Come è facile comprendere scendendo un po’ più nel merito della questione, la tematica non è affatto di esclusiva pertinenza teorica o accademica, ma ha risvolti e conseguenze molto pratiche, soprattutto per chi lavora sul campo, dal momento che da essa deriva tutta una serie di importanti implicazioni, sulla qualità e la credibilità, ma anche i carattere del tipo di intervento che si viene svolgendo sul campo fino alla connotazione della progettazione degli interventi di trasformazione costruttiva del conflitto. In ogni caso, prima di ogni altra considerazione, vale una regola su tutte, quasi una premessa al tempo stesso di metodo e di merito: che non è possibile costruire la pace con le armi, che la divisa è sovente segno di associazioni negative o distruttive per le comunità locali e che il lavoro di pace tace dove parlano le armi.
Premesse non del tutto scontate, se pensiamo anche al lavoro di collegamento con le strutture militari che diverse organizzazioni della società civile continuano a promuovere o, per lo meno, ad accettare: con il rischio, sempre presente quando si lavoro sul campo, mettendo quotidianamente in gioco la propria faccia, la propria connotazione e la propria credibilità, di finire “associati” o addirittura “strumentalizzati” dai militari, come talvolta risulta evidente anche da alcuni espressioni che tipicamente si sentono dire dai militari negli incontri formali ed informali che si vengono svolgendo sul cosiddetto “teatro di operazioni”.
E’ quanto ad esempio accaduto anche nell’occasione dell’incontro (informale) che abbiamo avuto a Gorazdevac con una equipe della locale LMT (Liaison Monitoring Team, la squadra di monitoraggio locale) che, inquadrata all’interno della Kfor Italiana, nella base denominata – con non molta fantasia, in verità – “Villaggio Italia” sulla strada che attraversa il villaggio serbo-kosovaro di Belo Polje, è che è stata una interessante occasione di confronto e di osservazione. Sarebbe interessane, a proposito, fare una specie di catalogo di tutti i luoghi comuni che costituiscono struttura e sostanza dell’interlocuzione che i militari rivolgono agli esponenti sul campo di società civile: “siamo qui per lo stesso obiettivo”, “i fondo facciamo cose simili”, “se avete bisogno di qualunque cosa, non esitate a contattare l base”, “possiamo scambiarci delle informazioni” oppure ancora “avremo bisogno di informazioni per il lavoro che facciamo qui”.
Sono tutte affermazioni insidiose, che in realtà nascondono altro, come avevo già avuto modo di sperimentare durante i miei primi contatti con le strutture CIMIC (Cooperazione Civile Militare o CivMil) a Mitrovica, nell’occasione del progetto specifico dei Dialoghi di Pace del 2005, e come ho avuto ancora una volta modo di sperimentare anche qui a Gorazdevac, dove, per giunta, la situazione specifica è ancora più caratterizzante, dal momento che siamo nell’area di Pec/Peja, direttamente posta sotto il comando della Kfor Italiana, e nello stesso villaggio, appunto Gorazdevac, dove era precedentemente ospitata una base militare italiana, poi trasferita a Villaggio Italia.
Si intrecciano qui contenuti psicologici ed altri di natura decisamente più tecnica: e sono probabilmente i contenuti psicologici quelli che, per così dire in maniera pre-cognitiva, determinano l modalità della propria relazione con le strutture militari, nel senso che l’immagine di omologazione che produce la divisa e quella di negazione della pace che comporta la presenza delle armi, talvolta anche ostentate e comunque sempre a vista, è cerante un condizionamento potente ed una chiara evidenza del carattere non certo pacificatore della presenza militare, in particolare di quella italiana in Kosovo. Sovente si sente ripetere la tiritera degli italiani “brava gente” oppure dell’esercito italiano ben visto dalle popolazioni locali perché, per qualche strano ed insondabile motivo, “diverso dagli altri”, oppure del ruolo positivo delle nostre truppe, quello che loro chiamano “opera di stabilizzazione” e che invece altro non è che esautoramento da parte della componente militare di compiti, professionalità e funzioni che sarebbero viceversa propri della cooperazione civile, come quelli dello “institutional building”, piuttosto che della predisposizione infra-strutturale oppure ancora della tutela dei diritti umani e del lavoro di formazione.
Si tratta evidentemente, di aggiornare l’agenda del lavoro di cooperazione, sulla base di una impostazione focalizzata sul civile, che si doti cioè delle risorse necessarie per confinare la relazione con il militare alla sola protezione di sicurezza in caso di stretta necessità.
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