martedì 10 gennaio 2012

Mitrovica Nord, Mitrovica Sud

Una missione di assessment è prima di tutto una missione di esplorazione, di ricognizione e di mutuo riconoscimento: è importante per quanto attiene alla definizione delle coordinate ed alla corretta impostazione del lavoro progettuale per l’esercizio che si intende aprire e sviluppare, e lo è soprattutto perché consente di determinare quel reciproco riconoscimento tra la soggettività espatriata dell’operatore in loco di progetto e le condizioni oggettive del contesto che si è individuato quale destinatario dell’implementazione progettuale.
Questo reciproco riconoscimento, che più formalmente possiamo anche chiamare una sorta di verifica delle condizioni generali e di quelle specifiche di fattibilità di progetto, inerenti cioè alla rispondenza tra il profilo progettuale e le pre- condizioni (oggettive) e i bisogni (soggettivi) di quelli che si sono individuati quali i referenti ed i destinatari dell’implementazione progettuale medesima, può evidentemente riservare delle sorprese: non essere semplicemente scontato o anche rivelare aspetti ambigui e controproducenti di una realtà che, in effetti, non si è mai conosciuta fino in fondo fintantoché non la si è vissuta – e vissuta pienamente.
Capita cioè di essere fortunati (o semplicemente di essere stati accurati nella identificazione di tutte le variabili che devono corrispondere alle diverse linee della identificazione e denominazione progettuale) e quindi di verificare la corrispondenza tra le previsioni di attività del proprio draft e i bisogni effettivamente emergenti dal contesto e dai destinatari locali; ma può anche capitare la circostanza avversa, prodotta o da una non corretta verifica delle disponibilità e delle proposte, o da un mutamento repentino degli eventi che alteri a tal punto la situazione di contesto da differenziare (o semplicemente differire) la proposta progettuale così come la si era individuata.
Se per assessment, verifica preliminare e ricognizione di fattibilità, dunque, si intende tutto questo, entrando in gioco in codesto agone tanto i profili soggettivi quanto le condizioni oggettive, allora è evidente che l’accuratezza con cui si viene svolgendo questa disamina diventa una misura anche dell’attenzione e del rispetto, se si vuole, con cui si guarda al contesto locale, ai suoi drammi e alle sue contraddizioni (ma anche alle sue risorse, sia materiali sia umane, e alle sue potenzialità); ed è altrettanto evidente che ogni contesto “bersaglio” riserva le sue sorprese e le sue specificità, ovvero, in altre parole, che non esistono profili di fattibilità identici o immediatamente esportabili (e, del resto, quella della esportazione dei modelli è un pratica storica della cattiva cooperazione, che, almeno, tuttavia, è servita a fare scuola ed a insegnare a non ripetere nel presente e nel futuro gli errori del passato) e soprattutto che ogni contesto è storia a sé.
Storia in questo senso, si intende con tutto quello che può tale termine rappresentare: storia, cioè, in senso proprio e figurato, come dinamiche di guerra e di conflitto, specificità di contesti regionali e macro-regionali e individualità di costumi sociali, religiosi e culturali che rendono ogni situazione così diversa e, per tanti aspetti, così affascinante. Se tutto questo è vero in generale è ancora più vero, anzi, doppiamente vero, in Kosovo, che ti mostra a ogni ripresa i suoi volti più apparentemente assurdi e comunque problematici: e se un assessment è una ricognizione problematica in sé perché punta a mettere in evidenza i profili di problematicità che caratterizzano un contesto o che comunque potrebbero incidere in maniera significativa sul coretto esercizio progettuale, un assessment in Kosovo, e, nello specifico, a Mitrovica, è doppiamente problematico, perché tutto qui è duplice, diviso e tagliente nello stesso tempo.
Mitrovica, come città, contesto urbano e sistema sociale al tempo stesso, è da questo punto di vista esemplare, e se si vuole è proprio questo quello che ha determinato la scelta a monte, per il progetto “Dialoghi di Pace” prima e per quello di “IntegrAzione PsicoSociale” adesso, di abitare il conflitto e di essere al centro della realtà che è l’epicentro, in Kosovo, del conflitto e della divisione, la terra dove divampa sempre, quando divampa, la prima scintilla, del conflitto o della rappresaglia. Luogo simbolo di mille steccati e di mille divisioni, mentali prima ancora che fisiche, Mitrovica è capace di accoglierti come un Giano bifronte con i suoi due volti adagiati al di qua e al di là del fiume Ibar che scorre apparentemente placido sotto questo planare di apparente e rituale “normalità”.
Mitrovica nord e Mitrovica sud si combattono e si frappongono come in una partita a scacchi, una guerra di nervi che, apparentemente sempre meno giocata al calor bianco, si sviluppa invece adesso come una sottile guerra psicologica, che mette in campo tutte le armi, del ricatto e della persuasione, della rivendicazione e della minaccia (sovente anche violenta, e sempre e comunque aggressiva) per accampare i propri diritti divisi, dalla storia e dalla guerra, prima ancora che da troppe responsabilità ed errori, interessi e contrapposizione dei cosiddetti “internazionali”.
A nord il volto è quello degli striscioni della propaganda, delle musiche nazionaliste e di un’incessante giaculatoria di slogan inneggianti alla sacralità della terra madre della nazione serba, e alla vita della Serbia nazione, oggi persino all’intervento in forze dei Russi, di cui si invoca il sostegno perché non sia “regalata agli albanesi” la terra culla della propria civiltà.
A sud, il tempo scorre viceversa lento, troppo lento per chi vorrebbe immediatamente indipendenza e libertà, all’arrembaggio degli ultimi lembi di un Kosovo indivisibile che, tuttavia, sembra, sempre più, una inesprimibile chimera, prima ancora che un irresolubile rompicapo.

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