Appena arrivato in Kosovo mi si slarga davanti un panorama - ambientale e sociale - profondamente ricco di senso. Intanto non posso fare a meno di soffermarmi sin dall’inizio sulle coincidenze che accompagnano questo mio intenso ritorno in terra kosovara.
Ad esempio, l’accoglienza che mi era stata destinata al momento di intraprendere il volo su Pristina è la stessa che mi capita di incrociare appena arrivato a destinazione e reca i colori del vessillo sloveno: è la prima bandiera delle tante piantate sui blindati della Kfor che, nel medesimo primo giorno di permanenza, come già immaginavo sarebbe successo per tutti i successivi, mi sarebbe capitato di incrociare.
Gli auto-blindo della KFOR ancora oggi rappresentano una costante del panorama kosovaro: intanto perlustrano il territorio e determinano la punteggiatura lungo le strade della regione, che, da parte loro, continuano a recare i simboli di una improvvisata fauna che accompagna il viaggiatore ai quattro angoli di questa terra romboidale. E così ci capita immediatamente di svincolare per la “strada del cane” appena imboccata la direzione, superata la zona dell’aeroporto, da Pristina a Pec/Peja, direzione dalla quale avremmo poi preso per Gorazdevac, meta di questo primo trasferimento.
E poi costellano tutti i presidi della ordinaria amministrazione di questa martoriata regione: con esiti non così soddisfacenti – a dire il vero – se solo si sta ai racconti dei tanti cittadini serbo-kosovari che, sin dal primo giorno, ci sarebbe capitato di incontrare e che, a turno, avrebbero avuti tutti una parola di deplorazione per l’inerzia di questi soldati della cosiddetta “comunità internazionale”, stranamente o colpevolmente assenti, a seconda delle narrazioni, nelle circostanze più drammatiche del conflitto, sia che si trattasse della fase del rientro della comunità serba dopo la fine dei bombardamenti “occidentali” sia che si trattasse delle piccole e grandi contrapposizioni che nel corso del tormentato dopo-guerra hanno a più riprese insanguinato la regione, come ad esempio nel caso, tristemente famoso, degli scontri di Mitrovica del “17 marzo” (2004), cui va immediatamente il pensiero, come è facile immaginare, man mano che il mio amico albanese-kosovaro mi guida verso la destinazione di Gorazdevac.
Un pensiero ricorrente che fluisce anch’esso lungo le linee della divisione etnica che ancora caratterizza il Kosovo: intanto perché nel distretto di Mitrovica si svolgerà l’ultima parte di questa missione di start-up e lì mi troverò a far convergere gran parte delle esperienze che avrò accumulato nel corso della permanenza presso l’enclave di Gorazdevac; e quindi per la vicinanza, relazionale e spirituale, che gli amici dell’AfPK@ hanno verso tanti giovani che costituiscono parte importante della aggregazione di 800 anime o giù di lì che ancora abitano nell’enclave ed ai quali non hanno perso occasione di ricordarmi di portare i rispettivi saluti. A Gora, tuttavia, l’accoglienza è del tutto diversa.
Se lungo la “strada del cane” l’impressione del panorama circostante era quella di un simulacro di Stato che non si sa bene sulla base di quale presupposto materiale potrebbe auto-sostenersi, all’ingresso dell’enclave di Gorazdevac l’impressione è quella di un micro-cosmo miracolosamente aggrappato a sé stesso, in una dimensione, appunto, di sospensione autarchica, che mi sarebbe risultata del tutto chiara solo in seguito, quando avrei avuto finalmente modo di ascoltare i primi racconti di alcuni anziani della comunità locale e del loro senso di spaesamento e di frustrazione, ma anche di fatalismo e di accerchiamento che bene traducevano in esperienza di vita reale questa mia sensazione iniziale di un mondo a sé, visibilmente senza prospettive.
Qui, d’altro canto, la semantica delle prospettive è permanentemente cangiante ed all’inizio anche il riverbero della memoria può incappare in qualche difficoltà nel riconnettere trame solo apparentemente evidenti: ad esempio nella circostanza del singolare contrasto che produce la scoperta della bandiera slovena che sostituisce quella romena, che vi campeggiava nell’ormai evidentemente lontano 2005, sugli auto-blindo a custodia e a protezione (a seconda delle circostanze) della comunità serba nell’enclave, rispetto a quanto aveva precedentemente raccontato il mio amico alla guida della macchina che dall’aeroporto mi avrebbe condotto a destinazione, storie di un Kosovo pressoché tranquillo, in cui anche le missioni di accompagnamento provavano a tramutarsi in amministrazione ordinaria della interfaccia locale ed episodi di violenza specifica diventavano sempre più rari, anche a considerare l’evidenza di un certo numero di serbi dell’enclave che avrebbero cominciato a spostarsi con relativa tranquillità nella città capoluogo, Pec/Peja.
Una novità singolare che avrebbe ben presto registrato le sue prime contro-prove nella circostanza dei racconti degli anziani del villaggio e dell’impossibilità, da loro comunicataci, di sposarsi liberamente in città o di altrettanto liberamente fruire dell’assistenza all’ospedale cittadino, costringendoli così all’estenuante “viaggio della speranza” alla volta di Mitrovica, che ancora si sarebbe affacciata come punto di riferimento, e, di concerto, baluardo simbolico, della comunità serba del villaggio. In Kosovo nulla è univoco e l’azione delle semantiche divergenti è sempre in funzione: se una cosa si è conservata, penso ancora, è certamente la separazione della memoria e, portata da questa, dei vissuti.
Nessun commento:
Posta un commento