Basterebbe raccontare l’epopea del viaggio da Gorazdevac a Mitrovica per rendere chiaramente conto della problematicità della situazione qui in Kosovo, soprattutto per quanto attiene a quello che sempre più può essere considerato come il problema fondamentale che da tante parti è emerso lungo la narrazione di questo diario: quello della “sloboda kretanja” o “libertà di movimento”.
E’ anzitutto un tema politicamente sensibile: perché attiene ad una delle libertà civili fondamentali soprattutto per quello che riguarda la parte serbo-kosovara, la quale, vivendo enclavizzata, è quella che maggiormente patisce le difficoltà di movimento all’interno del Kosovo; ma soprattutto perché allude a quel parossistico sistema di menzogne e di dissimulazioni che è oggi il teatrino politico kosovaro in cui la direzione politica maggioritaria si ostina a sostenere che “grandi progressi si vanno realizzando sulla questione degli status”, che le condizioni di vita delle minoranze migliorano sensibilmente e che il Kosovo è ormai pronto per l’esame delle democrazie occidentali e della comunità internazionale, quando basterebbe provare a fare uno spostamento tra le comunità serbe dell’interno per rendersi conto che la situazione è ben lontana da come viene narrata e che per questo ha buon gioco una certa propaganda nazionalista serba nello spingere verso la disaffezione, il rancore se non, addirittura, ipotesi di separazione etnica “istituzionalizzate”.
Una esperienza di viaggio all’interno della regione, come quella che è appunto capitata a me nell’occasione del trasferimento da Gorazdevac a Mitrovica: su un bus di linea, un modo relativamente comodo e sicuramente economico per viaggiare all’interno del Kosovo; ma che, già problematico di per sé, può trasformarsi in una autentica odissea se si tratta di spostamenti riguardanti la comunità serba. Il pullman arriva relativamente puntuale (con appena quindici minuti di ritardo sull’orario previsto) in quella che la presenza militare italiana, con un’improntitudine un po’ spaccona e un po’ neo-coloniale, ha inopinatamente ribattezzato “Piazza Italia”, nel cuore del villaggio e si riempie ben presto, dopo appena le prime tre fermate, che sostanzialmente lo portano a toccare tutto il circondario delle enclavi serbe del distretto occidentale di Pec/Peja: non solo Gorazdevac, dunque, ma anche Belo Poljie e Siga Brestovik, tra sbuffi di fumo e strade tortuose.
Ed il viaggio non smette di rivelare indicative sorprese: intanto viaggio scortato da una macchina della polizia internazionale dell’UNMIK e come me tutti quelli che viaggiano sui pullman che trasportano persone serbe da un posto all’altro del Kosovo non solo sono costretti all’amara corvee del viaggio sotto scorta armata in quello che è (anche) il loro paese ma anche alla rabbuiante esperienza di evitare il percorso principale e di inerpicarsi invece per una vi secondaria che costeggia il fronte montuoso al confine con il Montenegro ed arriva fino alla città di Mitrovica che attraversa da sud a nord, passando peraltro per il ponte secondario – quello che si trova a margine dello stazionamento degli auto-bus, che ben presto avrei imparato costituire uno dei punti di riferimento fondamentali nell’improvvisata toponomastica della città.
Mitrovica mi accoglie esattamente come mi aspettavo e come la aspettavo: una città sotto un cielo metallico di nebbia e pioggia battente, vista dal crocevia del piazzale della posta principale della città – che è un altro dei punti di riferimento essenziali - dove aspetto Sokol che mi venga a prendere per l’accoglienza, l’assegnazione della camera che mi tocca e infine una prima perlustrazione delle novità e dello specifico proposto dal nostro progetto, perché non abbiamo molto tempo a disposizione e la settimana (l’unica settimana disponibile, con i fondi di budget utili, per questa ricognizione preliminare) sarà davvero assai intensa.
Ma soprattutto mi accoglie una Mitrovica quasi identica a come l’avevo lasciata e del tutto corrispondente a come l’aspettavo: una città divisa, due città in una, con il ponte sul fiume Ibar questa volta definitivamente chiuso al traffico ordinario che non siamo amministrativi, militari o internazionali e una marea di controlli di polizia che, sin dall’inizio trovo molto più numerosi, rigidi ed ostili di quelli che avevo imparato ad apprendere appena due anni prima. E poi, per il resto, la solita città divisa: con una nuova sede del partito di Kostunica che ha da poco aperto a nord a ridosso del ponte (ove intanto sembra si siano moltiplicati i bridge-watcher, questa sorta di polizia politica informale che registra i passaggi e gli attraversamenti del ponte ed osserva attentamente la situazione, su mandato non si sa bene di chi), dove fanno bella mostra di sé anche lo striscione con lo slogan elettorale di Kostunica “Che viva la Serbia!” e una bella bandierona russa che invoca l’intervento dei fratelli slavi per risolvere il contenzioso sulla regione; e una moltiplicazione di automobili e di traffici nella città meridionale, che ricordavo certamente caotica ma non a questo livello, dove è tutta una frenesia di autoblindo di UN di passaggi in rassegna di militari della KFOR francese (ormai assai poco ben vista sia da una parte che dall’altra) e una pioggia di manifesti e cartelli inneggiati all’ultima manifestazione “oceanica” per l’indipendenza.
Ordinaria amministrazione del Kosovo diviso, e per fortuna interviene ben presto Sokol, e, nel corso della giornata, anche Advjie e Naser a illustrarmi le novità e le nuove minacce. Un inizio intenso, e c’era da aspettarselo…
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