martedì 10 gennaio 2012

Cinque cose che sono più chiare stando in Kosovo ...

La permanenza in Kosovo ti insegna molto: ti immerge in una realtà che ha tratti sorprendentemente vicini a quelli che puoi riscontrare in alcune località del Mezzogiorno d’Italia e che non fai fatica a riconoscere (da un certo familismo ai tempi di vita e di lavoro) e ti inducono a riflettere; e poi perché ciò che caratterizza più del resto questa terra è quello di essere una meravigliosa e verde terra, terra di conflitto, costellata di edifici distrutti e strade dissestate, ma anche terra di contatti e di relazioni, di una umanità calda ed accogliente.
Mi sento fortunato per essermi soffermato a lungo a riflettere sulle evidenti contraddizioni che il Kosovo ed i kosovari (ma guai a chiamarli così, soprattutto dalla parte serba, visto che il Kosovo sembra più che altro un’entità metafisica, ciascuno rivendicando la sua nazionalità albanese o serba) manifestano; ed ancor di più per essermi trovato a vivere da vicino alcuni frangenti della sua storia recente (dapprima con la formazione della primavera 2005; quindi a Mitrovica nel giugno successivo e infine, per questo start up di progetto per Corpi Civili di Pace, tra Gorazdevac, Pristina e Mitrovica nel maggio 2007).
Si tratta adesso di un passaggio significativo: il giorno in cui ho messo piede a Pristina, una delegazione del Consiglio di Sicurezza scendeva nella capitale per una ricognizione sullo status basata sul piano Aathisari e appena un giorno prima un membro della comunità serba di Gorazdevac veniva aggredito da estremisti albanesi lungo la strada che porta in città.
Appena di lì a qualche giorno, avremmo provato in team a fare visita al patriarcato serbo-ortodosso di Decani (nel distretto di Pec/Peja), ma senza successo, se non quello, non irrilevante però, di richiamarmi alla memoria un po’ di ricordi ed impressioni del giro fatto due anni addietro, che rappresentò per me un momento di consapevolezza.
Ri-evocando, per di più, quelle quattro/cinque cose che ho appreso del Kosovo. Ecco allora una piccola guida di amenità kosovare, utile per il viaggiatore imprudente e per il lettore curioso:
1. Kosovo? Non esiste, ma guai far capire di averlo capito. In realtà, neanche il nome corrisponde: per gli albanesi è Kosova, per i serbi Kosovo i Metohia… ma qualcuno non esiterà a rispondervi che “Kosovo è Serbia” (e non nel senso del riconoscimento dettato dalla Risoluzione 1244 …). Per di più, i kosovari stessi non si riconoscono come tali: i serbo-kosovari sono serbi, gli albanesi-kosovari albanesi, è quasi sempre così. E tuttavia i primi rivendicano questa terra come cuore della propria nazione (ma sono un po’ considerati serbi di serie B nella madrepatria) e per i secondi o sarà indipendente o non sarà: Stato, dunque, con tutti gli attributi di sovranità (meno evidentemente quello di circoscrivere un popolo costituitosi come tale…).
2. Le cifre qui sono come tutto il resto: variano a seconda della convenienza politica. E lo stesso vale per le etnie. Cominciamo dai numeri: due milioni di kosovari di cui un 200 mila, non di più, da spartirsi tra le comunità non albanofone, secondo gli albanesi; “qui i serbi non sono mai stati meno del 20%”, secondo i medesimi; e poi ciascuno a rivendicare i propri rapporti di vicinato con tutti gli altri, che non sono pochi né irrilevanti: “con i serbi non hanno mai avuto grandi rapporti”, “ possono venire solo nelle nostre scuole, perché gli albanesi li considerano collaborazionisti”, dicono gli uni e gli altri dei rom. E non è l’unico caso…
3. …ma poi: chi sono i Rom? Anche su questo aspetto, ognuno ha la sua. L’unica cosa certa è che, tra le comunità che abitano il Kosovo, dopo gli albanesi ed i serbi, sono la più rilevante, e, ad oggi, quella che paga il prezzo più alto della situazione. I Rom sono una comunità stanziale, registrata durante il periodo titino, a loro volta distinti al loro interno per ragioni di origine (o di religione). Talvolta la distinzione varia nel giro di qualche decina di chilometri: così gli Egiziani, a Mitrovica sono Rom, a Pec/Peja una comunità a sé…
4. A proposito di comunità: guai a dare ai serbi lo status di minoranza. Ovviamente lo sono, pur se con tutte le inestricabili variabili di cui sopra, ma sono in realtà gli storici abitatori di queste lande e –soprattutto – l’ultimo baluardo della cristianità contro le popolazioni di religione islamica. Sono una comunità costituente, come si direbbe a Cipro: peccato che però pochi se ne siano accorti, e la comunità internazionale sembra non abbia altro desiderio che quello di “fargliela pagare”, per colpe ed errori commessi da altri…
5 Magari tra “meridionali” ci si capisce, e poi Mezzogiorno (nel senso di Meridione) in serbo-croato (oggi solo serbo, vista la parossistica riforma linguistica di Tudjiman) si dice Yug, e qui della Yugoslavia, di Tito e del Socialismo non ne trovi uno (dico uno, anche tra gli albanesi, magari pronti alla riprovazione verso il socialismo di Hoxha, mai di quello titino) disposto a parlare male. C’è di che riflettere e le affermazioni non si contano: “quando c’era la Yugoslavia avevo tanti amici albanesi” (o serbi, dipende da dove ti trovi), “prima lavoravamo e stavamo bene, adesso ci sono migliaia di disoccupati e non c’è da mangiare” (letteralmente, me lo sono fatto tradurre più volte per fugare ogni dubbio, e girando per villaggi ti rendi conto che è proprio così), e via discorrendo.
I tempi di vita e di lavoro sono lenti, qui: tra caffè e chiacchierate il tempo scorre senza frenesie. Solo la comunità internazionale sembra avere fretta, la fretta di dimostrare di essere in grado di brillantemente condurre questo esperimento, come dicono loro, di “state building”.
A qualcuno salterà alla testa che uno stato prima c’era e che tutti, ma proprio tutti, lo rimpiangono?

Nessun commento:

Posta un commento