martedì 10 gennaio 2012

il Cosa e il Come

Appena arrivato a Gorazdevac, mi sono immediatamente immerso nel lavoro. O forse bisognerebbe dire che sono stato completamente immerso; e poi che questo coinvolgimento è stato fin dall’inizio integrale, sia sul piano emotivo, sia su quello professionale.
Intanto per il fatto di collocarmi sin dall’inizio in una situazione interna ed esterna completamente “allofona”, i contatti ed i colloqui avvenendo infatti nella lingua della comunità locale (il serbo) e le attività e gli incontri svolgendosi anche all’interno delle mura domestiche, che fanno di volta in volta da casa e da ufficio.
E quindi per il fatto di un registro delle attività complessivamente sintonizzato in una dimensione linguisticamente e culturalmente diversa da quella di provenienza, con il risultato di scandire l’impostazione del lavoro di trasformazione nonviolenta sui ritmi e i tempi dell’impostazione mentale, concettuale e culturale, propria del contesto locale, all’interno di una sfera di riferimenti semantici sostanzialmente digiuna delle pratiche e dei riferimenti che animano il lavoro della trasformazione costruttiva.
Non è forse inutile ricordare quale distanza separi il lavoro dei “cosiddetti occidentali” dalle comunità locali, non solo in termini di pratiche, ma anche di universi ed approcci di riferimento, i quali ultimi fanno capo a tecnologie della trasformazione di rigida impostazione concettuale, tipicamente afferenti ad un portato e a sovrastrutture non immediatamente trasferibili e sedimentabili all’interno della realtà del contesto ospitante.
Questa interrogazione potrebbe comportare una riflessione che potrebbe condurci lontano: pensiamo solo alla metodologia dell’ascolto attivo e del messaggio-io in un realtà in cui i legami sociale ed interpersonali sono tutti di tipo comunitario, e si svolgono pertanto sulla base di una impostazione patriarcale e gerarchica; piuttosto che all’impostazione pratica e strategica della nonviolenza (e, in particolare, della trasformazione nonviolenta) in un contesto in cui non solo i rapporti sono sovente impostati sul codice della violenza e del familismo (che in molte circostanze ne fa da presupposto ovvero da corollario) ma in cui, specificamente, il tessuto socialista è stato smantellato e l’orizzonte della trasformazione dei rapporti sociali sembra avere ormai lasciato il posto ad un cupo avvenire, dissolvente (ma talvolta anche dissoluto, per non dire regressivo, nei rapporti tra i sessi, ad esempio) e fatalista.
E’ in un contesto di questo genere, che fa riferimento alla situazione reale dell’enclave di Gorazdevac ma che potrebbe indicare anche numerose altre realtà comunitarie chiuse in contesti di conflitto sociale e separazione etnica, che si tratta ora di sviluppare anche una impostazione metodologica, per non dire una strategia complessiva, all’interno della quale situare anche i percorsi della nostra azione.
I pilastri sono tre: condivisione, protezione e riflessione. Questo per procedere con parole chiave, le quali, come tutte le parole chiave, si riferiscono anche a percorsi di elaborazione e di iniziativa. In definitiva, nell’ottica del lavoro che si viene svolgendo qui a Gorazdevac, “condivisione” vuole dire il consolidamento di una rete di legami personali stabili con le persone della comunità, a partire dal loro essere persone, che nell’esercizio di una frequente condivisione possono imparare a riconoscere meglio i propri vissuti, a far maturare la loro esperienza e la loro percezione soggettiva delle cose, ma anche, in particolare, a metterli in contatto con una realtà altra, diversa dalla loro, nel nostro caso di provenienza internazionale, a sua volta sempre più in grado di affinare la propria sensibilità e la propria capacità di esporsi e mettersi in gioco e in relazione.
Significa, in una parola, favorire la partecipazione senza, altresì, incoraggiare la dipendenza, dal momento che le visite di sostegno, di condivisione e di scambio sono funzionali all’elaborazione personale e relazionale dei vissuti e non al trasferimento di questi, o, peggio ancora, di beni o servizi. “Protezione” significa invece l’esercizio della funzione dell’accompagnamento protettivo, che, già ampiamente teorizzata e sviluppata anche dal modello delle PBI (Peace Brigades International) che fa riferimento all’esperienza maturata in India dallo Shanti Sena (Corpi di Pace), antesignano di alcune delle migliori esperienze, nonviolente di ispirazione gandhiana, di corpi civili di pace, viene applicata nelle diverse circostanze in cui sia necessario accompagnare persone della comunità serba del villaggio nella città di Pec/Peja, che è invece a stragrande maggioranza albanese e dove, purtroppo, non pochi sono ancora oggi gli episodi di intolleranza, di aggressione e di violenza perpetrati contro esponenti della comunità serba.
Occasione di accompagnamento è stata per me quella, preziosissima, offerta dalla prima delle lezioni di lingua serba ed albanese gestite dal gruppo di studio sull’elaborazione del conflitto, che si sarebbe tenuto il 5 maggio nella sede del Tavolo Trentino con il Kosovo, a Pec/Peja, occasione nella quale siamo andati prima a prendere alcuni dei partecipanti nel villaggio serbo di Belo Polje e quindi li abbiamo accompagnati fino alla città, sperimentando in tal modo il clima e la metodologia dell’accompagnamento protettivo di cui avevo già avuto modo di apprendere strategie e dinamiche nella circostanza della formazione in Italia, tenuta a dicembre. Infine, terza, ma strettamente connessa alla precedente: “riflessione” , che è quella costantemente sperimentata nella realizzazione dei gruppi di studio sulla elaborazione del conflitto.
E’ questa una circostanza preziosa, che offre ad ogni riunione lo spunto importante di una riflessione sulle possibilità e le speranza dei giovani di superare il passato e non ripetere gli errori dei rispettivi padri.

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