sabato 31 dicembre 2022

Un governo di estrema destra in Israele

Ami Ventura, Arbel dal Lago di Tiberiade, CC BY-SA 3.0, Wikimedia Commons

 

Lo scorso 29 dicembre ha ottenuto la fiducia alla Knesset e si è dunque insediato, nel pieno delle proprie funzioni, il nuovo governo di Israele, il sesto guidato da Benjamin Netanyahu e soprattutto, dato politicamente più rilevante e preoccupante, il più radicalmente a destra nella storia di Israele. Al di là delle forze politiche che compongono la maggioranza e delle personalità che formano la compagine governativa, infatti, sono proprio i contenuti politici e gli orientamenti programmatici a indicare questa traiettoria, a segnare, cioè, quella che intende essere la direzione del prossimo gabinetto.

Nel suo discorso per la fiducia alla Knesset, il primo ministro Netanyahu ha indicato i tre «obiettivi nazionali» del nuovo governo che, insieme con gli accordi di coalizione con i partiti della maggioranza, delineano la base politica e la traiettoria ideologica dell’esecutivo: proseguire e rafforzare la strategia e le misure volte a impedire che l’Iran possa dotarsi di dispositivi nucleari; progettare e realizzare una infrastruttura ferroviaria di alta velocità capace di unire da un capo all’altro l’intero territorio di Israele; ampliare il numero di Paesi arabi coinvolti negli accordi bilaterali sul modello degli «Accordi di Abramo»; insieme con questi, altri due obiettivi messi in luce sono quelli di rafforzare la sicurezza, con un vero e proprio programma securitario, e impegnarsi per ridurre il costo della vita e migliorare la qualità della vita in Israele.

Un programma che non nasconde, letto con altri documenti e dichiarazioni, carattere e intenzioni del governo, tanto è vero che il nuovo portavoce della Knesset, il presidente del parlamento, Amir Ohana, è intervenuto nel suo discorso proprio sul tema dei diritti delle minoranze, sottolineando che il nuovo governo «non colpirà un solo bambino o una singola famiglia», cercando così di placare il dibattito, aperto nel Paese, circa i timori di possibili interventi da parte del governo contro i diritti delle comunità LGBT e delle minoranze su iniziativa delle forze più oltranziste, ultraortodosse e della destra estrema.

Una preoccupazione più che fondata, se è vero che persino il capo dello stato, il presidente israeliano Isaac Herzog, è intervenuto per sottolineare che «una situazione in cui i cittadini in Israele si sentano minacciati a causa della loro identità o del loro credo mina i valori democratici fondamentali dello Stato di Israele». «I commenti bigotti ascoltati nei giorni scorsi contro la comunità LGBT e contro gruppi e settori diversi della popolazione israeliana sono fonte di preoccupazione», aggiungendo di essere pronto a «fare tutto quanto in proprio potere per prevenire siano colpiti i diversi segmenti della popolazione».

Un governo, insomma, sul quale esercitare una vera e propria vigilanza democratica, come emerso anche da altri interventi dalle forze dell’opposizione. Non a caso, la scintilla che ha fatto esplodere la protesta, che pure era viva, ben conoscendo storia e orientamento delle figure più discusse entrate a fare parte del nuovo governo, è stata una recente dichiarazione di Orit Strock, secondo la quale addirittura «se a un medico viene chiesto di prestare un qualsiasi tipo di trattamento a qualcuno, che violi la sua fede religiosa, se c’è un altro medico disposto a farlo, allora non puoi costringerlo a fornire cure»; inoltre «le leggi contro la discriminazione sono giuste quando creano una società giusta, equa, aperta e inclusiva, ma c’è una certa deviazione, a causa della quale la fede religiosa viene calpestata, e vogliamo correggere questo aspetto».

Orit Strock è oggi ministra delle Missioni Nazionali e componente di Sionismo Religioso, insieme con Otzma Yehudit (Potere Ebraico) una delle formazioni estremiste più oltranziste che compongono il governo. Quanto alla composizione complessiva, sui ventisette dicasteri di cui il governo è formato, quindici sono appannaggio del Likud, il partito del primo ministro, che, proprio con Netanyahu, sempre più si è spostato su posizioni di «destra-destra»; quattro sono appannaggio dello Shas e uno di Giudaismo Unito della Torah; a Sionismo Religioso tre ministeri, tra cui quello delle Finanze per il suo leader, Bezalel Smotrich, e altri due, assai delicati, all’Immigrazione e, appunto, alle Missioni Nazionali; a Potere Ebraico tre ministeri, tra cui quello strategico alla Sicurezza Nazionale per il suo leader, Itamar Ben Gvir, e altri due, pure strategici, a Gerusalemme e allo sviluppo delle periferie, del Negev e della Galilea. Per quanto riguarda l’altro aspetto, legato alla sicurezza nazionale, il governo si propone, in base agli accordi di coalizione, di «rafforzare le forze di sicurezza e garantire sostegno a soldati e agenti di polizia nel combattere e sconfiggere il terrorismo».

È ancora il Jerusalem Post a fare riferimento agli accordi di coalizione che delineano gli orientamenti del governo: «La nazione di Israele ha diritto naturale alla terra di Israele. Alla luce della fede in tale diritto, il primo ministro formulerà e promuoverà politiche nel cui quadro la sovranità sarà applicata a Giudea e Samaria»; il governo ha inoltre promesso di rafforzare lo status di Gerusalemme, sottolineando l’importanza di preservare e sviluppare una Gerusalemme unita quale capitale sovrana di Israele, aspetto, tuttavia, in violazione del diritto internazionale, secondo il quale, come ribadito dalla Corte Internazionale di Giustizia (2004), sono territori occupati tutti i territori tra la Linea Verde e il Giordano (compresa Gerusalemme Est), in relazione ai quali Israele è definita «potenza occupante» e viene ribadito il regime previsto dalla IV Convenzione di Ginevra.

Come ha ricordato (2020) anche il Relatore Speciale sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967, «gli insediamenti israeliani sono considerati dal Consiglio di Sicurezza nella Risoluzione 2334 una «flagrante violazione del diritto internazionale». Violano la IV Convenzione di Ginevra e sono un presunto crimine di guerra ai sensi dello Statuto di Roma del 1998. Gli insediamenti sono anche fonte significativa di violazioni dei diritti umani e un serio ostacolo al diritto dei palestinesi all’autodeterminazione».


giovedì 13 ottobre 2022

Manifestare per la pace

 

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Manifestare, assumere un’iniziativa, scendere in piazza per la pace, meglio ancora, si può dire, «contro la guerra e per la pace», è opportuno, necessario, importante. Opportuno, anzitutto, perché occorre dare voce ed espressione, tangibile e visibile, a quella larga maggioranza del popolo italiano che si è espressa e continua a esprimersi contro la guerra, con specifico riferimento alla guerra più recente, quella che oppone la Russia e la NATO in Ucraina. Come ha riportato, lo scorso 15 luglio, un articolo di antimafiaduemila, «dal 20 maggio all’8 luglio gli italiani che ... pensano che bisognerebbe continuare a inviare armi a Kiev si attestano su una media del 16%, ... mentre con maggiore favore, tra il 19% e il 31%, è vista l’opzione di mantenere le sanzioni ma smettere di mandare armi. Un dato rilevante ... evidenzia che al netto della percentuale di chi non esprime la propria opinione, la maggioranza relativa degli intervistati auspica il ritiro delle sanzioni e l’assunzione da parte dell’Italia del ruolo di mediazione (tra il 26% e il 28%). Rispetto all’aumento delle spese militari, inoltre, prevale un atteggiamento prevalentemente pacifista dell’opinione pubblica italiana, con un 60% ... in disaccordo con la scelta governativa di aumentare le spese militari, stando alle rilevazioni periodiche di Emg Different. Le percentuali di quanti invece si mostrerebbero favorevoli a un tale incremento si attesterebbero a un massimo del 30%».

Necessario, quindi, perché sempre più la dinamica della guerra e i suoi effetti economici e sociali, in particolare sui Paesi europei, si stanno rivelando insostenibili, con una escalation di distruzione e di morte sul campo di battaglia e con pesanti ripercussioni sulle economie e sulle società del Vecchio Continente, come emerge dal Report FragilItalia, di Area Studi Legacoop e Ipsos, secondo il quale «rispetto a inizio anno aumentano le difficoltà di pagare rate di finanziamenti personali (... 66%), di pagare l’affitto (... 65%) e di pagare il mutuo (... 61%). A pagare il prezzo più alto, i giovani della fascia 18-30 anni (il 76% ha difficoltà a pagare l’affitto), i residenti nel Mezzogiorno, gli appartenenti al ceto popolare (dove l’85% dichiara difficoltà a pagare le rate del mutuo e l’84% i canoni dell’affitto) e medio-basso. Ma sono anche i consumi a risentirne. L’81% (2 punti in più rispetto a inizio anno) dichiara di dover ridurre i consumi, o rinunciarvi, di gas ed energia elettrica; il 75% (4 punti in più) di abbigliamento; il 74% (3 punti in più) di benzina e gasolio; ... il 62% (1 punto in più) di carne. In testa alla lista dei consumi che subiranno drastici tagli o la completa rinuncia si colloca l’abbigliamento (33%), seguito ... dalle scarpe e dal gas ed energia elettrica (entrambi al 29%) e da benzina e gasolio (26%)».

Importante, appunto, perché prendere parola e assumere un’iniziativa contro la guerra e per la pace e, nello specifico del conflitto ucraino, per la fine di tutte le iniziative e le misure utili solo ad alimentare la guerra e la prosecuzione delle ostilità, per la fine della fornitura di armi all’Ucraina e la fine delle sanzioni alla Russia, per la cessazione dell’escalation e un immediato cessate-il-fuoco, per l’apertura di spazi per la soluzione diplomatica del conflitto basata su ipotesi di mutuo beneficio e di reciproca sicurezza (anche sulla base dello spirito dei protocolli di Minsk del settembre 2014 e del febbraio 2015, contemperando i principi di integrità territoriale e di autodeterminazione dei popoli e assicurando uno spazio di sicurezza libero dalla minaccia rappresentata dalle ingerenze USA e NATO sino ai confini della Federazione Russa), significa, al tempo stesso, riportare la logica della pace (del dialogo e della politica, del confronto e della diplomazia) e non la follia della guerra (con cui provare a imporre nuovi disegni egemonici o domini unipolari) al centro della politica e delle relazioni internazionali.

Non di meno, manifestare per la pace, assumere un’iniziativa in direzione del superamento e della trasformazione del conflitto e, in definitiva, della fine della guerra e della costruzione della «pace con mezzi pacifici», comporta anche un’assunzione di responsabilità che interroga, al tempo stesso, la credibilità di chi si fa interprete di proposte di manifestazione e di iniziativa e l’impegno di un’articolazione sociale la più incisiva ed efficace possibile rispetto agli obiettivi delle azioni che si vanno proponendo. Anche per questo hanno suscitato reazioni comprensibilmente contrastanti le proposte di manifestazione sin qui avanzate a livello istituzionale: da quella lanciata, con una recente intervista al Fatto Quotidiano, da Giuseppe Conte per «una manifestazione senza sigle e senza bandiere, aperta a tutti i cittadini che nutrono forte preoccupazione per il crinale che il conflitto in Ucraina sta prendendo», a quella proposta dal presidente della giunta della Regione Campania, Vincenzo de Luca, quest’ultima con l’obiettivo di «un cessate-il-fuoco di un mese, per ridare spazio a organismi nazionali e internazionali, ad autorità religiose e morali, al mondo della cultura, per lo sviluppo di iniziative di pace».

Occorre, viceversa, un’iniziativa di pace sociale e politica al tempo stesso, di ispirazione sociale e di caratura politica, tale da porsi, cioè, nell’ottica di costruire la piattaforma più avanzata possibile capace di mobilitare lo schieramento sociale più ampio possibile, in maniera incisiva e non episodica, alimentando la mobilitazione e facendo politica per la pace, e per la «pace positiva», nel senso della pace, dei diritti e della giustizia sociale. Un segnale in questa direzione, per la platea coinvolta e la tempistica indicata, giunge dall’appello «Non per noi, ma per tutte e tutti» per una manifestazione nazionale il 5 novembre «per la pace, la giustizia sociale e ambientale, contro le diseguaglianze e l’esclusione», in una dimensione «plurale, partecipata, democratica, conflittuale per rimettere al centro la voce dei diritti, contro le disuguaglianze e l’esclusione, per la giustizia sociale e ambientale».

martedì 20 settembre 2022

Una Giornata della pace alla vigilia delle elezioni

そらみみ, Hiroshima Memorial Park, CC BY-SA 3.0, Wikimedia Commons.

Incroci e scadenze del calendario civile hanno dato luogo alla significativa coincidenza per cui la Giornata internazionale della pace (21 settembre) viene a cadere praticamente alla vigilia delle Elezioni politiche in Italia (25 settembre), dopo una campagna elettorale dominata, insieme con quello della prosecuzione o meno della cosiddetta “agenda Draghi” e delle misure legate all’attuazione del PNRR, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, soprattutto dal tema del carovita, della recessione, dell’aumento della bolletta energetica e dei costi a carico dei cittadini, dei lavoratori, e degli attori produttivi in generale, come conseguenza della speculazione inter-nazionale e delle sanzioni imposte dall’Italia e dagli alleati della NATO alla Russia a seguito del conflitto in Ucraina. La coincidenza porta con sé una domanda: si tratta della solita retorica, per cui non si troverà nessuno contrario, a parole, alla pace e a una soluzione politica e pacifica del conflitto, o si possono intravedere elementi concreti che disegnano una proposta, politicamente percorribile, di pace, anche in questa campagna elettorale?

Una possibile risposta alla domanda, canonica, porta con sé, in effetti, un’altra domanda: cosa c’è scritto, sul tema della guerra e della pace, sulla grande questione del nostro tempo, nei programmi elettorali delle forze politiche che si presentano all’appuntamento elettorale del 25 settembre? Per quello che riguarda il Partito Democratico, ad esempio, il sostegno alle politiche in corso e l’allineamento con la NATO sono ribaditi e rivendicati: «Vogliamo che UE, NATO e ONU rimangano le organizzazioni internazionali di riferimento per l’Italia, dove svolgere un ruolo autorevole e da protagonisti. Deve inoltre continuare il sostegno all’Ucraina, insieme all’iniziativa politico-diplomatica congiunta di Germania, Francia e Italia per la fine dell’aggressione e l’avvio di negoziati di pace». Come dire: la NATO sullo stesso piano dell’ONU quali «organizzazioni internazionali di riferimento» e prosecuzione del sostegno (evidentemente anche militare) all’Ucraina. Tale spazio di intervento viene esteso alla UE, della quale si rivendica anche la strategia propriamente militare: «Con l’approvazione della nuova “Bussola strategica”, la UE ha assunto con più decisione la prospettiva della costruzione di una Difesa comune. È un punto che riteniamo decisivo affinché l’Europa sia sempre più influente nel contesto globale».

Sull’altro versante dell’arco parlamentare, Lega e Fratelli d’Italia non hanno posizioni, al di là della propaganda elettorale, significativamente diverse: «L’Italia deve diventare il ponte verso i Paesi terzi a nome della NATO e dell’Europa, assumendo il ruolo come uno dei principali interlocutori dell’Occidente e, in determinate situazioni di conflitto, cooperando con l’ONU per lavorare alle crisi regionali e globali», è scritto nel programma della Lega. Con le proposte, tra le altre, di «promuovere sul fronte della sicurezza continentale una maggiore collaborazione tra eserciti dei Paese europei» e di «recuperare un ordine internazionale liberale, con l’Italia protagonista nel riportare i suoi principi cardine in seno alle sue principali alleanze: NATO e UE». In particolare, «l’appartenenza alla NATO è garanzia di una mutua difesa e richiede un impegno anche in termini di risorse economiche». Senza grandi differenze, nel programma di Fratelli d’Italia, se non con un’accentuazione ancora maggiore: «Pieno rispetto delle nostre alleanze internazionali, anche adeguando gli stanziamenti per la Difesa ai parametri concordati in sede di Alleanza Atlantica. Al fianco dei nostri alleati internazionali nel sostegno all’Ucraina di fronte all’aggressione della Federazione Russa. [...] Promuovere politiche di Difesa comune dell’Unione europea e la costituzione di una «colonna europea» della NATO, pilastri indispensabili per la sicurezza e l’indipendenza del Continente».

Quanto al Movimento 5 Stelle, il programma conferma le due «stelle polari» della politica internazionale: «da un lato, la nostra vocazione europeista, [...] dall’altro, la centralità dell’appartenenza del nostro Paese alla Alleanza Atlantica, la quale resta essenziale al fine di garantire la sicurezza e la difesa del nostro Continente» aggiungendo, in relazione al conflitto in Ucraina, la proposta di «una Conferenza internazionale, ispirata non all’esempio della Conferenza di Yalta, ovvero alla divisione del mondo in blocchi e sfere di influenza, ma piuttosto alla Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa di Helsinki del 1975, che, coinvolgendo anche l’Unione Sovietica, seppe inaugurare una stagione di distensione e un percorso volto al superamento della politica dei blocchi in Europa, creando le basi per un organismo multilaterale di sicurezza quale è l’OSCE».

Fin qui dunque il panorama delle forze che, confermando l’impegno per un rafforzamento anche militare della integrazione europea e una rinnovata rilevanza della NATO nello scenario internazionale, si collocano, con diversi accenti e sfumature, nell’orbita di quello che pure è stato definito il «partito unico della guerra». Al di fuori di questo si collocano, invece, quelle aggregazioni elettorali al cui interno hanno deciso di situarsi le forze politiche da più tempo e con maggiore coerenza impegnate sul versante, in senso generale, di lotta contro la guerra e per la pace. Nel programma della Alleanza Verdi e Sinistra, che comprende Sinistra Italiana ed Europa Verde, «il ripudio fermo di ogni guerra, il faticoso e costante lavoro per la pace, il diritto di auto-determinazione dei popoli, la difesa non derogabile dei diritti umani sono i riferimenti imprescindibili della nostra politica internazionale»; «va interrotto subito l’invio di armi in Ucraina e riaperta la strada del confronto diplomatico».

Qui, pur senza mettere sostanzialmente in discussione il sistema di alleanze internazionali, si richiama l’esigenza di una «moratoria delle spese aggiuntive ... per le nuove spese d’arma» e di una «legge quadro istitutiva dei Corpi Civili di Pace» e per una Difesa Civile Non-armata e Nonviolenta. Sulla stessa falsariga, ma con accentuazioni e caratterizzazioni diverse, il programma di Unione Popolare, che comprende Rifondazione Comunista e Potere al Popolo, che chiede lo «stop immediato dell’invio di armi a tutti i Paesi in guerra e ritiro dei soldati all’estero se non autorizzati dall’ONU, che va rafforzata e sottratta ai veti incrociati delle superpotenze», ma si limita, quanto al sistema di alleanze internazionali, a proporre di «operare per il superamento della NATO» e «operare ... per una riforma in senso democratico delle istituzioni di Bruxelles». Tra le cosiddette, utilizzando la corrente espressione giornalistica, “formazioni anti-sistema”, per quanto riguarda le questioni della guerra e della pace e le politiche internazionali, Italia Sovrana e Popolare, che raccoglie una pluralità di forze politiche diverse, tra cui Partito Comunista e Azione Civile, e formazioni sovraniste, da Ancora Italia a Riconquistare l’Italia, chiede («rigettiamo la presenza della NATO») «l’immediato blocco all’invio di armi al regime ucraino, la promozione di un’opera di mediazione rivolta alla pace, l’interruzione delle sanzioni alla Russia»; «l’archiviazione della stagione dell’unipolarismo atlantista e l’approdo a un mondo multipolare»; «una posizione di neutralità ed equidistanza».

Com’è noto, a proposito della Giornata Internazionale della Pace, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha dichiarato la ricorrenza del 21 settembre una giornata dedicata a consolidare, rafforzare e promuovere gli ideali della pace, anche osservando 24 ore di iniziative per la pace, di nonviolenza e di cessate-il-fuoco nei conflitti in corso. Sono le stesse Nazioni Unite, peraltro, a riconoscere che «conseguire la pace significa molto più che, semplicemente, fare tacere le armi. Conseguire la pace richiede la costruzione di società nelle quali tutti i membri sentano di poter prosperare; riguarda la creazione di un mondo in cui le persone siano trattate in maniera eguale, qualunque sia la loro provenienza etnica. Come ha detto, infatti, il Segretario Generale delle Nazioni Unite, António Guterres: «Il razzismo continua ad avvelenare le istituzioni, le strutture sociali, e la vita quotidiana in ogni società; continua a rappresentare un fattore di persistente diseguaglianza; e continua a impedire alle persone di godere dei propri diritti umani fondamentali. Il razzismo destabilizza le società, minaccia le democrazie, erode la legittimità dei governi; il nesso tra razzismo e diseguaglianza di genere è inconfondibile». Per questo, il tema della Giornata per il 2022 è «Porre fine al razzismo, costruire la pace».

mercoledì 3 agosto 2022

L’amicizia tra i popoli e la costruzione della pace


Unknown camera 10/02/2018 , CC0, https://pxhere.com/en/photo/1531645

Si celebra il 30 luglio la giornata internazionale dell’amicizia, una ricorrenza delle Nazioni Unite con la quale, come segnala la risoluzione istitutiva (risoluzione dell’Assemblea Generale 65/275 del 28 luglio 2011), si invita la comunità internazionale nella sua interezza, tutti gli Stati membri, le organizzazioni del sistema delle Nazioni Unite, e altre organizzazioni regionali e internazionali, come pure la società civile, comprese le organizzazioni non governative e le singole persone, «a celebrare la Giornata Internazionale dell’Amicizia in maniera appropriata, in accordo con le culture e altre circostanze e costumi delle rispettive comunità locali, nazionali e regionali, anche attraverso l’istruzione e attività di promozione di consapevolezza presso l’opinione pubblica», osservando, peraltro, che «attività, eventi e iniziative legate al tema dell’amicizia si svolgono ogni anno in diversi Paesi», a conferma dell’importanza e dell’attualità della questione.

Infatti, per quanto spesso catalogata tra le “ricorrenze dimenticate” del sistema delle Nazioni Unite, la giornata internazionale dell’amicizia è un’occasione assai preziosa per rimettere a tema e sollecitare iniziativa pubblica sulla questione, importante e attuale più che mai, dell’amicizia tra popoli e comunità, della collaborazione e della cooperazione internazionale e, in prospettiva, della costruzione della pace. È ancora la risoluzione dell’Assemblea Generale a richiamare, sin nei suoi paragrafi introduttivi, «la rilevanza e l’importanza dell’amicizia quale sentimento nobile e prezioso per la vita degli esseri umani ovunque nel mondo» e a soffermarsi sul fatto che «l’amicizia tra popoli, Paesi, culture e singole persone può ispirare gli sforzi per la pace e costituisce un’opportunità per costruire ponti tra le comunità, rispettando la diversità culturale». È cioè, la questione dell’amicizia e, in particolare, con essa, la costruzione dell’amicizia tra i popoli e le culture, la realizzazione di progetti e di iniziative per la solidarietà e la cooperazione internazionale, la promozione del legame e della fiducia, uno strumento prezioso del lavoro di pace e degli stessi Corpi civili di pace.

L’orizzonte della “pace positiva”

In particolare, in questo senso, è ancora la risoluzione a osservare che «l’amicizia può contribuire agli sforzi della comunità internazionale, in linea con la Carta delle Nazioni Unite, verso la promozione del dialogo tra le culture, la solidarietà, la comprensione reciproca e la riconciliazione», ponendo, per questa via, la questione dell’amicizia e della cooperazione tra i popoli sulla falsariga della questione della pace, in particolare del lavoro di pace e per la ricomposizione. Il nesso viene esplicitamente richiamato nella risoluzione quando si richiamano «le finalità e gli obiettivi della Dichiarazione e programma di azione per una cultura di pace e il Decennio internazionale per una cultura di pace e nonviolenza per i bambini del mondo (2001-2010)». Il documento di riferimento, importantissimo per la sua portata e per i suoi contenuti, è, appunto, la risoluzione dell’Assemblea Generale 53/243 del 6 ottobre 1999 contenente la Dichiarazione e programma di azione per una cultura di pace. Qui viene messo in evidenza, in maniera opportuna e adeguata, che «la pace non è solo l’assenza del conflitto, ma richiede anche un processo positivo, dinamico e partecipativo, in cui il dialogo sia incoraggiato e i conflitti siano risolti in uno spirito di reciproca comprensione e cooperazione».

Si tratta, precisamente, della definizione, ormai ampiamente assodata in letteratura, di pace “positiva”: non più pace, in negativo, come carenza, mancanza, negazione (negazione del conflitto o mera assenza della guerra, ad esempio), bensì una rinnovata, più articolata e più esigente allo stesso tempo, concezione della pace, in positivo, come presenza, affermazione, pienezza, realizzazione, cioè, di un contesto in cui tutti i diritti umani per tutti e per tutte siano riconosciuti, tutelati e promossi, sia promossa la giustizia sociale, siano costruiti processi di inclusione e di partecipazione. Come ricorda, ad esempio, Johan Galtung, tra i massimi esponenti a livello internazionale della ricerca per la pace, «la distinzione fra pace negativa e pace positiva che introdussi nel 1958 era ispirata alla distinzione di Marie Jahoda fra salute mentale negativa e positiva, criterio precursore della psicologia positiva. Il che non implica alcun monopolio sulla definizione. Per una valida nozione scientifica è tuttavia indispensabile una conoscenza del campo, a discernimento degli elementi da escludere o includere. [...] Ci servono criteri sulla pace per sapere di che trattiamo; per la pace negativa: assenza o basso livello di violenza diretta e strutturale, tali per cui vengono soddisfatti i bisogni umani basilari e di natura-diversità-simbiosi; per la pace positiva: presenza di cooperazione-equità, armonia-empatia, trasversalmente ai fronti conflittuali, di genere-generazione-razza-classe-natura-territorio. [...] Pace positiva significa che si muove qualcosa di buono. Pace è un rapporto fra le parti, così come salute è un equilibrio nelle persone».

Per il pieno sviluppo di una “cultura di pace”

Non si tratta di un lavoro banale: è ancora Galtung a ricordare, infatti, che «la pace positiva si struttura sulla pace negativa, costruendo sulla riconciliazione dei traumi e sulla risoluzione dei conflitti. C’è da fare molto lavoro». Non a caso, come ricorda la citata Dichiarazione e programma di azione per una cultura di pace, «il pieno sviluppo di una cultura di pace è integralmente connesso con la promozione della risoluzione pacifica dei conflitti, del mutuo rispetto e della reciproca comprensione, e della cooperazione internazionale; il rispetto degli obblighi internazionali sotto la Carta delle Nazioni Unite e il diritto internazionale; la promozione della democrazia, dello sviluppo e del rispetto universale di tutti i diritti umani e le libertà fondamentali; il rafforzamento delle istituzioni democratiche e della piena partecipazione; lo sradicamento della povertà e dell’ analfabetismo e la riduzione delle diseguaglianze, all’interno e tra le nazioni». Elementi fondamentali, nello spirito della giornata del 30 luglio, per costruire, sull’amicizia, un orizzonte di cooperazione e di pace.

martedì 7 giugno 2022

«Prevenire la violenza, costruire la pace»

Bärbel Miemietz, CC BY-SA 4.0, Wikimedia Commons


Di grande interesse è stata la conferenza, nell’ambito dell’EireneFest, il primo Festival del Libro per la Pace e la Nonviolenza, sul tema «Prevenire la violenza, costruire la pace», dedicata alla figura e all’opera di Alberto L’Abate (1931-2017), che si è tenuta presso lo spazio Bertha Kinsky (von Suttner) al Giardino del Verano, a Roma, domenica 5 giugno. Al tempo stesso, si può dire, un’occasione straordinaria, per condensare, in poco più di un’ora, il vasto patrimonio metodologico e intellettuale, di ricerca e di azione, nel contesto della ricerca e dell’iniziativa per la pace, legato all’insegnamento di Alberto L’Abate; ma anche un momento singolarmente emozionante, dove i/le partecipanti hanno avuto la possibilità, tra le altre cose, di ricordare il “proprio” Alberto L’Abate, attraverso il filtro della propria esperienza personale, delle occasioni personali di confronto e di condivisione, dei momenti condivisi nel contesto della ricerca scientifica ovvero dell’azione sul campo.

Una figura di intellettuale e attivista a tutto tondo

La figura di Alberto L’Abate, infatti, è irriducibile ad una definizione univoca o esaustiva: certamente, in senso generale, pioniere, in Italia, della moderna formulazione della «ricerca per la pace», cui ha offerto un contributo seminale e nel contesto della quale risulta una delle figure più importanti nel panorama italiano e a livello internazionale; e tuttavia, nello spirito della ricerca-azione di cui è stato maestro e ispiratore, al tempo stesso, attivista per il cambiamento sociale e per la costruzione della pace; ispiratore e fondatore di IPRI-CCP (Istituto Italiano di Ricerca per la Pace - Corpi Civili di Pace); promotore del corso di laurea per “Operatori di pace, gestione e mediazione dei conflitti” dell’Università di Firenze, e docente di Sociologia dei conflitti e ricerca per la pace e di Metodi di analisi e ricerca per la pace con la Transcend University. L’incontro al Verano è stato quindi l’occasione anche per mettere a fuoco, come bene è stato evidenziato sin dal titolo della conferenza, i due momenti fondamentali dell’impegno di Alberto L’Abate e anche i due assilli costanti nella sua opera di ricerca-azione e di educazione-intervento. Da un lato, la costruzione della pace attraverso una costante opera di tessitura della relazione, di costruzione della comunicazione e del dialogo tra pari, di sostegno e di rafforzamento delle parti più deboli e più esposte per consentire loro di recuperare spazio e voce per affermare la propria dignità e lottare per i propri diritti. Dall’altro, la prevenzione della violenza, come momento decisivo di apertura di spazi in grado di contrastare la logica dello scontro e l’esercizio della violenza, attraverso la capacità di individuare gli eventi-sentinella, di segnalare tutte le possibili minacce di escalation, di allerta tempestiva per prevenire il rischio della precipitazione del conflitto. Infatti, seguendo le sue parole, «se un conflitto viene previsto in anticipo, e si interviene positivamente prima che questo esploda nella sua virulenza, le possibilità di una soluzione pacifica sono decisamente più grandi». Un criterio che ha sempre, nei diversi contesti, animato le più importanti sperimentazioni sul campo di cui Alberto L’Abate è stato protagonista, dalla campagna per i «Volontari di Pace in Medio Oriente» al progetto delle «Ambasciate di Pace a Prishtina», Kosovo, per lo sviluppo dei Corpi Civili di Pace e la Form/Azione alla Nonviolenza a Comiso.

Coinvolgere tutti e tutte per una Cultura della Pace

In tal senso, i vari interventi che si sono susseguiti (Olivier Turquet, coordinatore della redazione italiana di Pressenza e direttore dell’associazione editoriale Multimage; Giovanni Scotto, docente di Sviluppo economico, Cooperazione internazionale e Gestione dei conflitti presso l’Università degli Studi di Firenze; Gianmarco Pisa, operatore di pace, segretario di IPRI-CCP; Anna Luisa Leonardi, compagna di una vita di Alberto L’Abate e attivista per la pace e la nonviolenza, protagonista di decenni di lotte e di mobilitazioni) hanno messo in risalto vari aspetti del suo insegnamento, più vivo e attuale che mai, a partire dalla sua, costantemente viva e presente, tensione etica e dal suo, acceso e intensissimo, attivismo sociale. In Alberto L’Abate - come mostra anche la sua propensione a declinare la ricerca-azione nelle forme dell’educazione-intervento - ricerca scientifica, apporto metodologico (è stato infatti metodologo delle scienze sociali), intervento progettuale e attivismo sociale, costantemente presente nello spazio pubblico, erano e sono “una cosa sola”. Il coinvolgimento di tutti e tutte e la costruzione di spazi di partecipazione sempre più inclusivi e coinvolgenti costituiscono, infatti, altrettante stelle polari della sua iniziativa: «Tutti dovrebbero fare educazione alla pace, come genitori, come cittadini, come membri di un consesso sociale, come educatori, e in tutti gli ambiti: nella famiglia, nella scuola, nel vivere sociale. Il problema di fondo è la competenza professionale. Una buona educazione alla pace necessita di buoni professionisti, non si può improvvisare, ma il ridurre l’educazione alla pace ad alcuni esperti sarebbe tradire l’idea «tutti»; i genitori, gli educatori, i cittadini, dovrebbero, quindi, avere a disposizione le competenze, anche professionali, per l’educazione alla pace» (Quaderni del Ferrari, n. 9, a. 1998, p. 45).

Gli strumenti preziosi del «lavoro di pace»

È un po’ questa la base in virtù della quale educazione, formazione e intervento (si pensi al contributo decisivo da lui offerto nella puntualizzazione metodologica e nello sviluppo concettuale degli Interventi Civili di Pace e dei Corpi Civili di Pace), con l’adeguata preparazione degli attivisti e delle attiviste e con l’incisivo coinvolgimento delle realtà sociali di orientamento democratico, pacifista, nonviolento, si sono poi potute concretizzare in alcune esperienze fattive di estrema attualità e vitalità, a partire dalle sperimentazioni del Campo della Pace (realizzato nel 1990 a Baghdad, in Iraq) e, più ancora, delle Ambasciate di Pace a Prishtina, in Kosovo (realizzate, nello specifico, tra il 1995 e il 1999). Queste ultime, nelle parole stesse di Alberto L’Abate, agiscono «per riaprire la comunicazione tra serbi e albanesi della Serbia e del Kosovo, in particolare tra gruppi di base delle due parti; per appoggiare le poche organizzazioni del Kosovo non soggette alla pulizia etnica e perciò miste, da noi definite «focolai di pace» [...]; per far conoscere, con visite di studio, mozioni, mostre fotografiche, video, convegni, libri, articoli e conferenze, i problemi di quest’area al pubblico più vasto del nostro Paese ed alla nostra classe politica; per studiare a fondo, ascoltando le ragioni delle due parti, le possibili soluzioni nonviolente al conflitto, sia elaborate da noi stessi, sia da altre organizzazioni non-governative attive in questa area, e presentarle, in incontri appositi per la mediazione del conflitto cui erano presenti le due parti (Vienna, Austria e Ulcinj, Montenegro), al nostro Ministero e al Parlamento Europeo».

L’orizzonte della pace positiva, «pace con giustizia»

Si tratta cioè di andare, ancora con l’insegnamento di Alberto L’Abate, «oltre la pace negativa», per traguardare un orizzonte di pace positiva, pace come affermazione di relazioni e contenuti di inclusione e di giustizia, pace con diritti umani e giustizia sociale. Ancora nelle sue parole, in definitiva: «lo sviluppo dal basso di forme di diplomazia popolare (tra cui si inserisce, a buon diritto, l’esperienza delle Ambasciate di Pace) può aiutare la costruzione di una pace mondiale che non sia soltanto «assenza di guerra», ma trasformazione delle relazioni tra i popoli e che fondi la risoluzione delle controversie sulla prevenzione del conflitto armato nella ricerca di soluzioni giuste ma pacifiche, piuttosto che sugli equilibri e le alchimie politico-militari». È impossibile non registrare quanto questa lezione, e l’insegnamento complessivo, nei suoi scritti e nelle sue iniziative, di Alberto L’Abate, nel tempo del presente, continuino ad essere vivi ed attuali più che mai.

lunedì 23 maggio 2022

Ottocento anni dopo


Decan, Christ Church Cathedral, Interior, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons.
 
In un momento già definito, da più parti, storico, la Chiesa d’Inghilterra, nell’occasione della funzione tenuta all’inizio di questo mese, domenica 8 maggio, ha manifestato il proprio pentimento ed espresso le proprie scuse, per la prima volta in modo solenne e ufficiale, per i provvedimenti anti-ebraici approvati esattamente ottocento anni fa, provvedimenti che, nel corso del tempo e ponendo le basi per ulteriori misure anti-ebraiche, hanno alla fine portato all’espulsione degli ebrei dal regno, in un processo storico durato secoli. La funzione, presso la Cattedrale di Cristo a Oxford, si è svolta con la partecipazione del rabbino capo di Gran Bretagna, Ephraim Mirvis, e dei rappresentanti dell’arcivescovo di Canterbury.

Il Sinodo di Oxford del 1222, esattamente ottocento anni fa, vietò infatti i rapporti tra ebrei e cristiani, impose una decima agli ebrei e li costrinse ad indossare un segno di identificazione. Gli ebrei furono successivamente banditi da alcune professioni e fu impedita la costruzione di nuove sinagoghe. Di lì alla fine del XIII secolo, ulteriori misure, via via introdotte, proibirono loro di possedere terreni e di trasmettere l’eredità. Centinaia furono gli ebrei arrestati, impiccati o imprigionati, fino a giungere all’espulsione di massa dei 3.000 ebrei dell’epoca dall’Inghilterra (1290). Ci sarebbero voluti 360 anni e più prima che agli ebrei fosse permesso di tornare, venendo riammessi da Oliver Cromwell nel 1656, nel contesto della rivoluzione inglese.

L’editto di espulsione dei 3.000 ebrei d’Inghilterra fu promulgato da re Edoardo I nel 1290. Sebbene, come è stato ricordato, la Chiesa d’Inghilterra non fu istituita fino al 1530 (dopo lo scisma che portò Enrico VIII alla separazione dal Papa di Roma), è giusto che i cristiani riconoscano tali «azioni vergognose», pur accadute secoli e secoli prima, e «ricostruiscano positivamente» i rapporti con la comunità ebraica, come richiamato in una dichiarazione di Jonathan Chaffey, arcidiacono di Oxford. «La nostra intenzione è che la commemorazione sia un segnale forte, per un potenziale così ricco, riflesso nella profondità dell’incontro interreligioso, che esiste sempre più a Oxford e in tutta la società», è stato ribadito dalla Diocesi in una dichiarazione prima dell’evento. Non solo la funzione «è un’opportunità per ricordare e ricostruire», ma, in particolare, è utile per ispirare i cristiani di oggi «a rifiutare le forme contemporanee di antisemitismo».

Qui, la storia incontra l’attualità e l’evento incrocia uno dei nodi dell’Europa di oggi. Un documento della chiesa pubblicato nel 2019, dal titolo “La parola infallibile di Dio”, ha delineato per la prima volta in modo netto l’importanza del rapporto ebraico-cristiano, riconoscendo, elemento storico e politico di notevole importanza, che secoli di antisemitismo cristiano in Europa hanno contribuito, tra altri fattori e circostanze, a gettare le basi per la Shoah. Il documento afferma inoltre che gli atteggiamenti cristiani nei confronti dell’ebraismo, nel corso dei secoli, hanno fornito anche un «fertile brodo di coltura per l’antisemitismo». Non solo si tratta di riconoscere tali “responsabilità del passato”, ma soprattutto di impegnarsi a sfidare atteggiamenti e stereotipi antiebraici. Sullo sfondo, ovviamente, vi sono anche questioni di relazioni e, perfino, teologiche tra cristiani ed ebrei.

Tony Kushner, docente alla Southampton University, ha ricordato che «questo è il passo più difficile per la chiesa. Accettare che la diffamazione del sangue, i massacri e le espulsioni fossero sbagliati è semplice... accettare che l’ebraismo custodisca un’intrinseca validità religiosa è più impegnativo». Le scuse per il Sinodo di Oxford sembrano riflettere oggi «preoccupazioni per l’antisemitismo contemporaneo» e rientrano in una più ampia rivalutazione circa le ideologie e i fenomeni della storia, tra i più tragici, inclusa la schiavitù. Del resto, l’incremento e la diffusione dell’antisemitismo nelle società contemporanee costituiscono una sfida che le società europee sono chiamate ad affrontare. È stato registrato in diversi rapporti l’aumento di incidenti razzisti e antisemiti nella UE, nonché l’esacerbazione dei crimini di odio di carattere razzista e antisemita e della negazione della Shoah, in particolare, ma non solo, nel contesto degli eventi legati alla diffusione della pandemia.

Anche una “riduzione della tensione” circa la memoria dell’antifascismo e la lotta contro fascismo e nazismo in Europa sono fattori che concorrono alla diffusione dell’antisemitismo e all’erosione del tessuto democratico. Il voto alle Nazioni Unite di Stati Uniti e Ucraina contro la risoluzione di condanna della glorificazione del nazismo (novembre 2020) e la risoluzione del Parlamento Europeo (dal titolo, generico e fuorviante, “Importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa”) che sostanzialmente equipara nazismo e comunismo (settembre 2019) sono, sul piano istituzionale, eventi, in tal senso, assai cupi e preoccupanti.

Una recente indagine (ottobre 2021), intitolata “Antisemitic Prejudices in Europe”, pubblicata da Ipsos, ha riscontrato che può esistere una scarsa correlazione tra atteggiamenti antisemiti e attacchi diretti contro gli ebrei, alla luce dei dati che prendono a riferimento una platea diffusa in 16 Paesi del Vecchio Continente. Qui, l’affermazione per cui «sarebbe meglio se gli ebrei lasciassero il Paese» è sostenuta dal 24% degli intervistati in Polonia, dal 23% in Grecia e dal 21% in Ungheria. Non solo, in Grecia, Ungheria e Romania oltre il 20% degli intervistati ritiene che «il numero di ebrei vittime della Shoah sia molto più basso di quello che viene normalmente ricordato».

Ancora, quasi un terzo degli intervistati in Austria, Ungheria e Polonia ha affermato che gli ebrei non saranno mai in grado di «integrarsi appieno» nella società. In Spagna, il 35% ha affermato che gli israeliani si comportano «come nazisti» nei confronti dei palestinesi; nei Paesi Bassi il 29%; in Svezia il 26%. Sono segnali della diffusione di immagini e stereotipi che alimentano pregiudizi e ostilità. Altre indagini confermano, non senza preoccupazione, l’aumento di casi ed episodi di razzismo, intolleranza, xenofobia. Alla luce di tutto ciò, sempre più essenziale diventa allora il nesso, tanto più oggi e in Europa, tra costruzione di società pluralistiche e inclusive, difesa della memoria e dei valori democratici e sociali, tutela dei diritti e della democrazia. 
 

sabato 9 aprile 2022

Arte, memoria e cultura per la pace. «ReMemory 1992-2022»


Marko Kafé,  Reste eines John Lennon Portraits und mehrere Friedens Symbole, Prag, Particolare, 23. 08. 2019:
CC BY-SA 4.0 - via Wikimedia Commons creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0



È stata inaugurata lo scorso 4 marzo, all’approssimarsi del trentennale dell’inizio delle ostilità che portarono alla guerra in Bosnia Erzegovina (aprile 1992), la mostra collettiva, a cura di Galerija Brodac e Kuma International, intitolata «ReMemory 1992-2022/Art and Memory», che espone le opere di undici artisti e artiste nazionali e internazionali e partecipanti a workshop tematici, sul tema, cruciale nei percorsi di trasformazione e di trascendimento del conflitto, della memoria e delle cosiddette «forme della commemorazione». Come viene indicato nella presentazione dell’iniziativa, infatti, «i workshop si sono concentrati sull’arte contemporanea e la fotografia nel contesto delle forme contemporanee di commemorazione. I workshop consistevano in approcci teorici e pratici e utilizzavano metodologie interattive, dinamiche, per coinvolgere pienamente i giovani partecipanti. Con questi ultimi, gli artisti e le artiste Ziyah Gafić, Smirna Kulenović, Enrico Dagnino, Mak Hubjer, Velibor Božović e Aida Šehović hanno risposto a numerose domande su natura e forme della memoria, del tipo: «come ricordiamo il passato e qual è il ruolo dell’arte e della fotografia nella commemorazione?».

«I workshop sono stati organizzati nell’ambito del progetto intitolato «ReMemory 1992-2022: 30 years of remembrance through art in Bosnia and Herzegovina». In occasione del trentesimo anniversario dell’inizio della guerra di Bosnia, il progetto si concentra sulle storie di Sarajevo e di Gorazde e coinvolge attivisti/e ed artisti/e allo scopo di offrire una prospettiva locale/contestuale sulle conseguenze del passato e sulla memoria degli eventi del passato. Il progetto è pensato per offrire a tutti i partecipanti una conoscenza approfondita sui concetti di divisione e spazi contesi, tempo e fluidità dei confini, e per consentire ai partecipanti di riflettere sul ruolo dell’arte e della cultura nella trasformazione sociale. L’obiettivo del progetto è di permettere la scoperta del passato per un futuro positivo e inclusivo in Bosnia Erzegovina al fine di incoraggiare un percorso unitario e coerente. I workshop hanno offerto un’opportunità unica per studiare il passato all’interno della comunità».

Sulla base delle note di presentazione, infatti, «la Galleria Brodac è stata fondata con l’entusiasmo di diversi volontari disposti a combattere contro l’oppressione socio-economica e politica e contro l’indifferenza. Un gruppo di giovani artisti ha organizzato «azioni di lavoro» per creare uno spazio in cui esporre e condividere con i colleghi, dal momento che né le autorità né altri erano disposti a prendersi cura dell’arte che le giovani generazioni hanno da proporre. La missione primaria è di promuovere e valorizzare la scena artistica contemporanea in Bosnia e all’estero, un contributo concreto per cambiamenti positivi nella società. Migliorare la qualità della vita dei/delle cittadini/e portando avanti quanto di più importante c’è per la loro crescita personale e collettiva: la cultura. L’arte è - prima di tutto - uno strumento utile e necessario per combattere l’analfabetismo e il più forte sostegno per le persone. Un artista è un lavoratore che rappresenta costantemente tutti i lavoratori e tutte le lavoratrici, che lavorano per vivere, guadagnando equamente attraverso il processo della creazione, realizzando un prodotto per il bene di tutti e tutte. Generando opportunità per gli artisti e per il pubblico di interagire in uno spazio indipendente, lontano da qualsiasi condizionamento politico o sociale indesiderato, va avanti il processo di de-marginalizzazione della cultura per rendere la scena artistica contemporanea più forte».

Il tema dei workshop, che hanno rappresentato l’ossatura concettuale del momento espositivo, con le opere di undici artisti ed artiste (Irma Bajramović, Velibor Božović, Enrico Dagnino, Anela Dumonjić, Ziyah Gafić, Mak Hubjer, Nora Köhler, Smirna Kulenović, Michael Pribich, Bedrija Šahbaz, Aida Šehović), è condensato dunque nel titolo: «ReMemory 1992-2022: trenta anni di commemorazione attraverso l’arte in Bosnia Erzegovina», dove il termine commemorazione allude, in effetti, al processo memoriale e finisce per indagare non solo lo spazio e le forme della «memoria nel post-conflitto», ma anche contenuti e modalità del processo di commemorazione stesso, come processo sociale, organizzato nello spazio pubblico, di esercizio del ricordo (a livello personale e familiare) e di costruzione della memoria collettiva (a livello pubblico e politico).

Se il tema della memoria collettiva si afferma, cioè, come veicolo potente di elaborazione di immaginari e di definizione di narrazioni collettive, attraverso forme sociali e ritualità condivise, si staglia sullo sfondo, proprio a partire dai contenuti della mostra, un tema delicatissimo e fondamentale, quello dell’arte come strumento di elaborazione del dolore e del trauma e come vettore di superamento e trasformazione del conflitto. L’arte è cioè una formidabile opportunità di manifestazione e di espressione attraverso la creatività e nello spazio del simbolico, e, come tale, può stimolare energie e attivare risorse. In questo senso, si afferma anche un principio di “politicità dell’arte”. L’arte è cioè, nella sua contestualizzazione nello spazio pubblico e nella sua capacità di vivere attraverso, dare forma e costruire relazioni sociali, intrinsecamente “politica”, nel senso più vivace e performativo del termine. E, di conseguenza, può essere anche un potente strumento di intervento sul conflitto, di interpretazione delle contraddizioni, di prefigurazione di orizzonti alternativi.

Come hanno ricordato, in un loro potente saggio proprio su questi temi, Lisa Schirch e Michael Shank, «benché l’arte non sia puramente funzionale, può tuttavia servire le funzioni sociali. L’arte è uno strumento che può comunicare e trasformare il modo in cui le persone pensano e agiscono. Le arti possono mutare le dinamiche all’interno di complicati conflitti inter-personali, inter-comunitari, nazionali e globali. [...] Le arti possono aiutare le persone a cambiare la loro visione del mondo. Durante un conflitto, i problemi appaiono insormontabili e totalizzanti. [...] L’arte può costituire, in definitiva, una struttura di riferimento per delle problematicità o delle relazioni, capace di offrire nuove prospettive e nuove possibilità di trasformazione, agire come un prisma per consentire di guardare il mondo attraverso una nuova visuale». 
 

venerdì 18 marzo 2022

Sulle stucchevoli polemiche contro le forze della pace

Silar, CC BY-SA 4.0, commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=93671816



Uno degli aspetti su cui più si sta dibattendo, ma su cui manca ancora una riflessione più approfondita e meno reattiva, è senza dubbio la polemica in corso, alimentata soprattutto dalla grande stampa e da alcuni opinionisti, che ha preso di mira i pacifisti e le pacifiste, le organizzazioni impegnate nella lotta, per dirla nei suoi termini più generali, «contro la guerra e per la pace», in definitiva, il movimento pacifista nel suo complesso.

Una polemica stucchevole, nel senso proprio del termine, per cui da una parte suscita noia, dall’altra allestisce uno spettacolo francamente sgradevole. Se non la si razionalizzasse nei termini della “polarizzazione”, della dinamica classica “amico-nemico” e della logica di schieramento che (inevitabilmente?) la guerra porta con sé, finirebbe per risultare a dir poco sorprendente. Ma come – verrebbe da dire – proprio nel momento in cui la guerra è in corso, quando tutti esprimono sconcerto di fronte alla guerra e tutti levano la voce per dire basta con le ostilità, si colpiscono proprio quelli e quelle, operatori e attivisti, operatrici e attiviste, che da sempre si battono contro la guerra, si impegnano in campagne contro la guerra e per la pace, si attivano in ricerche e iniziative, sperimentazioni e progetti a salvaguardia della pace e a difesa dei diritti umani per tutti e per tutte?

Eppure, è proprio quello che sta succedendo, e sembra evidente che tale meccanismo possa rientrare a pieno titolo nel clima di propaganda di guerra che anche in questo caso la guerra (inevitabilmente?) porta con sé. Alcuni aspetti di questo dibattito non sembrano meritare più di tanto tempo e inchiostro: bollare i grandi eventi della storia come frutto di follie deliranti o pulsioni individuali significa in sostanza non riuscire a ricostruirne la storia e il contesto; immaginare che la ragione e il torto si dividano radicalmente, tutta la ragione solo da una parte (dal punto di vista prevalente in Occidente, la parte degli Stati Uniti, della NATO e del governo ucraino) e tutto il torto solo dall’altra (secondo lo stesso punto di vista, la Russia, e, con accenti e sfumature diverse, la Cina); ritagliare su misura del “dittatore” di turno (oggi Putin, ieri Assad, ieri l’altro Milošević) una perfetta «immagine di nemico» può soddisfare le ragioni della schematizzazione, della banalizzazione o della propaganda di guerra, certo non soddisfa quelle dell’analisi e della comprensione degli eventi e degli scenari.

Altri aspetti di questo dibattito, meno condizionati dalle contrapposte propagande, meritano invece alcuni rilievi. A partire dalla questione dell’ambiguità di una parola d’ordine che pure si sente risuonare: l’ormai noto né-né, come ieri né con la NATO né con Milošević, così oggi né con la NATO né con la Russia. Il né-né, purtroppo, non funziona: è una facile soluzione che, proprio per la sua comodità, non aiuta ad approfondire la questione e non sollecita un’iniziativa politica che sia, al tempo stesso, rigorosa ed incisiva. Anche perché, nello specifico del conflitto che oppone la NATO e la Russia in Ucraina, rischia di tramutarsi in banalità: ovviamente non si può essere, dal punto di vista di chi sostiene le ragioni della pace con giustizia sociale, dalla parte della NATO, con tutto il suo portato di espansionismo e di militarismo; così come, per le stesse ragioni, non si può essere dalla parte del governo russo, di quell’establishment che esprime, sul piano politico e istituzionale, le ragioni del capitalismo nazionale e delle oligarchie politico-economiche dello sterminato Paese euro-asiatico.

Tanto è vero che una recente presa di posizione del Partito Comunista della Federazione Russa ha chiaramente messo in evidenza che «il PC è guidato dalle idee di storica amicizia e fratellanza dei nostri popoli, ha esposto l’essenza fascista dell’ideologia banderista, e ha dimostrato la natura antidemocratica del regime di Kiev. Abbiamo difeso il diritto del popolo del Donbass alla vita e alla dignità, alla lingua russa e alla sua cultura, e al riconoscimento della sua giovane statualità. [...] Il Partito ha inviato 93 convogli di aiuti umanitari nel Donbass» e ha espresso l’auspicio che «in queste condizioni di crescenti minacce esterne la leadership della Federazione Russa prenda la strada della “sicurezza nazionale omnicomprensiva”. Nella nostra convinzione, essa può essere garantita solo da un cambiamento radicale del corso socio-economico». L’idea è di superare il nazionalismo, lo sciovinismo e il militarismo a partire dal superamento del modello economico basato sulla esasperazione della competizione, sullo sfruttamento della forza lavoro e sull’accumulazione dei profitti che sono tra le più potenti spinte alla guerra. Del resto è noto, alle forze di progresso, l’antico monito di Jean Jaurès, cui si deve la celebre affermazione per cui «il capitalismo porta la guerra come le nuvole portano la tempesta»

Superare la logica del né-né significa sforzarsi di comprendere l’articolazione e la dinamica delle ragioni e delle responsabilità. Il contesto del conflitto attuale non è definito dagli ultimi mesi, ma semmai dagli ultimi anni, a meno di fingere che il golpe di Maidan non vi sia stato, che il collaborazionista nazista Stepan Bandera non sia oggi eroe nazionale in Ucraina, che l’adesione alla NATO non sia oggi addirittura principio costituzionale del Paese. La stessa guerra in Donbass, a partire dal 2014, è praticamente “scomparsa dai radar” di certa stampa. Come giustamente è stato detto, se, dal punto di vista militare, la responsabilità della campagna in corso è della Russia, dal punto di vista politico e strategico, le responsabilità di USA, UE e NATO, spintasi fin sotto i confini della Russia e ben dentro il territorio di quella che era l’Unione Sovietica, difficilmente, ad uno sguardo lucido, possono essere sottaciute o diminuite. 
 
Per quello che riguarda questa parte del mondo, sarebbe bene soffermarsi sull’irrazionalità di una posizione che pretende di costruire la pace inviando armi e alimentando guerra (qualcuno ricorderà gli ossimori, dalla «esportazione della democrazia» alla «guerra umanitaria», tutti di conio occidentale, peraltro), e concentrarsi piuttosto sul «preparare la pace attraverso la pace», sostenendo gli sforzi diplomatici per una soluzione politica, positiva e di mutuo beneficio. Per quanto riguarda i pacifisti, poi, dopo tutte queste polemiche, al netto di ogni altra considerazione, un elemento sembra essere finalmente acquisito: ben difficilmente, alla vigilia del prossimo conflitto, si potrà ancora dubitare della loro presenza.