Decan, Christ Church Cathedral, Interior, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons. |
In un momento già definito, da più parti, storico, la Chiesa d’Inghilterra, nell’occasione della funzione tenuta all’inizio di questo mese, domenica 8 maggio, ha manifestato il proprio pentimento ed espresso le proprie scuse, per la prima volta in modo solenne e ufficiale, per i provvedimenti anti-ebraici approvati esattamente ottocento anni fa, provvedimenti che, nel corso del tempo e ponendo le basi per ulteriori misure anti-ebraiche, hanno alla fine portato all’espulsione degli ebrei dal regno, in un processo storico durato secoli. La funzione, presso la Cattedrale di Cristo a Oxford, si è svolta con la partecipazione del rabbino capo di Gran Bretagna, Ephraim Mirvis, e dei rappresentanti dell’arcivescovo di Canterbury.
Il Sinodo di Oxford del 1222, esattamente ottocento anni fa, vietò infatti i rapporti tra ebrei e cristiani, impose una decima agli ebrei e li costrinse ad indossare un segno di identificazione. Gli ebrei furono successivamente banditi da alcune professioni e fu impedita la costruzione di nuove sinagoghe. Di lì alla fine del XIII secolo, ulteriori misure, via via introdotte, proibirono loro di possedere terreni e di trasmettere l’eredità. Centinaia furono gli ebrei arrestati, impiccati o imprigionati, fino a giungere all’espulsione di massa dei 3.000 ebrei dell’epoca dall’Inghilterra (1290). Ci sarebbero voluti 360 anni e più prima che agli ebrei fosse permesso di tornare, venendo riammessi da Oliver Cromwell nel 1656, nel contesto della rivoluzione inglese.
L’editto di espulsione dei 3.000 ebrei d’Inghilterra fu promulgato da re Edoardo I nel 1290. Sebbene, come è stato ricordato, la Chiesa d’Inghilterra non fu istituita fino al 1530 (dopo lo scisma che portò Enrico VIII alla separazione dal Papa di Roma), è giusto che i cristiani riconoscano tali «azioni vergognose», pur accadute secoli e secoli prima, e «ricostruiscano positivamente» i rapporti con la comunità ebraica, come richiamato in una dichiarazione di Jonathan Chaffey, arcidiacono di Oxford. «La nostra intenzione è che la commemorazione sia un segnale forte, per un potenziale così ricco, riflesso nella profondità dell’incontro interreligioso, che esiste sempre più a Oxford e in tutta la società», è stato ribadito dalla Diocesi in una dichiarazione prima dell’evento. Non solo la funzione «è un’opportunità per ricordare e ricostruire», ma, in particolare, è utile per ispirare i cristiani di oggi «a rifiutare le forme contemporanee di antisemitismo».
Qui, la storia incontra l’attualità e l’evento incrocia uno dei nodi dell’Europa di oggi. Un documento della chiesa pubblicato nel 2019, dal titolo “La parola infallibile di Dio”, ha delineato per la prima volta in modo netto l’importanza del rapporto ebraico-cristiano, riconoscendo, elemento storico e politico di notevole importanza, che secoli di antisemitismo cristiano in Europa hanno contribuito, tra altri fattori e circostanze, a gettare le basi per la Shoah. Il documento afferma inoltre che gli atteggiamenti cristiani nei confronti dell’ebraismo, nel corso dei secoli, hanno fornito anche un «fertile brodo di coltura per l’antisemitismo». Non solo si tratta di riconoscere tali “responsabilità del passato”, ma soprattutto di impegnarsi a sfidare atteggiamenti e stereotipi antiebraici. Sullo sfondo, ovviamente, vi sono anche questioni di relazioni e, perfino, teologiche tra cristiani ed ebrei.
Tony Kushner, docente alla Southampton University, ha ricordato che «questo è il passo più difficile per la chiesa. Accettare che la diffamazione del sangue, i massacri e le espulsioni fossero sbagliati è semplice... accettare che l’ebraismo custodisca un’intrinseca validità religiosa è più impegnativo». Le scuse per il Sinodo di Oxford sembrano riflettere oggi «preoccupazioni per l’antisemitismo contemporaneo» e rientrano in una più ampia rivalutazione circa le ideologie e i fenomeni della storia, tra i più tragici, inclusa la schiavitù. Del resto, l’incremento e la diffusione dell’antisemitismo nelle società contemporanee costituiscono una sfida che le società europee sono chiamate ad affrontare. È stato registrato in diversi rapporti l’aumento di incidenti razzisti e antisemiti nella UE, nonché l’esacerbazione dei crimini di odio di carattere razzista e antisemita e della negazione della Shoah, in particolare, ma non solo, nel contesto degli eventi legati alla diffusione della pandemia.
Anche una “riduzione della tensione” circa la memoria dell’antifascismo e la lotta contro fascismo e nazismo in Europa sono fattori che concorrono alla diffusione dell’antisemitismo e all’erosione del tessuto democratico. Il voto alle Nazioni Unite di Stati Uniti e Ucraina contro la risoluzione di condanna della glorificazione del nazismo (novembre 2020) e la risoluzione del Parlamento Europeo (dal titolo, generico e fuorviante, “Importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa”) che sostanzialmente equipara nazismo e comunismo (settembre 2019) sono, sul piano istituzionale, eventi, in tal senso, assai cupi e preoccupanti.
Una recente indagine (ottobre 2021), intitolata “Antisemitic Prejudices in Europe”, pubblicata da Ipsos, ha riscontrato che può esistere una scarsa correlazione tra atteggiamenti antisemiti e attacchi diretti contro gli ebrei, alla luce dei dati che prendono a riferimento una platea diffusa in 16 Paesi del Vecchio Continente. Qui, l’affermazione per cui «sarebbe meglio se gli ebrei lasciassero il Paese» è sostenuta dal 24% degli intervistati in Polonia, dal 23% in Grecia e dal 21% in Ungheria. Non solo, in Grecia, Ungheria e Romania oltre il 20% degli intervistati ritiene che «il numero di ebrei vittime della Shoah sia molto più basso di quello che viene normalmente ricordato».
Ancora, quasi un terzo degli intervistati in Austria, Ungheria e Polonia ha affermato che gli ebrei non saranno mai in grado di «integrarsi appieno» nella società. In Spagna, il 35% ha affermato che gli israeliani si comportano «come nazisti» nei confronti dei palestinesi; nei Paesi Bassi il 29%; in Svezia il 26%. Sono segnali della diffusione di immagini e stereotipi che alimentano pregiudizi e ostilità. Altre indagini confermano, non senza preoccupazione, l’aumento di casi ed episodi di razzismo, intolleranza, xenofobia. Alla luce di tutto ciò, sempre più essenziale diventa allora il nesso, tanto più oggi e in Europa, tra costruzione di società pluralistiche e inclusive, difesa della memoria e dei valori democratici e sociali, tutela dei diritti e della democrazia.
Il Sinodo di Oxford del 1222, esattamente ottocento anni fa, vietò infatti i rapporti tra ebrei e cristiani, impose una decima agli ebrei e li costrinse ad indossare un segno di identificazione. Gli ebrei furono successivamente banditi da alcune professioni e fu impedita la costruzione di nuove sinagoghe. Di lì alla fine del XIII secolo, ulteriori misure, via via introdotte, proibirono loro di possedere terreni e di trasmettere l’eredità. Centinaia furono gli ebrei arrestati, impiccati o imprigionati, fino a giungere all’espulsione di massa dei 3.000 ebrei dell’epoca dall’Inghilterra (1290). Ci sarebbero voluti 360 anni e più prima che agli ebrei fosse permesso di tornare, venendo riammessi da Oliver Cromwell nel 1656, nel contesto della rivoluzione inglese.
L’editto di espulsione dei 3.000 ebrei d’Inghilterra fu promulgato da re Edoardo I nel 1290. Sebbene, come è stato ricordato, la Chiesa d’Inghilterra non fu istituita fino al 1530 (dopo lo scisma che portò Enrico VIII alla separazione dal Papa di Roma), è giusto che i cristiani riconoscano tali «azioni vergognose», pur accadute secoli e secoli prima, e «ricostruiscano positivamente» i rapporti con la comunità ebraica, come richiamato in una dichiarazione di Jonathan Chaffey, arcidiacono di Oxford. «La nostra intenzione è che la commemorazione sia un segnale forte, per un potenziale così ricco, riflesso nella profondità dell’incontro interreligioso, che esiste sempre più a Oxford e in tutta la società», è stato ribadito dalla Diocesi in una dichiarazione prima dell’evento. Non solo la funzione «è un’opportunità per ricordare e ricostruire», ma, in particolare, è utile per ispirare i cristiani di oggi «a rifiutare le forme contemporanee di antisemitismo».
Qui, la storia incontra l’attualità e l’evento incrocia uno dei nodi dell’Europa di oggi. Un documento della chiesa pubblicato nel 2019, dal titolo “La parola infallibile di Dio”, ha delineato per la prima volta in modo netto l’importanza del rapporto ebraico-cristiano, riconoscendo, elemento storico e politico di notevole importanza, che secoli di antisemitismo cristiano in Europa hanno contribuito, tra altri fattori e circostanze, a gettare le basi per la Shoah. Il documento afferma inoltre che gli atteggiamenti cristiani nei confronti dell’ebraismo, nel corso dei secoli, hanno fornito anche un «fertile brodo di coltura per l’antisemitismo». Non solo si tratta di riconoscere tali “responsabilità del passato”, ma soprattutto di impegnarsi a sfidare atteggiamenti e stereotipi antiebraici. Sullo sfondo, ovviamente, vi sono anche questioni di relazioni e, perfino, teologiche tra cristiani ed ebrei.
Tony Kushner, docente alla Southampton University, ha ricordato che «questo è il passo più difficile per la chiesa. Accettare che la diffamazione del sangue, i massacri e le espulsioni fossero sbagliati è semplice... accettare che l’ebraismo custodisca un’intrinseca validità religiosa è più impegnativo». Le scuse per il Sinodo di Oxford sembrano riflettere oggi «preoccupazioni per l’antisemitismo contemporaneo» e rientrano in una più ampia rivalutazione circa le ideologie e i fenomeni della storia, tra i più tragici, inclusa la schiavitù. Del resto, l’incremento e la diffusione dell’antisemitismo nelle società contemporanee costituiscono una sfida che le società europee sono chiamate ad affrontare. È stato registrato in diversi rapporti l’aumento di incidenti razzisti e antisemiti nella UE, nonché l’esacerbazione dei crimini di odio di carattere razzista e antisemita e della negazione della Shoah, in particolare, ma non solo, nel contesto degli eventi legati alla diffusione della pandemia.
Anche una “riduzione della tensione” circa la memoria dell’antifascismo e la lotta contro fascismo e nazismo in Europa sono fattori che concorrono alla diffusione dell’antisemitismo e all’erosione del tessuto democratico. Il voto alle Nazioni Unite di Stati Uniti e Ucraina contro la risoluzione di condanna della glorificazione del nazismo (novembre 2020) e la risoluzione del Parlamento Europeo (dal titolo, generico e fuorviante, “Importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa”) che sostanzialmente equipara nazismo e comunismo (settembre 2019) sono, sul piano istituzionale, eventi, in tal senso, assai cupi e preoccupanti.
Una recente indagine (ottobre 2021), intitolata “Antisemitic Prejudices in Europe”, pubblicata da Ipsos, ha riscontrato che può esistere una scarsa correlazione tra atteggiamenti antisemiti e attacchi diretti contro gli ebrei, alla luce dei dati che prendono a riferimento una platea diffusa in 16 Paesi del Vecchio Continente. Qui, l’affermazione per cui «sarebbe meglio se gli ebrei lasciassero il Paese» è sostenuta dal 24% degli intervistati in Polonia, dal 23% in Grecia e dal 21% in Ungheria. Non solo, in Grecia, Ungheria e Romania oltre il 20% degli intervistati ritiene che «il numero di ebrei vittime della Shoah sia molto più basso di quello che viene normalmente ricordato».
Ancora, quasi un terzo degli intervistati in Austria, Ungheria e Polonia ha affermato che gli ebrei non saranno mai in grado di «integrarsi appieno» nella società. In Spagna, il 35% ha affermato che gli israeliani si comportano «come nazisti» nei confronti dei palestinesi; nei Paesi Bassi il 29%; in Svezia il 26%. Sono segnali della diffusione di immagini e stereotipi che alimentano pregiudizi e ostilità. Altre indagini confermano, non senza preoccupazione, l’aumento di casi ed episodi di razzismo, intolleranza, xenofobia. Alla luce di tutto ciò, sempre più essenziale diventa allora il nesso, tanto più oggi e in Europa, tra costruzione di società pluralistiche e inclusive, difesa della memoria e dei valori democratici e sociali, tutela dei diritti e della democrazia.
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