I Ponti di Belgrado |
Dall'osservatorio di Prishtina, sulla falsariga dell'impegno per una “pace con giustizia” cui si ispirano i Corpi Civili di Pace, il crinale della memoria, che si interpone tra il 3 e il 6 Maggio, riporta la memoria e ispira l'attualità al ritorno sulla scena, nel pieno della guerra contro la Jugoslavia, di Ibrahim Rugova, figura chiave del movimento di autodeterminazione degli albanesi del Kosovo. Il ritorno di Rugova sulla scena politica si colloca in un momento particolarmente significativo nello svolgimento del conflitto kosovaro, in quel passaggio chiave della prima settimana di Maggio del 1999, nel quale, con il senno del poi, si sarebbe rintracciato il passaggio cruciale della guerra, il momento decisivo che ha finito con il determinarne le sorti, segnalando le prime avvisaglie di ciò che sarebbe successo dopo, gettando i presupposti del lungo post-conflitto kosovaro.
La NATO aveva già cominciato la sperimentazione di armi proibite e oltremodo pericolose, destinate a produrre danni immani e gigantesche devastazioni, dalle bombe ad uranio impoverito a quella alla grafite contro le centrali elettriche della Serbia; si erano già registrati i primi attacchi contro installazioni, strutture e servizi civili, come quello, tragico, contro l'autobus civile di passaggio sul ponte di Luzane (il 1° maggio) e, prima ancora, quello terribile e dolorosissimo contro giornalisti e operatori al lavoro presso la Radio Televisione Serba (il 23 Aprile) e la guerra stava degenerando in una spirale ritorsiva sempre più preoccupante, in cui sempre più manifesta diventava la volontà, più che di proteggere le popolazioni e le città del Kosovo, di piegare la resistenza della Jugoslavia e di creare i presupposti per la definitiva separazione del Kosovo. Al contempo, l'intensificazione sul fronte militare andava di pari passo ad una accelerazione sul fronte diplomatico, con l'esordio della prima, concreta, iniziativa diplomatica “in bello”, ad opera della Russia, e la convocazione di un G7 con all'ordine del giorno un piano di cessazione delle ostilità, in agenda il 6 maggio.
È in questa cornice che, il 5 maggio, Rugova arriva a Roma. È una figura chiave per il movimento di auto-determinazione kosovaro e, all'interno del movimento kosovaro, l'unica figura che sinceramente spinge per una soluzione politica, più che militare, alla crisi. Non a caso, la visita è stata consentita direttamente dalle autorità serbe e organizzata dal governo italiano, che pure ne aveva avvisato le autorità statunitense, europee e della NATO. Secondo una dichiarazione, riportata dalla stampa dell'epoca, di Milosevic: «Rugova è un uomo libero, ha chiesto di venire a Roma e voi ci avete chiesto di garantirgli libertà di movimento. Se lo accettate in Italia, venite a prendervelo». Accolto dall'allora ministro degli esteri italiano, Lamberto Dini, con questa dichiarazione: «Non è venuto da noi con alcun piano o mediazione preventivamente concordata; ha le sue idee, moderate, equilibrate, vicine a quelle del governo italiano, per una soluzione politica della crisi, soluzione politica che ha bisogno di passi da parte di Milosevic». Non a caso, le autorità serbe «approvano l'iniziativa», mentre la fazione separatista albanese kosovara, che da tempo ha messo ai margini la figura di Rugova e spinge sul pedale della guerriglia terroristica, ricorda che «il disarmo dell'UCK non è in discussione: siamo contrari a ogni proposta di contingente di pace che non sia sotto la guida della NATO».
Nel momento in cui l'iniziativa diplomatica poteva fornire argomenti ad un piano di pacificazione o, per lo meno, di cessazione delle ostilità, dal comando dell'UCK giunge la netta presa di distanza dalle anticipazioni del piano del G7 e perfino la contro-proposta, “a nome del governo provvisorio del Kosovo”, di tutt'altro segno rispetto alle dichiarazioni di Rugova: «deve “dichiarare apertamente il suo appoggio ai raid NATO contro la Jugoslavia”, “rispettare gli impegni presi firmando l'accordo unilaterale in Francia”, “dirsi completamente d'accordo con la necessità di un ritiro completo di tutte le forze serbe e allo spiegamento di forze NATO”». Un piano alternativo e di ben altro segno.
Rugova è stato da alcuni considerato “l'unica figura di leader politico sinceramente democratico che il Kosovo abbia conosciuto”. Era stato il leader della auto-determinazione albanese kosovara ed animatore del movimento di disobbedienza civile che si era incarnato nelle cosiddette istituzioni separate, attraverso le quali si esprimeva il rifiuto, da parte di larga maggioranza della popolazione albanese, del governo serbo sul Kosovo e, per farlo, si era ispirato alla nonviolenza, invocando sempre il “primato della politica” sulla “logica delle armi”. Per questo, sin dall'autunno 1998, da quando l'UCK aveva preso il sopravvento e perfino nel corso dei negoziato di Rambouillet, la sua figura era stata sempre più vissuta con insofferenza da parte delle forze separatiste, che spingevano per una soluzione militare, la completa separazione, l'asse con l'Alleanza Atlantica. A Roma, Rugova ribadisce le sue ragioni e il suo è un contributo diplomatico di rilievo: «Sono per la pace e per la resistenza nonviolenta». E poi, «creare un rete politica per costruire il futuro del Kosovo e … continuare il processo per una soluzione politica e per creare un clima di fiducia tra noi»
Certo, dichiara anche lui gli accordi-capestro di Rambouillet una “buona base per il futuro”, ma pone l'accento su una soluzione “politica e pacifica”. La disponibilità di Milosevic, la mediazione di Cernomyrdin e la resistenza della Jugoslavia avrebbero messo all'ordine del giorno del G7 di Bonn un piano di cessazione delle ostilità e di avvio della pacificazione.
La NATO aveva già cominciato la sperimentazione di armi proibite e oltremodo pericolose, destinate a produrre danni immani e gigantesche devastazioni, dalle bombe ad uranio impoverito a quella alla grafite contro le centrali elettriche della Serbia; si erano già registrati i primi attacchi contro installazioni, strutture e servizi civili, come quello, tragico, contro l'autobus civile di passaggio sul ponte di Luzane (il 1° maggio) e, prima ancora, quello terribile e dolorosissimo contro giornalisti e operatori al lavoro presso la Radio Televisione Serba (il 23 Aprile) e la guerra stava degenerando in una spirale ritorsiva sempre più preoccupante, in cui sempre più manifesta diventava la volontà, più che di proteggere le popolazioni e le città del Kosovo, di piegare la resistenza della Jugoslavia e di creare i presupposti per la definitiva separazione del Kosovo. Al contempo, l'intensificazione sul fronte militare andava di pari passo ad una accelerazione sul fronte diplomatico, con l'esordio della prima, concreta, iniziativa diplomatica “in bello”, ad opera della Russia, e la convocazione di un G7 con all'ordine del giorno un piano di cessazione delle ostilità, in agenda il 6 maggio.
È in questa cornice che, il 5 maggio, Rugova arriva a Roma. È una figura chiave per il movimento di auto-determinazione kosovaro e, all'interno del movimento kosovaro, l'unica figura che sinceramente spinge per una soluzione politica, più che militare, alla crisi. Non a caso, la visita è stata consentita direttamente dalle autorità serbe e organizzata dal governo italiano, che pure ne aveva avvisato le autorità statunitense, europee e della NATO. Secondo una dichiarazione, riportata dalla stampa dell'epoca, di Milosevic: «Rugova è un uomo libero, ha chiesto di venire a Roma e voi ci avete chiesto di garantirgli libertà di movimento. Se lo accettate in Italia, venite a prendervelo». Accolto dall'allora ministro degli esteri italiano, Lamberto Dini, con questa dichiarazione: «Non è venuto da noi con alcun piano o mediazione preventivamente concordata; ha le sue idee, moderate, equilibrate, vicine a quelle del governo italiano, per una soluzione politica della crisi, soluzione politica che ha bisogno di passi da parte di Milosevic». Non a caso, le autorità serbe «approvano l'iniziativa», mentre la fazione separatista albanese kosovara, che da tempo ha messo ai margini la figura di Rugova e spinge sul pedale della guerriglia terroristica, ricorda che «il disarmo dell'UCK non è in discussione: siamo contrari a ogni proposta di contingente di pace che non sia sotto la guida della NATO».
Nel momento in cui l'iniziativa diplomatica poteva fornire argomenti ad un piano di pacificazione o, per lo meno, di cessazione delle ostilità, dal comando dell'UCK giunge la netta presa di distanza dalle anticipazioni del piano del G7 e perfino la contro-proposta, “a nome del governo provvisorio del Kosovo”, di tutt'altro segno rispetto alle dichiarazioni di Rugova: «deve “dichiarare apertamente il suo appoggio ai raid NATO contro la Jugoslavia”, “rispettare gli impegni presi firmando l'accordo unilaterale in Francia”, “dirsi completamente d'accordo con la necessità di un ritiro completo di tutte le forze serbe e allo spiegamento di forze NATO”». Un piano alternativo e di ben altro segno.
Rugova è stato da alcuni considerato “l'unica figura di leader politico sinceramente democratico che il Kosovo abbia conosciuto”. Era stato il leader della auto-determinazione albanese kosovara ed animatore del movimento di disobbedienza civile che si era incarnato nelle cosiddette istituzioni separate, attraverso le quali si esprimeva il rifiuto, da parte di larga maggioranza della popolazione albanese, del governo serbo sul Kosovo e, per farlo, si era ispirato alla nonviolenza, invocando sempre il “primato della politica” sulla “logica delle armi”. Per questo, sin dall'autunno 1998, da quando l'UCK aveva preso il sopravvento e perfino nel corso dei negoziato di Rambouillet, la sua figura era stata sempre più vissuta con insofferenza da parte delle forze separatiste, che spingevano per una soluzione militare, la completa separazione, l'asse con l'Alleanza Atlantica. A Roma, Rugova ribadisce le sue ragioni e il suo è un contributo diplomatico di rilievo: «Sono per la pace e per la resistenza nonviolenta». E poi, «creare un rete politica per costruire il futuro del Kosovo e … continuare il processo per una soluzione politica e per creare un clima di fiducia tra noi»
Certo, dichiara anche lui gli accordi-capestro di Rambouillet una “buona base per il futuro”, ma pone l'accento su una soluzione “politica e pacifica”. La disponibilità di Milosevic, la mediazione di Cernomyrdin e la resistenza della Jugoslavia avrebbero messo all'ordine del giorno del G7 di Bonn un piano di cessazione delle ostilità e di avvio della pacificazione.
Anche quello, come si vedrà, purtroppo, ampiamente disatteso.
Nessun commento:
Posta un commento