Jasenovac, un «luogo della memoria».
Da Zagabria
Da Zagabria a Jasenovac il viaggio, servendosi del trasporto pubblico, non è semplice. Una successione di autobus o, meglio, almeno un paio di treni. C’è un cambio a Novska. Per la giornata scelta e per l’orario del viaggio, mi tocca la tratta con cambio a Sunja. Sunja è un villaggio, quasi a metà strada tra Jasenovac e Sisak, il cui parco, a Brezovica, ospita uno dei complessi memoriali dell’epopea partigiana sopravvissuti alle furie revisioniste e iconoclaste degli anni Novanta. Anche qui, nel villaggio di Sunja, appena fuori dalla stazione, sopravvive una scultura toccante, nello stile proprio del “realismo socialista”, quasi una fotografia che coglie il momento supremo di un partigiano, uno delle migliaia di eroi senza nome, della liberazione antifascista, solido presupposto memoriale del socialismo della Jugoslavia. Nei piccoli centri sopravvive, a volte, una memoria che le città hanno relegato all’oblio.
Lo scenario del viaggio rende onore al nome: Jasenovac, da “jasen”, significa «bosco di frassino», e una vasta area tagliata dalla linea ferrata è circondata da questi alberi, slanciati ed eleganti. Tra i rovi di una stazione praticamente abbandonata e di un edificio decrepito, ci si deve fare largo per raggiungere la strada, un esercizio di equilibrio e di cautela tra i mezzi pesanti in corsa. Ci si allontana dal paese, che si immagina poco distante per lo svettare di un campanile, per avvicinarsi al parco memoriale. C’era un campo di concentramento, a Jasenovac, attivo durante il regime genocida dello stato quisling, denominato, con menzognera puntigliosità, Stato Indipendente di Croazia. Una di quelle pagine della storia che chiamano in causa le responsabilità dell’Europa degli anni Trenta e Quaranta: capo dello stato, fino al 1943, un Savoia, il principe Aimone, duca d’Aosta; capo del governo e poi capo assoluto del famigerato regime, Ante Pavelić. Il movimento degli Ustaša aveva profondi legami ideologici con il nazismo in Germania ed era stato ampiamente sostenuto dal fascismo in Italia. Serbi, Ebrei, Rom; antifascisti, comunisti, partigiani; tutti, in gran numero, sono stati detenuti e uccisi nel campo, orribile e infamante, di Jasenovac. Era stato aperto nell’agosto del 1941 e diretto, per primo, da “Fra’ Satana”, quell’inquietante figura di frate criminale che rispondeva al nome di Miroslav Filipović. Ironia della storia: Miroslav, in serbo, sta per «colui che celebra la pace».
Sono tanti i frammenti che vengono alla memoria quando si prova a inquadrare la tragedia del regime ustaša, il fanatismo del nazionalismo etnico, l’orrore del concentramento, della segregazione e della pulizia etnica. Il programma razziale, ad esempio, in base al quale, nella “Grande Croazia”, un terzo dei serbi doveva essere “liquidato”, un terzo espulso, un terzo convertito con la forza al cattolicesimo. Oppure, il programma nazionale, in forza del quale lo stato croato sarebbe stato rifondato «con la lama e la rivoltella, la mitraglia e la bomba». Fino ad una polemica più recente, a suo modo significativa, sul “culto della memoria” e le strade che ancora restano intitolate, in diverse città croate, a Mile Budak, uno dei principali ideologi del regime ustaša. Il massacro fu tale, spaventoso per dimensione e proporzioni, che il numero esatto delle vittime non è mai stato determinato con esattezza. Una commissione jugoslava, a guerra finita, rese nota, in un rapporto al Tribunale Militare Internazionale di Norimberga, una cifra tra le 500 mila e le 700 mila vittime. Oggi si parla di centomila vittime. Da un’altra parte si può leggere che, a Jasenovac, i croati non soffrirono perché croati, né i musulmani perché musulmani, ma in quanto antifascisti, democratici, comunisti, o perché “colpevoli” di avere aiutato serbi, antifascisti, partigiani. Il conflitto sui numeri e la contrapposizione delle narrazioni è, sempre, uno dei frutti avvelenati della guerra.
Oggi il “Fiore di Pietra”, la scultura monumentale, bellissima, del grande artista jugoslavo Bogdan Bogdanović, uno dei capolavori del “modernismo socialista”, non è solo una rappresentazione simbolica della vita che rinasce dal fondo della morte, che qui così pesantemente ha imperversato; è anche una vera e propria celebrazione della resistenza e della liberazione. Al di là, per intenderci, delle riscritture revisioniste o riduzioniste che pure fanno breccia nella ricostruzione museografica del poco distante Museo, per questo oggetto di critica. È stata una notizia non da poco scoprire che, ad inaugurare il nuovo parlamento serbo, in qualità di “deputato anziano”, è stata, quest’anno, Smilja Tišma. Oggi più che novantenne, Smilja Tišma è una «bambina di Jasenovac». Vado a riprendere un pezzo di una sua intervista di qualche tempo fa: «Dicono sia un museo - ma non è un museo. Ho visto un pannello che afferma che sessantanove mila persone sono morte nel campo di sterminio di Jasenovac. Questa è solo una parte del numero reale. I serbi sono collocati al settimo posto nella lista dei gruppi uccisi, dopo altri, come sloveni e slovacchi, che di fatto costituivano una piccola percentuale delle vittime e che sono stati uccisi a causa della politica, non a causa della etnia, mentre centinaia di migliaia di serbi sono stati assassinati nel tentativo di eliminare il popolo serbo. La mostra non nomina nemmeno un leader ustaša; non mostra nessuna delle orribili armi dei crimini degli ustaša; non mostra alcuna prova del ruolo chiave della chiesa cattolica». All’ingresso del Museo, l’Installazione dedicata alle vittime del fascismo a Jasenovac, opera del grande scultore Dušan Džamonja, un altro campione del modernismo e dell’astrattismo jugoslavo, del quale avremmo poi interrogato quel capolavoro, spettacolare e negletto, che fa mostra di sé a Zagabria, il “Monumento alle Vittime del Dicembre”, in memoria degli antifascisti impiccati dai criminali ustaša il 20 dicembre del 1943. Sorprende la densità di questo spazio. Jasenovac finì poi nella Repubblica Serba della Krajina durante il conflitto più recente, quello degli anni Novanta. Ancora guerra e ancora devastazione.
Con la fulminea e terribile “Operazione Tempesta”, la Krajina fu sbaragliata, Jasenovac recuperata, a seguito delle operazioni militari croate, dall’intera regione di Dalmazia e di Slavonia 250 mila serbi furono, alla fine, costretti alla fuga. È necessario lasciarsi alle spalle i memoriali della guerra mondiale per interrogare i memoriali della più recente devastazione. È un crescendo, avviandosi, finalmente, verso il paese. Due strade si allontanano dallo “Spomen Park”, una poco più che sterrata, una sequela di edifici diroccati e di case distrutte da bombe e granate, crivellate di colpi e proiettili, case di serbi costretti alla fuga e all’abbandono dei lori beni che, qua e là, ancora fanno capolino tra le tegole scrostate e i mattoni diroccati. L’avvicinarsi al nucleo del paese è segnato dalla storica chiesa ortodossa dedicata alla Natività di San Giovanni Battista. È una chiesa nel tipico stile della metà o della seconda metà del XVIII secolo, organizzata intorno ad un impianto a navata unica, in stile barocco, con un ampio spazio semicircolare riservato all’altare, dominato oggi da una recuperata, bella, iconostasi, mentre, all’ingresso, svetta l’alto campanile, il punto di riferimento del tratto di andata, che avevamo intravisto uscendo dalla stazione.
Incendiato e distrutto dagli ustaša «fino alle fondamenta», già nel 1941, con una perdita di patrimonio incolmabile, distrutta l’iconostasi, vandalizzati gli arredi, bruciati i libri, saccheggiati i tesori, distrutti gli oggetti religiosi. Come spesso succedeva, fu anche luogo di prigionia; poi, all’inizio del maggio del 1942, praticamente tutte le famiglie serbe di Jasenovac furono mandate al campo, poco distante. Il delirio nazionalista riprese corpo negli anni Novanta. Nel 1991, il tempio viene danneggiato dagli assalti delle milizie a colpi di granata. Nel 1995, viene nuovamente colpito e devastato. Nel 2000, finalmente, prende avvio una vasta ristrutturazione. Oggi è luogo di culto, e preserva memoria, e luogo di incontro, per la piccola comunità serba del villaggio. In base al censimento del 1991, Jasenovac contava 3.600 abitanti; al censimento del 2011, meno di 2.000; sembra che due terzi della comunità del villaggio abbia più di 60 anni. La comunità serba è sempre stata una presenza storica del paese, oggi il 95% della popolazione è croato. Nessuno sa dire quanti siano oggi esattamente i serbi, con tutta probabilità alcune decine. Il racconto, che si svolge fuori e dentro le mura della chiesa, alterna e, talvolta, confonde gli eventi della guerra passata con la guerra recente, genocidi e massacri, preserva memorie e custodisce segreti, che intersecano morte e oblio, speranza e rinascita.
Durante l’attività del campo di Jasenovac, gli abitanti vivevano in regime speciale, perché “zona speciale” del campo, circondata. Jasenovac, secondo forse solo al complesso concentrazionario nazista dell’Europa Centrale, era il nodo del progetto concentrazionario ustaša. L’8 maggio 1942 la popolazione serba di Jasenovac fu portata al campo di Ciglana e le case saccheggiate e distrutte; le donne e i bambini furono invece deportati al campo di Stara Gradiška; gli uomini poi anche nel campo di Zemun, nell’area della Vecchia Fiera di Belgrado, Staro Sajmište, da dove furono poi deportati in Germania. Anche Staro Sajmište è un luogo della memoria di indubitabile potenza; purtroppo, ancora aspetta una adeguata sistemazione e un museo memoriale del lager, del quale si dibatte da anni. Il destino degli abitanti di Jasenovac era intrecciato all’attività del campo: hanno assistito al trasferimento dei detenuti; hanno sofferto le devastazioni della guerra e dello sterminio; hanno cercato di aiutare, per quanto hanno potuto, spesso a costo della propria vita: un pezzo di pane, un messaggio, una cortesia. Tra il 1941 e il 1945, 367 abitanti di Jasenovac furono uccisi nei campi, nelle prigioni e sotto le armi; tra questi, 54 bambini di meno di 12 anni. La tragedia dei bambini andava a prendere forma oltremodo macabra nei campi loro riservati, a Sisak e Jastrebarsko.
Una donna e un bambino compongono un altro memoriale, oltre la chiesa ortodossa, poco distante dalla chiesa cattolica, in quello che, finalmente raggiunto, si può considerare il centro del paese. Il Monumento onora la memoria degli abitanti di Jasenovac morti nella guerra mondiale, l’opera è di Stanko Jančić, la grande lapide porta la scritta: «I morti aprono gli occhi ai vivi», e l’iscrizione il ricordo per «le vittime del terrore fascista e i combattenti di Jasenovac». «I morti aprono gli occhi ai vivi». Il numero di quei 367 è inciso sulla pietra. Che resti a memoria. La strada verso la stazione chiude questo “circuito del ricordo”: porta il nome di Vladimir Nazor, una delle grandi figure del socialismo jugoslavo. Durante la guerra, presidente del comitato antifascista di liberazione nazionale della Croazia, poi, con Tito, presidente del parlamento croato; insieme, grande scrittore e poeta. Non solo una figura della celebrata «fratellanza e unità» jugoslava, ma anche da più parti ricordato come socialista e umanista. Torna, anche nel suo profilo, un messaggio così profondamente attuale, che lega le ragioni dell’umanità e della fratellanza alle speranze della trasformazione e della liberazione da ogni forma di oppressione, della giustizia e della libertà.
Da Zagabria a Jasenovac il viaggio, servendosi del trasporto pubblico, non è semplice. Una successione di autobus o, meglio, almeno un paio di treni. C’è un cambio a Novska. Per la giornata scelta e per l’orario del viaggio, mi tocca la tratta con cambio a Sunja. Sunja è un villaggio, quasi a metà strada tra Jasenovac e Sisak, il cui parco, a Brezovica, ospita uno dei complessi memoriali dell’epopea partigiana sopravvissuti alle furie revisioniste e iconoclaste degli anni Novanta. Anche qui, nel villaggio di Sunja, appena fuori dalla stazione, sopravvive una scultura toccante, nello stile proprio del “realismo socialista”, quasi una fotografia che coglie il momento supremo di un partigiano, uno delle migliaia di eroi senza nome, della liberazione antifascista, solido presupposto memoriale del socialismo della Jugoslavia. Nei piccoli centri sopravvive, a volte, una memoria che le città hanno relegato all’oblio.
Lo scenario del viaggio rende onore al nome: Jasenovac, da “jasen”, significa «bosco di frassino», e una vasta area tagliata dalla linea ferrata è circondata da questi alberi, slanciati ed eleganti. Tra i rovi di una stazione praticamente abbandonata e di un edificio decrepito, ci si deve fare largo per raggiungere la strada, un esercizio di equilibrio e di cautela tra i mezzi pesanti in corsa. Ci si allontana dal paese, che si immagina poco distante per lo svettare di un campanile, per avvicinarsi al parco memoriale. C’era un campo di concentramento, a Jasenovac, attivo durante il regime genocida dello stato quisling, denominato, con menzognera puntigliosità, Stato Indipendente di Croazia. Una di quelle pagine della storia che chiamano in causa le responsabilità dell’Europa degli anni Trenta e Quaranta: capo dello stato, fino al 1943, un Savoia, il principe Aimone, duca d’Aosta; capo del governo e poi capo assoluto del famigerato regime, Ante Pavelić. Il movimento degli Ustaša aveva profondi legami ideologici con il nazismo in Germania ed era stato ampiamente sostenuto dal fascismo in Italia. Serbi, Ebrei, Rom; antifascisti, comunisti, partigiani; tutti, in gran numero, sono stati detenuti e uccisi nel campo, orribile e infamante, di Jasenovac. Era stato aperto nell’agosto del 1941 e diretto, per primo, da “Fra’ Satana”, quell’inquietante figura di frate criminale che rispondeva al nome di Miroslav Filipović. Ironia della storia: Miroslav, in serbo, sta per «colui che celebra la pace».
Sono tanti i frammenti che vengono alla memoria quando si prova a inquadrare la tragedia del regime ustaša, il fanatismo del nazionalismo etnico, l’orrore del concentramento, della segregazione e della pulizia etnica. Il programma razziale, ad esempio, in base al quale, nella “Grande Croazia”, un terzo dei serbi doveva essere “liquidato”, un terzo espulso, un terzo convertito con la forza al cattolicesimo. Oppure, il programma nazionale, in forza del quale lo stato croato sarebbe stato rifondato «con la lama e la rivoltella, la mitraglia e la bomba». Fino ad una polemica più recente, a suo modo significativa, sul “culto della memoria” e le strade che ancora restano intitolate, in diverse città croate, a Mile Budak, uno dei principali ideologi del regime ustaša. Il massacro fu tale, spaventoso per dimensione e proporzioni, che il numero esatto delle vittime non è mai stato determinato con esattezza. Una commissione jugoslava, a guerra finita, rese nota, in un rapporto al Tribunale Militare Internazionale di Norimberga, una cifra tra le 500 mila e le 700 mila vittime. Oggi si parla di centomila vittime. Da un’altra parte si può leggere che, a Jasenovac, i croati non soffrirono perché croati, né i musulmani perché musulmani, ma in quanto antifascisti, democratici, comunisti, o perché “colpevoli” di avere aiutato serbi, antifascisti, partigiani. Il conflitto sui numeri e la contrapposizione delle narrazioni è, sempre, uno dei frutti avvelenati della guerra.
Oggi il “Fiore di Pietra”, la scultura monumentale, bellissima, del grande artista jugoslavo Bogdan Bogdanović, uno dei capolavori del “modernismo socialista”, non è solo una rappresentazione simbolica della vita che rinasce dal fondo della morte, che qui così pesantemente ha imperversato; è anche una vera e propria celebrazione della resistenza e della liberazione. Al di là, per intenderci, delle riscritture revisioniste o riduzioniste che pure fanno breccia nella ricostruzione museografica del poco distante Museo, per questo oggetto di critica. È stata una notizia non da poco scoprire che, ad inaugurare il nuovo parlamento serbo, in qualità di “deputato anziano”, è stata, quest’anno, Smilja Tišma. Oggi più che novantenne, Smilja Tišma è una «bambina di Jasenovac». Vado a riprendere un pezzo di una sua intervista di qualche tempo fa: «Dicono sia un museo - ma non è un museo. Ho visto un pannello che afferma che sessantanove mila persone sono morte nel campo di sterminio di Jasenovac. Questa è solo una parte del numero reale. I serbi sono collocati al settimo posto nella lista dei gruppi uccisi, dopo altri, come sloveni e slovacchi, che di fatto costituivano una piccola percentuale delle vittime e che sono stati uccisi a causa della politica, non a causa della etnia, mentre centinaia di migliaia di serbi sono stati assassinati nel tentativo di eliminare il popolo serbo. La mostra non nomina nemmeno un leader ustaša; non mostra nessuna delle orribili armi dei crimini degli ustaša; non mostra alcuna prova del ruolo chiave della chiesa cattolica». All’ingresso del Museo, l’Installazione dedicata alle vittime del fascismo a Jasenovac, opera del grande scultore Dušan Džamonja, un altro campione del modernismo e dell’astrattismo jugoslavo, del quale avremmo poi interrogato quel capolavoro, spettacolare e negletto, che fa mostra di sé a Zagabria, il “Monumento alle Vittime del Dicembre”, in memoria degli antifascisti impiccati dai criminali ustaša il 20 dicembre del 1943. Sorprende la densità di questo spazio. Jasenovac finì poi nella Repubblica Serba della Krajina durante il conflitto più recente, quello degli anni Novanta. Ancora guerra e ancora devastazione.
Con la fulminea e terribile “Operazione Tempesta”, la Krajina fu sbaragliata, Jasenovac recuperata, a seguito delle operazioni militari croate, dall’intera regione di Dalmazia e di Slavonia 250 mila serbi furono, alla fine, costretti alla fuga. È necessario lasciarsi alle spalle i memoriali della guerra mondiale per interrogare i memoriali della più recente devastazione. È un crescendo, avviandosi, finalmente, verso il paese. Due strade si allontanano dallo “Spomen Park”, una poco più che sterrata, una sequela di edifici diroccati e di case distrutte da bombe e granate, crivellate di colpi e proiettili, case di serbi costretti alla fuga e all’abbandono dei lori beni che, qua e là, ancora fanno capolino tra le tegole scrostate e i mattoni diroccati. L’avvicinarsi al nucleo del paese è segnato dalla storica chiesa ortodossa dedicata alla Natività di San Giovanni Battista. È una chiesa nel tipico stile della metà o della seconda metà del XVIII secolo, organizzata intorno ad un impianto a navata unica, in stile barocco, con un ampio spazio semicircolare riservato all’altare, dominato oggi da una recuperata, bella, iconostasi, mentre, all’ingresso, svetta l’alto campanile, il punto di riferimento del tratto di andata, che avevamo intravisto uscendo dalla stazione.
Incendiato e distrutto dagli ustaša «fino alle fondamenta», già nel 1941, con una perdita di patrimonio incolmabile, distrutta l’iconostasi, vandalizzati gli arredi, bruciati i libri, saccheggiati i tesori, distrutti gli oggetti religiosi. Come spesso succedeva, fu anche luogo di prigionia; poi, all’inizio del maggio del 1942, praticamente tutte le famiglie serbe di Jasenovac furono mandate al campo, poco distante. Il delirio nazionalista riprese corpo negli anni Novanta. Nel 1991, il tempio viene danneggiato dagli assalti delle milizie a colpi di granata. Nel 1995, viene nuovamente colpito e devastato. Nel 2000, finalmente, prende avvio una vasta ristrutturazione. Oggi è luogo di culto, e preserva memoria, e luogo di incontro, per la piccola comunità serba del villaggio. In base al censimento del 1991, Jasenovac contava 3.600 abitanti; al censimento del 2011, meno di 2.000; sembra che due terzi della comunità del villaggio abbia più di 60 anni. La comunità serba è sempre stata una presenza storica del paese, oggi il 95% della popolazione è croato. Nessuno sa dire quanti siano oggi esattamente i serbi, con tutta probabilità alcune decine. Il racconto, che si svolge fuori e dentro le mura della chiesa, alterna e, talvolta, confonde gli eventi della guerra passata con la guerra recente, genocidi e massacri, preserva memorie e custodisce segreti, che intersecano morte e oblio, speranza e rinascita.
Durante l’attività del campo di Jasenovac, gli abitanti vivevano in regime speciale, perché “zona speciale” del campo, circondata. Jasenovac, secondo forse solo al complesso concentrazionario nazista dell’Europa Centrale, era il nodo del progetto concentrazionario ustaša. L’8 maggio 1942 la popolazione serba di Jasenovac fu portata al campo di Ciglana e le case saccheggiate e distrutte; le donne e i bambini furono invece deportati al campo di Stara Gradiška; gli uomini poi anche nel campo di Zemun, nell’area della Vecchia Fiera di Belgrado, Staro Sajmište, da dove furono poi deportati in Germania. Anche Staro Sajmište è un luogo della memoria di indubitabile potenza; purtroppo, ancora aspetta una adeguata sistemazione e un museo memoriale del lager, del quale si dibatte da anni. Il destino degli abitanti di Jasenovac era intrecciato all’attività del campo: hanno assistito al trasferimento dei detenuti; hanno sofferto le devastazioni della guerra e dello sterminio; hanno cercato di aiutare, per quanto hanno potuto, spesso a costo della propria vita: un pezzo di pane, un messaggio, una cortesia. Tra il 1941 e il 1945, 367 abitanti di Jasenovac furono uccisi nei campi, nelle prigioni e sotto le armi; tra questi, 54 bambini di meno di 12 anni. La tragedia dei bambini andava a prendere forma oltremodo macabra nei campi loro riservati, a Sisak e Jastrebarsko.
Una donna e un bambino compongono un altro memoriale, oltre la chiesa ortodossa, poco distante dalla chiesa cattolica, in quello che, finalmente raggiunto, si può considerare il centro del paese. Il Monumento onora la memoria degli abitanti di Jasenovac morti nella guerra mondiale, l’opera è di Stanko Jančić, la grande lapide porta la scritta: «I morti aprono gli occhi ai vivi», e l’iscrizione il ricordo per «le vittime del terrore fascista e i combattenti di Jasenovac». «I morti aprono gli occhi ai vivi». Il numero di quei 367 è inciso sulla pietra. Che resti a memoria. La strada verso la stazione chiude questo “circuito del ricordo”: porta il nome di Vladimir Nazor, una delle grandi figure del socialismo jugoslavo. Durante la guerra, presidente del comitato antifascista di liberazione nazionale della Croazia, poi, con Tito, presidente del parlamento croato; insieme, grande scrittore e poeta. Non solo una figura della celebrata «fratellanza e unità» jugoslava, ma anche da più parti ricordato come socialista e umanista. Torna, anche nel suo profilo, un messaggio così profondamente attuale, che lega le ragioni dell’umanità e della fratellanza alle speranze della trasformazione e della liberazione da ogni forma di oppressione, della giustizia e della libertà.
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