mercoledì 15 novembre 2023

Corpi Civili di Pace. Balcani-Kosovo: Urgenza di Riconciliazione

 

Balcani-Kosovo: Urgenza di Riconciliazione.
Martedì 7 Novembre 2023 ore 20.30
Sala Giulio Regeni - Casa per la Pace “la Filanda”, Via Canonici Renani 8,
Casalecchio di Reno (Bologna)
 
Alla vigilia della Settimana internazionale delle Nazioni Unite della scienza e della pace, occasione preziosa per riflettere e agire per la promozione della conoscenza e della cultura ai fini della prevenzione della violenza e della costruzione della pace, la conferenza ha sviluppato temi e riflessioni sull’importanza e le problematiche connesse al ruolo e al valore del patrimonio culturale in tutte le sue espressioni, nonché dei luoghi della memoria e dei luoghi della cultura, ai fini della comprensione, del rispetto reciproco e del dialogo, della promozione di una difficile riconciliazione nei Balcani occidentali, della costruzione della «pace con giustizia».

Nell’ambito dell’iniziativa sono stati presentati i volumi di Gianmarco Pisa, Paesaggi Kosovari, 1998-2018. Il patrimonio culturale come risorsa di progresso e opportunità per la pace e Di terra e di pietra. Forme estetiche negli spazi del conflitto dalla Jugoslavia al presente, editi dalla Associazione Editoriale Multimage (Firenze).

La conferenza è organizzata nell’ambito della collaborazione tra l’Associazione Percorsi di Pace, l’Associazione IPRI-CCP, l’Associazione Editoriale Multimage e il Forum ZFD (Forum Ziviler Friedensdienst - Forum Servizio Civile di Pace).
 
Nell'immagine e qui a seguire: il video della conferenza
 

lunedì 12 giugno 2023

Cosa sono i Corpi Civili di Pace?

FrieKoop - Atomwaffenfrei. Abschluss der 20-wöchigen Aktionspräsenz in Büchel, CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=86308711

Iniziativa, più che mai attuale, di prevenzione della guerra e di costruzione della pace, i Corpi Civili di Pace si configurano come «azione civile, non armata e nonviolenta, di operatori professionali e volontari che, come terze parti, sostengono gli attori locali nella prevenzione e trasformazione dei conflitti. [...] Gli operatori intervengono ... in territori di conflitto o dove si prevede possano scoppiare conflitti determinati da violenza diretta, culturale o strutturale. Il dispiegamento degli operatori può essere previsto quando il conflitto è ancora latente - in funzione preventiva - quando il conflitto è ormai acceso - in funzione di trasformazione nonviolenta e peacekeeping civile - e nella fase post-conflitto - in attività di peacebuilding, per aiutare la ricostruzione del tessuto sociale.

L’intervento avviene solo su “richiesta leggibile” della società civile locale, interessata dal conflitto, e deve essere progettato con la partecipazione di partner locali. [...] Sul campo si possono attivare relazioni di collaborazione con altre ONG, agenzie di organizzazioni internazionali, istituzioni pubbliche, solo se tali rapporti non minano l'indipendenza e imparzialità della missione. Con attori armati - regolari e non regolari - non sono ammesse forme di collaborazione o sinergia né scorta armata; può esserci dialogo finalizzato alla gestione nonviolenta del conflitto o scambio di informazioni sulla sicurezza, ove questo non pregiudichi la “legittimità nonviolenta” della missione, in termini di modalità d’azione e di ricezione presso le parti».

Con queste parole, peraltro difficilmente equivocabili, ampia parte del movimento italiano per gli interventi e i corpi civili di pace, raccolto all’epoca nel Tavolo Interventi Civili di Pace, si esprimeva intorno al profilo, alla caratterizzazione e al mandato dei Corpi Civili di Pace, raccogliendo, intorno a questo concetto, diverse tra le organizzazioni di società civile attive per la prevenzione, la gestione costruttiva - appunto non armata e nonviolenta - e la trasformazione dei conflitti, tra le quali, scorrendo l’ordine degli aderenti, Archivio Disarmo, ARCI, ARCS, Papa Giovanni XXIII - Operazione Colomba, Associazione per la pace, Centro Gandhi Edizioni, Centro Studi Difesa Civile, Centro Studi Sereno Regis, MIR Italia, Movimento Nonviolento, Un Ponte per…

Vi si delinea chiaramente il concetto di una squadra civile, adeguatamente preparata e professionalmente formata, di operatori e operatrici di pace, capace di intervenire “sul” e “nel” conflitto, con compiti non solo di lettura, interpretazione, mappatura del conflitto, ma anche di intervento civile, di interposizione nonviolenta, di accompagnamento disarmato, di mediazione e costruzione della fiducia tra le parti in conflitto, di promozione del processo di pace e di riconciliazione, di monitoraggio dei diritti umani e di denuncia delle violazioni. Compiti da svolgere, peraltro, coerentemente con una serie di principi comuni tali da caratterizzare il profilo e le modalità di questo intervento, solo su “richiesta leggibile” della società civile locale, in zona di conflitto:

- nonviolenza nelle relazioni tra operatori, verso le parti, e nella trasformazione del conflitto,

- indipendenza da condizionamenti politici, imparzialità rispetto alle parti in conflitto, pur schierandosi nella difesa dei diritti umani, e non ingerenza verso le ONG locali,

- equità di genere nelle relazioni tra operatori e con la popolazione locale,

- rispetto per la cultura locale e adozione di uno stile di vita semplice, il più possibile simile a quello della popolazione locale.

Per riprendere le parole del Programma per una Cultura di Pace dell’UNESCO (Parigi, 18 Agosto 1994), «ciò di cui c'è bisogno non è altro che una transizione globale da una cultura della guerra a una cultura della pace. In una cultura di guerra, tutti sono tesi al peggio. Le differenze tra individui e comunità diventano punti di innesco per la mobilitazione e l'estremismo e non semplicemente il ricco pluralismo che la storia ci ha regalato. Prendendo la strada di una cultura di pace, possiamo recuperare ciò che è comune tra noi attraverso un dialogo che prenda il posto dell'ostilità e dell'aggressione. I primi passi in questa transizione da una cultura di guerra a una cultura di pace sono la giustizia e la libertà, due caratteristiche fondamentali della democrazia».

Un profilo chiarissimo, dunque, che, per un verso, non riduce i Corpi Civili di Pace ad esercizio superficiale, spontaneistico, volontaristico e, per l’altro, non sfigura i Corpi Civili di Pace facendone una specie di “truppa civile di complemento” dei contingenti militari dispiegati, di volta in volta, dagli stati europei o della NATO in questo o quel contesto di crisi e di conflitto. Un profilo di innovazione e di modernità, dunque, di fronte alle crisi del nostro tempo e all’esigenza della costruzione, per dirla con Johan Galtung, della «pace con mezzi pacifici».

Il testo del documento è disponibile, tra gli altri, in questo collegamento.

giovedì 1 giugno 2023

A proposito dell'EireneFest 2023, Festival del libro per la pace e la nonviolenza

Dalla scuola al disarmo, tanti semi di pace gettati da EireneFest 2023


Una conversazione con Laura Tussi per il portale ItaliaCheCambia.

LT: La seconda edizione del Festival internazionale del libro per la pace e la nonviolenza si è tenuta a Roma dal 26 al 28 maggio 2023 ed è stato un grande motore di idee e novità che ha letteralmente costruito tassello per tassello un mosaico di pace con più di un centinaio di presentazioni e incontri e mostre e spettacoli e performances.

LT: Secondo te, come afferma Alex Zanotelli, siamo davvero “sul crinale del baratro nucleare”? Che ruolo ha avuto il premio Nobel per la pace assegnato alla rete internazionale ICAN per il disarmo nucleare universale e per la proibizione degli ordigni di distruzione di massa nucleari?

GP: Il Nobel per la pace a ICAN, la Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari, è stato un riconoscimento di grande importanza. Alcuni Nobel per la pace sono stati assai controversi – pensiamo al premio a Barack Obama nel 2009 e quello all’UE nel 2012 – mentre altri avrebbero potuto costituire uno stimolo più forte a intraprendere azioni concrete ed efficaci per conseguire gli scopi per i quali furono assegnati. Tra questi, appunto, l’ICAN, nel 2017.

Tuttavia, nelle motivazioni del premio è possibile rintracciare i motivi della sua importanza non solo morale, ma anche politica: un riconoscimento all’impegno “a richiamare l’attenzione sulle catastrofiche conseguenze umanitarie di qualsiasi uso di ordigni nucleari” e a “conseguire la totale proibizione di tali ordigni”. Di fronte al rischio nucleare, è anche uno stimolo a dare più spazio alla diplomazia, a porre fine alle guerre, a impegnarsi per la trasformazione costruttiva dei conflitti e i Corpi civili di pace. 

LT: Quest’anno Eirenefest ha dato molto spazio alle scuole e all’educazione. Perché e quale bilancio è scaturito?

GP: Le scuole rappresentano un luogo essenziale di “cittadinanza democratica”: sono il contesto dove si forma, o si dovrebbe formare, una cittadinanza plurale, critica e consapevole, e anche il luogo educativo e formativo per eccellenza. Qui vengono condivisi e veicolati gli alti contenuti civici e politici, ad esempio, della nostra Costituzione repubblicana e antifascista, ma anche il profondo messaggio legato alla cultura di pace, alla difesa dei diritti umani, alla consapevolezza ecologica, nel senso che viviamo tutti e tutte sullo stesso pianeta, siamo tutti e tutte parte di una comune umanità.

Per quello che riguarda poi, in particolare, l’attenzione che EireneFest ha dedicato alle scuole, molto significativa è stata la partecipazione di studenti e docenti di scuole di ogni ordine e grado, e molto importante, tra le altre, la tavola rotonda “Demilitarizzare la scuola. La Scuola laboratorio di pace”, nella quale è stato presentato il volume ‘La Scuola laboratorio di pace’, a cura del CESP (Centro Studi per la Scuola Pubblica), ed è stata illustrata l’attività dell’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole

LT: All’interno di Eirenefest cosa è risultato di propositivo rispetto alle istanze portate avanti dal mondo pacifista?

GP: In un Festival dedicato al libro per la pace e la nonviolenza, chiaramente il tema della pace è il tema decisivo. È un tema che ha attraversato tutte le giornate e che è stato approfondito in diversi momenti. Ad esempio, è stato svolto nella Conferenza “Come dare un senso globale alle piccole azioni per la pace: La Marcia Mondiale per la Pace e la Nonviolenza”, in preparazione, appunto della Terza Marcia Mondiale per la Pace e la Nonviolenza che partirà da San Jose de Costarica il 2 ottobre 2024, in occasione della Giornata Internazionale della Nonviolenza.

Infine, il tema della pace, nel senso della «pace positiva» è stato protagonista di una importante tavola rotonda, dedicata a “La risoluzione nonviolenta dei conflitti”, che ha permesso di sviluppare due temi. Intanto, le metodologie e gli approcci per la trasformazione costruttiva dei conflitti. Per dirla con Johan Galtung: Ci sono alternative! E poi, l’impegno che tutti e tutte, nel proprio ambito e in base alle proprie possibilità, possono sviluppare per contrastare la guerra e promuovere la pace, pace, appunto, con diritti umani e giustizia sociale. 

 

martedì 30 maggio 2023

“Sindaci” nel Nord, tensione in Kosovo


Радосав Стојановић, Boletin, Public Domain, via Wikimedia Commons

Le notizie che giungono dal Kosovo, nel contesto della nuova ondata di tensione che ha fatto seguito alla forzatura delle autorità albanesi kosovare di insediare propri “sindaci” nelle città a maggioranza serba del Nord del Kosovo, sono preoccupanti e richiamano l’urgenza di una rapida riduzione della tensione, di una ripresa del dialogo, di una prospettiva di pace e giustizia nella regione. Ufficiali della missione NATO KFOR hanno colpito i cittadini serbi raccoltisi in protesta presso gli edifici delle Municipalità, in particolare presso la Municipalità di Zvečan. A detta degli osservatori presenti, a dispetto del fatto che la manifestazione fosse stata annunciata e pacifica, il personale della KFOR, giunto sul posto, ha intimato ai manifestanti di disperdersi, Igor Simic, vicepresidente del partito della Lista Serba, ha chiesto ai manifestanti di sedersi per terra con le mani alzate per mostrare che erano disarmati e pacifici, ed è stato a sua volta trascinato via dalle forze della KFOR. Per disperdere i manifestanti, gli ufficiali della KFOR non hanno esitato a utilizzare anche granate (trenta granate flash bang) e gas lacrimogeni contro i manifestanti, e sono stati feriti almeno due serbi.

La situazione è resa complicata dallo sfondo di tensione, legato al fallimento degli ultimi round del dialogo mediato dalla UE tra Belgrado e Prishtina e alla situazione di guerra sul fronte russo-ucraino in cui la NATO e la UE sono attivamente impegnate, nel quale queste tensioni vengono a cadere. Il Consiglio di sicurezza serbo ha affermato, in una dichiarazione del 27 maggio, che, in violazione del suo mandato, la KFOR ha sostanzialmente ignorato l'attività aggressiva delle forze dell'ordine del Kosovo nei Comuni serbi e non è riuscita (non ha potuto o non ha voluto, si potrebbe aggiungere) a impedire i tentativi delle autorità di Prishtina di “prendere il controllo” degli edifici amministrativi nel Kosovo del Nord. Il 26 maggio, il presidente serbo Aleksandar Vučić aveva invitato la NATO a prendere misure per porre fine alla violenza contro i serbi in Kosovo. Il ministro della Difesa serbo Miloš Vučević ha inoltre confermato che l'esercito serbo è in stato di allerta.

Le origini di questa nuova contrapposizione vanno ricercate nelle modalità di svolgimento delle ultime elezioni amministrative tenute il 23 aprile scorso e boicottate dall’intera comunità serba del Kosovo, in considerazione non solo del clima di tensione, conseguente allo scontro diplomatico tra Belgrado e Prishtina e alla cosiddetta “controversia delle targhe”, ma anche della sostanziale inagibilità politica per i serbi del Kosovo, trattandosi, come dichiarato da Aleksandar Jablanović, uno dei dirigenti serbi a Leposavić, di «una circostanza in cui, quando dal 21 novembre i serbi non possono circolare liberamente con i loro veicoli nel nord del Kosovo per le nuove norme sulla immatricolazione con le nuove targhe, sarebbe assurdo pensare di tenere delle elezioni»; ciò essendo legato al fatto che, come spiegato agli organi di informazione da Aleksandar Arsenijević della iniziativa civica “Srpski opstanak” a Kosovska Mitrovica, «non ci sono le condizioni per indire elezioni. Al Nord non c’è la possibilità di organizzare una partita di calcio, figuriamoci un’elezione. Ascoltiamo la voce dei nostri cittadini, e i nostri cittadini hanno deciso che queste elezioni dovrebbero essere boicottate».

Queste, tra le altre testimonianze raccolte nell’autunno scorso, tornano oggi utili per capire il clima nel quale sono state celebrate queste elezioni e, a maggior ragione, per comprendere le cifre dei risultati delle elezioni nel Nord: a Leposavić, Lulzim Hetemi, di Vetëvendosje, è stato eletto sindaco con 100 voti; a Kosovska Mitrovica, Erden Atiq, ancora di Vetëvendosje, con 519 voti; a Zubin Potok, Izmir Zeqiri, del PDK (Partito Democratico del Kosovo), con 196 voti; a Zvečan, Ilir Peci, ancora del PDK, con 114 voti. Le stesse cerimonie di giuramento sono state celebrate ben distanti dai capoluoghi, e si sono tenute nei villaggi albanesi dell’entroterra del Nord: Lulzim Hetemi, ha prestato giuramento nell’ufficio locale del villaggio di Šaljska Bistrica; Izmir Zeqiri ha prestato giuramento nel villaggio di Čabra; Ilir Peci nel villaggio di Boljetin/Boletini. Quest’ultima destinazione non è priva di risvolti simbolici di tenore nazionalistico: si tratta infatti del villaggio natio di Isa Boletini, icona del nazionalismo albanese e importante leader militare dell'indipendenza albanese, seppellito il 10 giugno 2015 nel villaggio che ospita anche la sua Kulla, oggi celebrato monumento kosovaro.

Al di là della mera maggioranza numerica dei voti espressi, la cornice di legittimità di tali “sindaci” si situa tra un processo elettorale ampiamente compromesso e un esito elettorale visibilmente surreale. La stampa serba non ha mancato, ovviamente, di fare notare come, affermando l’intenzione di lavorare nell’interesse di tutte le comunità del Kosovo, questi stessi “sindaci” abbiano tuttavia prestato giuramento in albanese. Vivono oggi nel Nord del Kosovo oltre 50 mila serbi, che costituiscono oltre il 90% della popolazione dell’area, a fronte di una affluenza al voto, nelle scorse elezioni amministrative, addirittura inferiore al 4%. La metafora della “presa delle istituzioni” del Nord del Kosovo è ampiamente usata dalla stampa, mentre in una surreale dichiarazione, all’indomani del voto, le autorità dell’autogoverno di Prishtina hanno affermato che «il governo sostiene pienamente le nuove amministrazioni nel loro lavoro al servizio di tutti i cittadini, senza distinzione alcuna».

Sono i frutti avvelenati del nazionalismo e della contrapposizione etnopolitica, che si riversa non a caso anche sui tavoli della diplomazia. Nel vertice tra il presidente serbo Aleksandar Vučić e il capo dell’autogoverno del Kosovo, Albin Kurti, tenuto lo scorso 2 maggio nell’ambito del dialogo mediato dall’Unione Europea, non si sono fatti passi in avanti sui temi dello statuto e della costituzione della Comunità dei Comuni Serbi del Kosovo, già concordata e approvata nei precedenti accordi del 2013 e del 2015 e ora rigettata dalle autorità kosovare perché «incompatibile con la Costituzione del Kosovo». Ad oggi, il Kosovo non è uno stato riconosciuto dalla comunità internazionale nel suo complesso: sono meno di novanta gli Stati con cui il Kosovo ha relazioni diplomatiche e circa cento quelli che ad oggi hanno riconosciuto l’indipendenza kosovara.

Fonti: Pressenza, Novosti, Wikipedia

sabato 11 marzo 2023

Prevenire la guerra, Costruire la pace



È stato inaugurato lo scorso venerdì 3 marzo, a Trieste, il ciclo seminariale sul tema «Guerre&Lavoro», tenuto presso la Casa del Popolo di Ponziana e curato dalla Associazione Culturale Tina Modotti, con un seminario sulle questioni del «conflitto/conflitti», a partire dalla presentazione del libro Fare pace, Costruire società. Orientamenti di base per la trasformazione dei conflitti e la costruzione della pace, pubblicato dalla associazione editoriale Multimage, Firenze, 2023. Un’occasione preziosa, aperta dall’acuta introduzione di Gianluca Paciucci, per riflettere, a partire da osservazioni teoriche, esempi concreti e casi di studio, alla presenza di un pubblico nutrito e partecipe, sul tema del conflitto e dei conflitti, nelle loro varie e diverse articolazioni, di fronte alle questioni dell’attualità e alle sfide di un presente sempre più segnato dal caos e dalla contraddizione.

Una riflessione che può consentire, anche al di là dello svolgimento del seminario, una serie di rimandi e di interrogativi, almeno, su due piani di riflessione e di intervento, o, per recuperare una essenziale prospettiva metodologica, di educazione-intervento e di ricerca-azione: la questione cruciale del conflitto, la sua dinamica e il suo svolgimento, nei più diversi e complessi ambiti nei quali si dipana; e la questione della responsabilità delle persone, cittadini e cittadine, operatori e operatrici, intellettuali e attivisti, di fronte al conflitto e, in particolare, di fronte a quella sua specifica declinazione, la guerra, vale a dire la dinamica di svolgimento del «conflitto, in forma armata e con il ricorso alla violenza, tra soggetti organizzati, quali entità, istituzioni, Stati». Quale responsabilità, quale impegno per contrastare la guerra e costruire «pace con diritti umani e giustizia sociale»?

Se la guerra, infatti, può essere evitata e prevenuta, il conflitto può essere visto come «la situazione di incompatibilità tra due o più soggetti derivante dall’esistenza di ragioni, interessi, bisogni, obiettivi e finalità contrastanti»; tale condizione è determinata, quindi, proprio dall’esistenza di tali differenze e, di conseguenza, è una dinamica di relazione legata alla presenza di diversità, divergenze o incompatibilità. In questo senso, il conflitto è una condizione normale della vita sociale: una forma fondamentale di interazione sociale che sorge nel momento stesso in cui tale interazione si svolge e che può comportare, se ben intercettato e attraversato, abitato e gestito, un passo avanti nella comprensione dell’altro/degli altri, e un avanzamento della relazione.

La questione dunque non è il conflitto (che è inevitabile, perché legato alla normale dinamica di relazione tra soggetti portatori della loro specifica soggettività, con le loro specificità, peculiarità, visioni), ma la gestione del conflitto (che varia a seconda di diversi fattori) e, possibilmente, la trasformazione del conflitto. Ed è per questo che, così come il conflitto non è un evento, dunque non “scoppia”, bensì un processo, con il suo sviluppo, le sue fasi, i suoi tempi, così la pace è una dinamica e va costruita: la pace non indica cioè l’assenza del conflitto o l’annullamento delle contraddizioni, ma, viceversa, la realizzazione di una serie di condizioni, tra cui l’assenza di violenza e di traumi diffusi all’interno della società e la presenza di condizioni di equilibrio, a partire dalla riduzione delle diseguaglianze e delle ingiustizie, e di armonia, inclusione e cooperazione, nelle relazioni sociali.

La pace non è dunque l’opposto del conflitto: è, invece, l’opposto della guerra, come indica la sua stessa radice etimologica, dal latino pax da cui pactum, «patto», accordo, l’idea, cioè, di una condivisione, di una coesistenza, di un vivere bene e vivere insieme, che disegna la qualità delle relazioni sociali e prospetta l’esigenza di attivare «tutti i diritti umani per tutti e per tutte», nessuno escluso: diritti di libertà, quali i diritti civili e politici; diritti materiali, quali i diritti economici, sociali e culturali; diritti dei popoli e dell’ecosistema; diritti digitali. Siamo, dunque, all’opposto della guerra; e siamo, soprattutto, in un campo di responsabilità, in cui tutti e tutte siamo chiamati, ciascuno sulla base delle proprie possibilità e a partire dalla propria vocazione, a dare il proprio contributo, a impegnarsi per costruire la pace, ad attivarsi, in generale, nella lotta contro la guerra e per la pace.

Un tema, peraltro, “di diritto”: la stessa Risoluzione sui Difensori dei Diritti Umani (risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite 53/144 del 1999) riconosce che «tutti hanno il diritto, individualmente e in associazione con altri, di promuovere e lottare per la protezione e la realizzazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali a livello nazionale e internazionale». Allo stesso modo, «tutti hanno diritto, individualmente e in associazione con altri, di protestare contro le politiche e le azioni di singoli funzionari e organi governativi con riferimento a violazioni dei diritti umani e delle libertà fondamentali, tramite petizione o altri mezzi appropriati».

Parla, tutto questo, alla nostra attualità? Si contano, al 2022, ben 59 conflitti armati, di cui quello che oppone la Russia alla NATO in Ucraina è quello che emerge nelle prime pagine di tutti gli organi di informazione. Proprio in questi giorni è tornata d’attualità la richiesta di una nuova “Agenda per la Pace”; vale la pena richiamare allora quello che l’attuale “Agenda per la Pace”, il report del Segretario Generale delle Nazioni Unite del 1992 richiedeva ai fini della prevenzione della guerra e della costruzione della pace: la diplomazia preventiva per prevenire l’escalation con mezzi diplomatici; il peace-making, vale a dire la ricerca di accordi tra le parti in conflitto; il peace-keeping, vale a dire l’interposizione, legittima, e con il consenso delle parti in conflitto, tra i contendenti; il peace-building, vale a dire il superamento delle ragioni del conflitto e il ripristino della convivenza. Un lavoro che riguarda tutti e tutte e, in fondo, nel tempo della minaccia nucleare, il destino stesso dell’umanità. 

* A dispetto di quanto erroneamente indicato nella pagina https://multimage.org/info/chi-siamo, l'autore non ricopre alcun incarico all'interno della Associazione Editoriale Multimage.

mercoledì 22 febbraio 2023

Giustizia sociale fondamento della pace

Foro Juvenil Martiano, La Habana, Cuba, 2023, foto di G. Pisa
 

Forse poco nota, ma di importanza essenziale per il contenuto cui allude, la Giornata Mondiale della Giustizia Sociale è una delle ricorrenze del calendario civile internazionale, indetta dalle Nazioni Unite nel 2007 allo scopo di promuovere i temi dell’inclusione, della eguaglianza e della giustizia sociale quali contenuti essenziali di avanzamento della democrazia e fattori imprescindibili per un quadro di effettiva tutela dei diritti umani, di «tutti i diritti umani per tutti e per tutte», nelle loro diverse generazioni, di forma inscindibile e universale. Nella corrispondente risoluzione, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite «riconosce la necessità di consolidare ulteriormente gli sforzi della comunità internazionale ai fini della eliminazione della povertà e della promozione della piena occupazione e del lavoro dignitoso per tutti, della parità di genere e dell’accesso per tutti al benessere sociale e alla giustizia».

Nel documento, vale a dire la risoluzione dell’Assemblea Generale A/RES/62/10 del 26 novembre 2007, viene riconosciuto, sin nell’art. 1, che «lo sviluppo sociale e la giustizia sociale sono indispensabili per il conseguimento e il mantenimento della pace e della sicurezza all’interno e tra le nazioni e, a loro volta, lo sviluppo sociale e la giustizia sociale non possono essere raggiunti in assenza di pace e sicurezza o in assenza del rispetto di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali» per tutti e per tutte. Pone cioè in evidenza, elemento quest’ultimo di decisiva importanza, almeno tre fattori cruciali.

Il primo: la giustizia sociale costituisce un caposaldo di civiltà, non solo nel senso della protezione sociale delle persone e del contrasto alle sperequazioni e alle diseguaglianze, ma in particolare nel senso del riconoscimento della dignità delle persone e della costruzione di società compiutamente democratiche. Il secondo: il nesso tra sviluppo sociale e giustizia sociale, da un lato, e diritti umani e libertà fondamentali, dall’altro, non può essere scisso o intaccato, attestando, per questa via, l’universalità e l’indivisibilità di tutti i diritti umani per tutti e per tutte e riconoscendo che, come astratti e diseguali sarebbero i diritti di libertà senza la piena affermazione dei diritti materiali (economici, sociali e culturali), così imperfetti e incompiuti sarebbero i diritti sociali senza il pieno riconoscimento dei diritti di libertà (civili e politici).

Il terzo aspetto è non meno importante ed è anzi un vero e proprio fondamento, teorico e pratico, dell’impegno degli operatori e delle operatrici di pace, dei difensori e delle difensore dei diritti umani e della stessa nozione di “pace positiva”: vale a dire che, per quanto necessaria, la pace negativa (pace come assenza, assenza di guerra, di oppressione, di violenza), non è sufficiente, se non integrata e trascesa dal concetto di pace positiva (pace come pienezza, affermazione della pace con democrazia efficace, diritti umani e, per l’appunto, giustizia sociale).

Il tema della giustizia sociale, come istanza e diritto collettivo, diventa quindi un tema cruciale, non solo in senso economico e sociale, ma anche nel senso della lotta contro la guerra e per la pace. Torna qui il riferimento al “padre” della moderna ricerca per la pace, Johan Galtung, che a lungo, e con profondità, si è soffermato sul nesso tra pace e giustizia e sulla costruzione della pace positiva. In una sua importante dissertazione di qualche tempo fa, Galtung ricordava che «la parola “giustizia” ha quattro significati molto diversi: entro la giustizia giudiziaria, c’è la giustizia punitiva ma anche quella restaurativa; ed entro la giustizia sociale, c’è la giustizia distributiva ma anche quella equitativa. Nella seconda, è automatica, incorporata, un’interazione per costi e benefici mutui e uguali».

Si pone così una distinzione tra la giustizia “procedurale”, giudiziaria, e la giustizia “effettiva”, sociale. E, in generale, si riconosce che «le iniquità producono ineguaglianze che danno adito a rivolte – che riescano poi come rivoluzioni, sovvertendo effettivamente gli ordini sociali, è altra faccenda. Le enormi diseguaglianze, come l’1% negli Stati Uniti che controlla il 40% della ricchezza, e la bassa mobilità inter-generazionale, vengono avvertite entro e fra i vari Paesi. Qualche anno fa, la crescita del PIL era attorno al 2.8%, e la crescita della disuguaglianza – il rapporto di potere d’acquisto fra il vertice sociale e la base in fondo – era circa il 3.2%. La crescita non compensava il destino del quintile in basso, e ora il fondo di quel fondo sta morendo al tasso di circa 125.000 al giorno; 25.000 di fame e 100.000 di malattie evitabili-curabili se solo si disponesse del denaro necessario. Un mondo malvagio, per come lo vivono miliardi di persone». La costruzione, impiantata in progetti e politiche e orientata da una visione e da una prospettiva, della giustizia sociale è dunque essenziale per la rigenerazione del tessuto delle relazioni, per il superamento delle sperequazioni e delle ingiustizie, ormai sempre più pronunciate e insopportabili, in definitiva, per la costruzione della pace.

La risoluzione dell’Assemblea Generale individua questo elemento di contraddizione nel successivo art. 3, mettendo in evidenza come i processi di mondializzazione, se da un lato «aprono nuove opportunità attraverso il commercio, gli investimenti e i progressi tecnologici, compresa la tecnologia dell’informazione, per la crescita dell’economia e lo sviluppo e il miglioramento degli standard di vita in tutto il mondo», dall’altro alimentano crescenti sfide e tensioni quali «gravi crisi finanziarie, insicurezza, povertà, esclusione e disuguaglianza all’interno e tra le società e notevoli ostacoli all’ulteriore integrazione e alla piena partecipazione all’economia-mondo per i Paesi in via di sviluppo e alcuni Paesi con economie in transizione».

Si tratta, tra l’altro, di uno degli elementi messi in luce nella recente Conferenza Internazionale “Per l’Equilibrio del Mondo”, promossa dall’Officina del Programma Martiano a Cuba a fine gennaio, dove le questioni dell’equilibrio internazionale, di rapporti di cooperazione e non di competizione per promuovere solidarietà e pace, e relazioni equilibrate e paritarie tra Paesi e popoli del mondo, nella prospettiva, che sempre più si va affermando, di un mondo multipolare sono state al centro dei seminari e delle tavole rotonde. Tre sono le questioni emergenti che si vanno delineando. In primo luogo, lo sviluppo di un pensiero e di un confronto tra punti di vista ed esperienze politiche e intellettuali per la definizione di un rinnovato «equilibrio del mondo», all’insegna della giustizia, della solidarietà e del multipolarismo, contro l’egemonismo, l’imperialismo e il neo-colonialismo che ancora caratterizzano le politiche di dominio delle potenze e mettono a rischio i diritti dei popoli e la sopravvivenza del pianeta.

Quindi, l’approfondimento delle questioni, politiche e culturali, afferenti alle contraddizioni del presente, dalle sfide che si affacciano all’iniziativa dei movimenti politici e sociali alle questioni del dialogo, della cooperazione e della diversità culturale; dalla lotta contro la guerra, per la pace e per il disarmo nucleare alle grandi questioni del multilateralismo «come meccanismo indispensabile per l’equilibrio mondiale» e della integrazione «come necessità per affrontare le sfide del mondo contemporaneo»; dalla difesa dell’ecosistema alle politiche culturali; dalle arti «nella formazione di una spiritualità attiva e di una cultura della resistenza» alle scienze come presupposto di rinnovata inclusione e di benessere «di tutti e per tutti». In terzo luogo, lo sviluppo di un confronto capace di attraversare la politica e di richiamare all’impegno collettivo sulle grandi sfide dell’attualità, «in uno scenario nel contesto del quale contribuire a sensibilizzare l’opinione pubblica per creare consapevolezza contro i mali che affliggono l’umanità e che mettono a rischio l’esistenza stessa della nostra specie».

Come ricordò lo stesso Fidel Castro, nel suo discorso di chiusura della prima conferenza del 2003: «Perché non osiamo affermare che non può esserci democrazia, libera scelta o autentica libertà, tra spaventose disuguaglianze, ignoranza, analfabetismo, mancanza di conoscenza e una stupefacente assenza di cultura politica, economica, scientifica e artistica a cui possono accedere, anche all’interno dei Paesi sviluppati, solo minuscole minoranze, inondando il mondo con milioni di dollari di pubblicità commerciale e di consumo, che avvelena le masse con il desiderio di sogni e desideri inaccessibili, che porta allo spreco, all’alienazione e all’inesorabile distruzione delle condizioni naturali della vita umana?».

In quel momento, a ridosso degli anni Novanta e con la fine della contrapposizione bipolare, cessato l’equilibrio tra le superpotenze, si andava affermando il più grave squilibrio del mondo, con l’affermazione di un’unica superpotenza planetaria. Al pensiero e alla pratica dell’egemonismo e del dominio si contrappongono dunque il pensiero e la pratica democratica e internazionalista, nel senso del dialogo tra le culture e non delle scontro di civiltà, e in questo senso incontrano l’esperienza storica e politica del socialismo cubano, quale prassi reale di socialismo con una profonda base, al tempo stesso, marxiana e martiana, internazionalista e umanista.

L’obiettivo della Giornata Mondiale della Giustizia Sociale resta, dunque, come recita ancora la risoluzione dell’Assemblea Generale, sostenere e alimentare «gli sforzi della comunità internazionale volti alla eliminazione della povertà e alla promozione della piena occupazione e del lavoro dignitoso, della parità di genere e dell’accesso al benessere sociale e alla giustizia sociale per tutti e per tutte». Questa eco torna anche nel tema scelto per la Giornata Mondiale di questo 2023: «Overcoming Barriers and Unleashing Opportunities for Social Justice» (Superare barriere e creare opportunità per la giustizia sociale), con l’obiettivo di rafforzare il dialogo tra attori nazionali e internazionali, gli Stati membri, le parti sociali, la società civile, le organizzazioni delle Nazioni Unite e tutti gli altri soggetti interessati sulle azioni necessarie per rafforzare il contratto sociale distrutto a causa dell’aumento delle diseguaglianze, dei conflitti e della debolezza delle istituzioni che hanno lo scopo di proteggere e tutelare i diritti dei lavoratori.

Come riporta il sito dedicato alla Giornata, «lo sviluppo sociale e la giustizia sociale sono indispensabili per il raggiungimento e il mantenimento della pace e della sicurezza ... e, a loro volta, lo sviluppo sociale e la giustizia sociale non possono essere raggiunti in assenza di pace e sicurezza, o in assenza del rispetto per tutti i diritti umani e le libertà fondamentali».



Riferimenti:

UN World Day of Social Justice: www.un.org/en/observances/social-justice-day

Johan Galtung, Ten Social Justice Trends Changing the World, 41.St Gallen Symposium, 11-13 maggio 2012: www.transcend.org/tms/2012/01/ten-social-justice-trends-changing-the-world

Discorso di Fidel Castro in chiusura della Conferenza “Por el Equilibrio del Mundo”, 29 gennaio 2003: www.fidelcastro.cu/es/discursos/clausura-de-la-conferencia-internacional-por-el-equilibrio-del-mundo-en-homenaje-al-150


giovedì 9 febbraio 2023

A proposito delle grandi violazioni dei diritti umani. Il bloqueo contro Cuba

 
Habana Vieja, L'Avana, Cuba: fotografia di G. Pisa


È nella giornata del 3 febbraio, correva l’anno 1962, che l’allora amministrazione Kennedy emette il Proclama 3447, vale a dire l’atto con il quale si decreta il blocco commerciale, economico e finanziario contro Cuba, un blocco che assume le forme di una vera e propria guerra economica, finanziaria e commerciale contro l’isola, un provvedimento del tutto illegale e illegittimo, che perdura tutt’oggi. È un atto aggressivo e ritorsivo assunto dagli Stati Uniti contro Cuba che fa seguito alla sconfitta politica e alla sconfitta militare subita dagli USA.

Nel 1953, nella data ormai leggendaria del 26 luglio, fallisce il tentativo insurrezionale, con l’assalto alla caserma Moncada di Santiago di Cuba, che segna tuttavia, sotto il profilo storico e politico, l’atto d’inizio del processo rivoluzionario che avrebbe portato alla caduta del regime di Batista e all’instaurazione del governo rivoluzionario a Cuba; dal 1955 si riorganizza il movimento rivoluzionario sotto la guida di Fidel Castro; nel 1956 lo sbarco del Granma porta sull’isola, dal Messico, il gruppo che avrebbe sviluppato la «guerra di guerriglia» e impostata l’avanzata rivoluzionaria negli anni seguenti; nel 1958, alla fine dell’anno, si svolge la decisiva battaglia di Santa Clara, che ospita oggi il monumentale Mausoleo di Che Guevara; con la fuga del dittatore Batista, la notte di capodanno del 1959, Fidel entra a Santiago tra ali di folla e designa la città capitale provvisoria di Cuba; l’8 gennaio del 1959 Fidel e i rivoluzionari entrano nella capitale, L’Avana.

Instaurato il governo rivoluzionario, nel 1960 viene decretata la nazionalizzazione delle proprietà straniere, in particolare statunitensi, sull’isola; nel 1961 l’operazione militare degli Stati Uniti, pianificata dalla CIA, di rovesciamento del governo rivoluzionario con la tentata invasione di Playa Girón (comunemente nota come la Baia dei Porci), viene sconfitta e respinta; quello stesso 1961, con uno storico discorso, viene dichiarato il carattere socialista della rivoluzione cubana. Con le parole di Fidel, «ciò che gli imperialisti non possono perdonarci è che siamo qui, è la dignità, l’integrità, il coraggio, la fermezza ideologica, lo spirito di sacrificio e lo spirito rivoluzionario del popolo di Cuba. Questo è quello che non possono perdonarci… che siamo qui, sotto il loro naso, e che abbiamo fatto una rivoluzione socialista proprio sotto il naso degli Stati Uniti!».

Il bloqueo diventa la ritorsione violenta e criminale a questa nuova, imperdonabile per gli Stati Uniti, situazione. In base alla sezione 620 [a] della legge sull’assistenza all’estero, il governo statunitense stabilisce una sorta di “embargo” totale sul commercio con l’isola, formalizzando una serie di misure economiche e commerciali aggressive e unilaterali che erano state applicate contro Cuba sin dagli anni precedenti. La portata economica e politica del bloqueo è tale, riprendendo ancora le parole di Fidel, che «non è solo la proibizione da parte degli Stati Uniti di qualsiasi tipo di commercio con il nostro Paese, sia che si tratti di macchinari, sia che si tratti di qualcos’altro, di medicinali. Il blocco significa che a Cuba non si può vendere nemmeno un’aspirina per il mal di testa, o un farmaco antitumorale che può salvare una vita o alleviare le sofferenze di chi si trova alla fine della vita; nulla, assolutamente nulla, può essere venduto a Cuba!». Ogni anno, il report informativo del governo cubano aggiorna sul volume e sugli effetti del bloqueo criminale e questi dati sono importanti per avere un’idea dell’impatto che queste misure ritorsive e coercitive, illegittime e illegali, hanno sulla vita di un’isola di poco meno di 110 mila kmq e poco meno di 12 milioni di abitanti.

Il documento, aggiornato al 2022, esordisce ricordando che «il blocco è una massiccia, flagrante e sistematica violazione dei diritti umani di tutti i cubani. In uno spietato atto di crudeltà, gli Stati Uniti hanno applicato, durante questo periodo, con precisione chirurgica, misure volte a colpire tutti i settori più sensibili della società cubana e creare disperazione nella popolazione»; sono ancora in vigore, inoltre, anche le oltre 240 misure coercitive unilaterali applicate contro Cuba da Donald Trump. «A prezzi correnti, i danni accumulati nei sei decenni di applicazione del bloqueo ammontano a oltre 150 miliardi di dollari. Tenendo conto del deprezzamento del dollaro rispetto al valore dell’oro nel mercato internazionale, il blocco ha causato danni quantificabili in oltre 1326 miliardi di dollari»: per intenderci, quanto l’intero PIL (2022) del Messico. Per questo, «non può essere ignorato l’effetto cumulativo del blocco, e le sue conseguenze, che hanno generato una situazione di scarsità nel Paese. Scarsità e difficoltà nell’approvvigionamento di cibo, medicinali e presupposti per sviluppare processi economici e produttivi sono fenomeni che spesso non possono essere immediatamente quantificati, ma che hanno un impatto innegabile sulla vita quotidiana del popolo cubano».

Senza contare gli effetti della legge Helms-Burton (1996), che ha esteso e rafforzato la portata extra-territoriale del blocco, attraverso misure coercitive contro Paesi terzi, al fine di ostacolare e bloccare le loro relazioni commerciali, finanziarie e di investimento con Cuba. In termini di impatto sui singoli settori, continua il documento, nel settore sanitario «solo nei primi sette mesi del 2021, il bloqueo ha causato perdite per un valore di 113.498.300 dollari»; nel settore agro-alimentare «gli effetti del bloqueo sono notevoli, con una stima, tra gennaio e luglio 2021, di 369.589.550 dollari»; nel settore dell’istruzione, della cultura e dello sport, «tra gennaio e luglio 2021, i danni provocati dal blocco ammontano a ca. 30.032.550 dollari»; ancora, «i danni economici e le perdite … al settore delle comunicazioni e delle tecnologie dell’informazione, comprese le telecomunicazioni, nel periodo gennaio-luglio 2021, sono stimati in 37.520.578 dollari». Infine, «gli effetti causati dal blocco al commercio estero cubano nel periodo gennaio-luglio 2021 raggiungono la cifra di 923.829.755 dollari.Il blocco delle transazioni finanziarie cubane, accompagnato da una campagna di intimidazione senza precedenti contro le banche e gli istituti finanziari che operano con Cuba, ha inciso in modo significativo sull’attività economica internazionale del Paese».

La sfera della salute e quella dell’istruzione sono, senza dubbio, due tra gli ambiti più direttamente aggrediti dagli effetti del bloqueo e che più direttamente si traducono in fortissime limitazioni nella completa fruizione di diritti essenziali come quello alla salute e alla scuola. Dopo la fine (1991) dell’esperienza storica dell’URSS, principale partner commerciale di Cuba, l’isola ha subito una riduzione del PIL del 35% in tre anni, blackout e un calo dell’apporto calorico nell’alimentazione. Tuttavia, mentre pressoché tutti i Paesi cosiddetti “a capitalismo avanzato” andavano adottando misure di tagli, dismissioni e privatizzazioni, nel corso di tutti gli anni Novanta, la spesa pubblica cubana per la sanità è aumentata del 13% solo tra il 1990 e il 1994, nella fase più dura e problematica del «período especial», seguito alla fine dell’Unione Sovietica, e si attesta oggi ad una quota pari al 12% del PIL, con un numero di medici pari a 8 ogni mille abitanti (in Italia sono 4 ogni mille abitanti).

Oggi, Cuba non solo mantiene un sistema sanitario interamente pubblico, gratuito e universale, ma continua anche ad essere all’avanguardia nei progressi scientifici su scala internazionale, come hanno dimostrato le missioni mediche di Cuba a sostegno anche dei Paesi più avanzati, tra i quali, com’è noto, l’Italia (due brigate mediche nel 2020, a Crema, in Lombardia, e a Torino, in Piemonte, e una terza missione medica, tra il 2022 e il 2023, in Calabria, e lo sviluppo, con sole risorse interne, di ben cinque vaccini, tra cui Abdala e Soberana, nello specifico, vaccini a subunità proteica e non a m-RNA). In un suo recente report (2021), l’UNESCO ha riconosciuto il primato di Cuba nella regione nella produzione e sviluppo di vaccini contro il coronavirus.

Quanto all’istruzione, gli effetti principali del bloqueo riguardano il pagamento di costi elevati per il noleggio o l’acquisto di tecnologia, da mercati lontani, con intermediazione di Paesi terzi, la mancanza o carenza di determinate risorse, le difficoltà e limitazioni negli approvvigionamenti: non potendo utilizzare il dollaro USA nelle transazioni internazionali, Cuba è costretta a pagare in euro, perdendo somme ingenti solo nella conversione di valuta. L’impossibilità di fornire tutti i moduli multimediali didattici necessari, le limitazioni nell’acquisizione di libri, strumenti e materiali audiovisivi che integrino l’apprendimento, le carenze negli approvvigionamenti di tecnologia avanzata sono solo alcune delle conseguenze dirette del bloqueo.

All’impossibilità di accedere agli strumenti informatici si aggiungono le problematiche causate dalle limitazioni nell’ampiezza della banda di internet, che incide non solo nel processo educativo e nelle funzioni didattiche, ma anche sull’aggiornamento e la manutenzione dei sistemi informatici in generale e del sistema bibliotecario nazionale; perfino l’accesso a diversi siti web è bloccato se il punto di accesso corrisponde a un IP ospitato sull’isola. Ciononostante, Cuba continua a difendere, sviluppare e fare avanzare il proprio sistema di istruzione, interamente pubblico, universale e gratuito, e ad esso destina oltre il 16% della spesa pubblica (in Italia è l’8%), numeri che fanno di Cuba il Paese latino-americano con il più alto indice di sviluppo dell’istruzione secondo i dati UNESCO. Il sistema di istruzione, in vigenza del bloqueo, garantisce il 100% dei bambini e dei ragazzi.

La dimensione della violazione (delle violazioni) dei diritti umani e della giustizia internazionale che il bloqueo configura è abnorme al punto tale che (praticamente) tutto il mondo si è ripetutamente espresso contro il blocco e per la sua cancellazione. L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha già condannato per trenta (trenta) volte il blocco statunitense nei confronti di Cuba; nell’ultima sessione (3 novembre 2022), il risultato della votazione è stato di 185 voti a favore della mozione di Cuba che chiedeva l’eliminazione del bloqueo, e solo 2 astensioni (il Brasile di Bolsonaro e l’Ucraina del regime di Kiev) e 2 contrari (Stati Uniti e Israele).

La prima volta che Cuba ha presentato un progetto di risoluzione alle Nazioni Unite per la cessazione del bloqueo è stata subito dopo la fine dell’Unione Sovietica, nel 1991; la prima volta che la risoluzione è stata messa ai voti è stata nel 1992; allora i favorevoli furono 59; 71 gli astenuti, solo 3 i contrari, Stati Uniti, Israele e Romania. USA e Israele si astennero nel 2016; per il resto sono gli unici al mondo a essere sistematicamente contrari alla fine del bloqueo; l’Ucraina, assente nel 2018, astenuta nel 2019 e nel 2021, ha votato contro nel 2022. Alla fine, la posizione nei confronti del bloqueo verso Cuba finisce per essere anche una sorta di «cartina di tornasole» della posizione degli Stati rispetto alle più elementari norme di giustizia e diritto internazionale.