martedì 24 maggio 2016

... per la Pace e i Diritti dei Popoli

pressenza.com/it/2016/05/rinnovare-limpegno-della-citta-napoli-la-pace-diritti-dei-popoli

Un invito, per condividere riflessione e partecipazione

Capitale del Mediterraneo, Città della Pace e dell’Accoglienza, la Città di Napoli è quotidianamente sfidata dalle crisi e dai conflitti che attraversano il “Mare di Mezzo”. La degenerazione delle primavere arabe e i nuovi conflitti che dilaniano la Sponda Sud. L’inquietudine di una Europa che si chiude sempre più al suo interno, innalzando muri e barriere, per respingere i profughi e i migranti. In un contesto sempre più violento e sempre più militarizzato, la Città di Napoli ha voluto rilanciare il suo impegno per la cooperazione internazionale e il suo sostegno ai diritti dei popoli: dai Balcani alla Palestina, passando per il Kurdistan, la Mauritania, il Sahara Occidentale, a fianco delle lotte di liberazione e di autodeterminazione, è più che mai tempo di confermare questo impegno, con una rinnovata attenzione per la pace, i diritti dei popoli e la giustizia internazionale.

Per rafforzare la sfida del cambiamento

Rinnovare l’impegno della Città di Napoli per la Pace e i Diritti dei Popoli

In occasione della presentazione della ricerca-azione di Gianmarco Pisa, La Pagina in Comune, Ad Est dell’Equatore, Napoli, 2015, ne discutono con i candidati e le candidate della lista “Napoli in Comune – a Sinistra” con Luigi de Magistris:

Gordon Poole, docente di lingua e cultura anglo-americana, attivista no-war,
Aristide Donadio, formatore per i diritti umani,  Centro Gandhi di Pisa,
Luca Saltalamacchia, avvocato, esperto di diritto internazionale e dei diritti umani,

intervengono:

Daniele Quatrano, candidato al Consiglio Municipale della V Municipalità, Arenella-Vomero,
Chiara Guida, candidata al Consiglio Comunale di Napoli,
Sandro Fucito, assessore uscente al patrimonio e alla cooperazione internazionale, candidato al Consiglio Comunale di Napoli,

partecipano attivisti/e ed associazioni per la pace, i diritti umani e la solidarietà internazionale.

Mercoledì 25 Maggio ore 18.00
Circolo “Che Guevara”, Via Enrico Alvino, 138, Napoli

#indietrononsitorna
http://napolincomune.it

martedì 3 maggio 2016

Maggio '99: Rugova in Italia


I Ponti di Belgrado

Dall'osservatorio di Prishtina, sulla falsariga dell'impegno per una “pace con giustizia” cui si ispirano i Corpi Civili di Pace, il crinale della memoria, che si interpone tra il 3 e il 6 Maggio, riporta la memoria e ispira l'attualità al ritorno sulla scena, nel pieno della guerra contro la Jugoslavia, di Ibrahim Rugova, figura chiave del movimento di autodeterminazione degli albanesi del Kosovo. Il ritorno di Rugova sulla scena politica si colloca in un momento particolarmente significativo nello svolgimento del conflitto kosovaro, in quel passaggio chiave della prima settimana di Maggio del 1999, nel quale, con il senno del poi, si sarebbe rintracciato il passaggio cruciale della guerra, il momento decisivo che ha finito con il determinarne le sorti, segnalando le prime avvisaglie di ciò che sarebbe successo dopo, gettando i presupposti del lungo post-conflitto kosovaro.

La NATO aveva già cominciato la sperimentazione di armi proibite e oltremodo pericolose, destinate a produrre danni immani e gigantesche devastazioni, dalle bombe ad uranio impoverito a quella alla grafite contro le centrali elettriche della Serbia; si erano già registrati i primi attacchi contro installazioni, strutture e servizi civili, come quello, tragico, contro l'autobus civile di passaggio sul ponte di Luzane (il 1° maggio) e, prima ancora, quello terribile e dolorosissimo contro giornalisti e operatori al lavoro presso la Radio Televisione Serba (il 23 Aprile) e la guerra stava degenerando in una spirale ritorsiva sempre più preoccupante, in cui sempre più manifesta diventava la volontà, più che di proteggere le popolazioni e le città del Kosovo, di piegare la resistenza della Jugoslavia e di creare i presupposti per la definitiva separazione del Kosovo. Al contempo, l'intensificazione sul fronte militare andava di pari passo ad una accelerazione sul fronte diplomatico, con l'esordio della prima, concreta, iniziativa diplomatica “in bello”, ad opera della Russia, e la convocazione di un G7 con all'ordine del giorno un piano di cessazione delle ostilità, in agenda il 6 maggio.

È in questa cornice che, il 5 maggio, Rugova arriva a Roma. È una figura chiave per il movimento di auto-determinazione kosovaro e, all'interno del movimento kosovaro, l'unica figura che sinceramente spinge per una soluzione politica, più che militare, alla crisi. Non a caso, la visita è stata consentita direttamente dalle autorità serbe e organizzata dal governo italiano, che pure ne aveva avvisato le autorità statunitense, europee e della NATO. Secondo una dichiarazione, riportata dalla stampa dell'epoca, di Milosevic: «Rugova è un uomo libero, ha chiesto di venire a Roma e voi ci avete chiesto di garantirgli libertà di movimento. Se lo accettate in Italia, venite a prendervelo». Accolto dall'allora ministro degli esteri italiano, Lamberto Dini, con questa dichiarazione: «Non è venuto da noi con alcun piano o mediazione preventivamente concordata; ha le sue idee, moderate, equilibrate, vicine a quelle del governo italiano, per una soluzione politica della crisi, soluzione politica che ha bisogno di passi da parte di Milosevic». Non a caso, le autorità serbe «approvano l'iniziativa», mentre la fazione separatista albanese kosovara, che da tempo ha messo ai margini la figura di Rugova e spinge sul pedale della guerriglia terroristica, ricorda che «il disarmo dell'UCK non è in discussione: siamo contrari a ogni proposta di contingente di pace che non sia sotto la guida della NATO».

Nel momento in cui l'iniziativa diplomatica poteva fornire argomenti ad un piano di pacificazione o, per lo meno, di cessazione delle ostilità, dal comando dell'UCK giunge la netta presa di distanza dalle anticipazioni del piano del G7 e perfino la contro-proposta, “a nome del governo provvisorio del Kosovo”, di tutt'altro segno rispetto alle dichiarazioni di Rugova: «deve “dichiarare apertamente il suo appoggio ai raid NATO contro la Jugoslavia”, “rispettare gli impegni presi firmando l'accordo unilaterale in Francia”, “dirsi completamente d'accordo con la necessità di un ritiro completo di tutte le forze serbe e allo spiegamento di forze NATO”». Un piano alternativo e di ben altro segno.

Rugova è stato da alcuni considerato “l'unica figura di leader politico sinceramente democratico che il Kosovo abbia conosciuto”. Era stato il leader della auto-determinazione albanese kosovara ed animatore del movimento di disobbedienza civile che si era incarnato nelle cosiddette istituzioni separate, attraverso le quali si esprimeva il rifiuto, da parte di larga maggioranza della popolazione albanese, del governo serbo sul Kosovo e, per farlo, si era ispirato alla nonviolenza, invocando sempre il “primato della politica” sulla “logica delle armi”. Per questo, sin dall'autunno 1998, da quando l'UCK aveva preso il sopravvento e perfino nel corso dei negoziato di Rambouillet, la sua figura era stata sempre più vissuta con insofferenza da parte delle forze separatiste, che spingevano per una soluzione militare, la completa separazione, l'asse con l'Alleanza Atlantica. A Roma, Rugova ribadisce le sue ragioni e il suo è un contributo diplomatico di rilievo: «Sono per la pace e per la resistenza nonviolenta». E poi, «creare un rete politica per costruire il futuro del Kosovo e … continuare il processo per una soluzione politica e per creare un clima di fiducia tra noi»

Certo, dichiara anche lui gli accordi-capestro di Rambouillet una “buona base per il futuro”, ma pone l'accento su una soluzione “politica e pacifica”. La disponibilità di Milosevic, la mediazione di Cernomyrdin e la resistenza della Jugoslavia avrebbero messo all'ordine del giorno del G7 di Bonn un piano di cessazione delle ostilità e di avvio della pacificazione. 

Anche quello, come si vedrà, purtroppo, ampiamente disatteso. 

Un Primo Maggio della Memoria

Monumento alle Vittime dell'attacco NATO alla RTS, 23 Aprile 1999

Quest'anno più degli altri, la ricorrenza del 1° Maggio, nei territori di quella che fu la Jugoslavia e, in particolare in Serbia e, a Sud, in Kosovo, si è ricoperta di una gamma di significati singolari, di un vero e proprio sedimento di memoria, che ha finito per parlare, come sempre nelle circostanze che hanno a che vedere con la "memoria collettiva", non solo del ricordo degli eventi del passato, ma soprattutto delle narrazioni che le storie e le memorie tramandano per le nuove e future generazioni.

A Belgrado, come del resto a Prishtina, come in tutte le capitali del mondo, il 1° Maggio è stato ed è anzitutto la Festa Internazionale dei Lavoratori e delle Lavoratrici (dei Lavoratori, non del Lavoro). Le origini del "Labour Day" sono remote nel tempo ed anche per questo, come spesso accade per le feste “ritualizzate”, finiscono per perdersi nella memoria collettiva. Non sarà forse del tutto inutile ricordare che la data è associata alle lotte e ai diritti dei lavoratori e delle lavoratrici perché legata alla rivendicazione universale della riduzione dell'orario di lavoro alle “otto ore”. Il 1° maggio del 1886, a Chicago, furono organizzati uno sciopero e una manifestazione per rivendicare le otto ore, una manifestazione repressa nel sangue, dalla polizia, dopo giorni di mobilitazione, e per la quale, l'anno successivo, furono condannati a morte quattro operai, quattro sindacalisti e quattro anarchici.

Quest'anno, a Belgrado come in tutti i territori serbi, come per tutte le popolazioni della ortodossia serba, dalla Republika Srpska al Kosovo Serbo, il 1° Maggio è stato però anche il giorno della Pasqua Ortodossa, che, come sempre per la Pasqua Cristiana, non ha una data fissa, ma variabile di anno in anno: la Pasqua viene infatti celebrata la prima domenica dopo il primo plenilunio di primavera, calcolato, secondo la tradizione ortodossa, in base al calendario giuliano, a differenza delle chiese cattoliche e riformate che, com'è noto, fanno riferimento al calendario gregoriano. La differenza fa sì che, mentre la pasqua cattolica sia normalmente celebrata tra la fine di marzo e la fine di aprile, la pasqua ortodossa possa essere celebrata tra i primi di aprile e la prima settimana di maggio: quest' anno proprio il 1° maggio. Inutile, in questa sede, tornare sul significato della Pasqua per i cristiani.

Tuttavia, al contempo, la ricorrenza si è tramutata insieme in festa della rinascita e celebrazione del dolore. Infuriavano i bombardamenti della NATO contro la Jugoslavia all'indomani del fallimento delle trattative capestro di Rambouillet, quando, proprio il 1° Maggio del 1999, un bus della Niš Express, con settanta passeggeri a bordo, nel corso della sua regolare tratta di servizio tra Niš, nel Sud della Serbia, e Prishtina, capoluogo della regione, fu centrato in pieno e distrutto da un missile. Il tutto presso il ponte di Luzane, circa 20 km a nord di Prishtina. Come riportano le cronache del tempo, una parte del bus rimase sul ponte a bruciare per un'ora, un'altra parte precipitò a valle. Circa 50 furono le vittime ed almeno una dozzina i feriti. Non si trattò affatto dell'unico caso, né si può ritenere a cuor leggero si trattasse di un errore (“danno collaterale” nella mostruosa terminologia ufficiale del tempo) irripetibile; tanto è vero che, in una seconda ondata di attacchi, un'ambulanza fu colpita ed un dottore fu gravemente ferito. Quasi ridondante aggiungere che, nel caso del bus di linea, in una tratta peraltro così frequentata, moltissimi fossero i civili, le donne, i bambini, gli anziani.

Maggio, in quel 1999, sin da quella che anche all'epoca era, e voleva essere ricordata come, la Festa Internazionale dei Lavoratori e delle Lavoratrici, fu un mese cruciale per la guerra contro la Jugoslavia, con una vera e propria escalation di attacchi ed aggressioni, prima e soprattutto dopo il varo del piano di “pacificazione” del G8, approvato il 6 Maggio. Cosa c'entra, in conclusione, tutto questo con la lunga transizione post-jugoslava? A questo punto non dovrebbe essere difficile dire: l'assalto alla Jugoslavia, culminato con la disgregazione degli anni Novanta e la guerra finale per il Kosovo nel 1999, ha, nel modo più drammatico, riportato la guerra nel cuore dell'Europa e compromesso la speranza della coesistenza multi-etnica. La fine del socialismo, della autogestione e della “fratellanza ed unità” ha comportato anche la fine dei miti fondativi e l'emersione di nuove narrazioni sostitutive. Se un significato particolare, questo 1° Maggio finisce per assumere, da queste parti, è proprio quello della sua ambivalenza, testimoniando, pur nell'affastellarsi delle date e dei luoghi della memoria, la complessa stratificazione che caratterizza la transizione post-jugoslava.

domenica 1 maggio 2016

Design per un Mondo Nuovo


Resterà aperta e visitabile per l'intero mese di maggio a Belgrado una mostra molto particolare, utile per indagare, da una prospettiva insolita, il percorso di costruzione della Jugoslavia e le modalità di comunicazione dei suoi valori fondativi, dei suoi paradigmi ideologici e dei suoi conseguimenti sociali. Si tratta della mostra “Design per un Mondo Nuovo” (in inglese «Design for a New World», dall'originale serbo «Dizajn za Novi Svet»), inaugurata presso il MIJ (Museo di Storia della Jugoslavia), lo scorso mese di Dicembre e la cui programmazione proseguirà sino al prossimo 29 Maggio.

È una mostra interessante perché, sebbene estremamente compatta per la scelta dei curatori di aggregare gli espositori per macro-aree tematiche e per abbinare, in ciascuna sezione, una parte espositiva (con l'insieme dei materiali nitidamente esposti “a vista”) e una parte antologica (con l'insieme dei restanti materiali raccolti in cartelle sfogliabili), porta alla luce una quantità notevole di materiali di archivio e si presta ad una gamma quanto mai estesa e variegata di possibili chiavi di lettura.

Prima di tutto: a quale “design” fa riferimento “il nuovo mondo” di cui si parla nel titolo? Essenzialmente, il design realizzato nel corso della storia della Jugoslavia Socialista, dai suoi artisti, grafici e designer, che di volta in volta, in un arco di tempo che va dal 1945-1946 al 1990-1991, tale quindi da coprire l'intera stagione di vita della “Seconda Jugoslavia”, si sono cimentati con le diverse funzionalità che lo strumento del design, quindi la grafica visuale adattata alle esigenze della comunicazione, poteva e può servire: dall'iconografia ufficiale alla propaganda politica, dalle campagne di massa alla pubblicità, dalla promozione di concetti, valori e figure fino all'arte “di stato” e i congressi di partito.

  
I curatori, Ivan Manojlović, attivo presso il MIJ stesso, e Koraljka Vlajo, “senior curator” presso il Museo delle Arti e dell'Artigianato a Zagabria, hanno risposto a questa sfida con una costellazione di espositori in una delle due sale espositive principali del museo, organizzando i materiali in otto sezioni: Simbologia di Stato, Culto di Tito, Rivoluzione e Lotta di Liberazione Nazionale, Culto dei Lavoratori, Servire il Popolo, Industrializzazione, Modernizzazione e Prosperità. Non una scelta particolarmente originale, forse, dettata da quelli che erano e sono sempre rimasti i temi dell'iconografia socialista nella Jugoslavia dell'Autogestione, ma indubbiamente efficace, sebbene non immune dal rischio dell'arbitrarietà: i pannelli, ad esempio, dedicati all'autogestione socialista (la forma specificamente jugoslava del controllo operaio della produzione o, in termini più essenziali, il ruolo non subalterno dei lavoratori all'interno della produzione jugoslava), alludono al “Culto dei Lavoratori” o fanno riferimento al “Servire il Popolo”? Sono un aspetto dell'Industrializzazione o non piuttosto una vera e propria Simbologia di Stato?

In un contesto sociale e politico, come quello della Jugoslavia Socialista, in cui il lavoro produttivo di valore è, al tempo stesso, soggetto e oggetto, protagonista e destinatario, dello sforzo della modernizzazione in senso socialista dello stato e della società ed in cui l'autogestione stessa ne è la forma specifica ed originale, ma anche un aspetto dello “stato del benessere” in veste jugoslava, c'è da aspettarsi che questi interrogativi rimangano insoluti e tali contraddizioni siano destinate a generare aporie, incertezze, inquietudini. Eppure, sta proprio in questo il fascino ed il rilievo di questa mostra. Pur non avendo davvero alcuna finalità apologetica, essa finisce per l'essere una vera e propria narrazione visuale - attraverso l'arte visuale - dell'evoluzione del motto costitutivo della “Fratellanza ed Unità” (che non a caso ritorna negli slogan che a volte accompagnano i manifesti in esposizione) e riesce in maniera efficace ad illustrare la novità e la originalità dell'esperienza sociale e politica jugoslava.
 

Vi riesce anche esaltando, soprattutto nelle sezioni dedicate alla Modernizzazione e alla Prosperità, la complessità delle relazioni della Jugoslavia con il resto del mondo: una apertura al mondo a 360°, in questa forma assolutamente unica tra tutte le esperienze di socialismo storico del XX secolo, e che si esprime tanto nell'influenza del design industriale occidentale sulla grafica visuale jugoslava (sia quando si tratta di promuovere i “brand” nazionali, sia quando si tratta di promuovere l'immagine turistica della Jugoslavia attraverso le sue molteplici bellezze), quanto su alcune soluzioni tecniche o stilistiche (l'uso della fotografia, il cromatismo, la stilizzazione) che rimandano ad un dialogo costantemente in corso, almeno a partire dagli anni Sessanta, con la “visual art” e il design occidentale.

Si può forse banalizzare la mostra nel senso di rappresentarla come “una galleria di poster”; in realtà, mai come in questa circostanza, la forma serve unicamente a veicolare la sostanza e i poster servono solo a materializzare i concetti grafici che vi sono impressi. Un'occasione importante, pensando all'importanza della comunicazione e della “interazione attraverso le idee” che questa mostra intende rappresentare, anche sullo sfondo dell'attuale panorama sociale e politico post-jugoslavo, anche in relazione allo svolgimento degli sforzi, degli attori della "pace con giustizia", per riconnettere tessuti di memoria e di relazione e per rigenerare ponti di dialogo e di cooperazione, oltre i muri e tutte le barriere. 

Primo Maggio a Belgrado

Primo Maggio a Belgrado: Terazije

Il primo maggio di Belgrado è stato, quest'anno, molto particolare e potenzialmente rivelatore. Vi si sovrapponevano, per uno scherzo del calendario, due tra le festività più importanti dell'anno: la storica Festa dei Lavoratori, la Giornata Internazionale dedicata ai Diritti e alle Lotte dei Lavoratori e delle Lavoratrici di tutto il mondo, tradizionalmente associata al 1° Maggio, e la Pasqua Ortodossa, la festa più importante e, senza dubbio, una delle più sentite nel calendario liturgico serbo, che, quest'anno, è venuta a cadere proprio il 1° Maggio, in occasione dell' “International Labour Day”.

Le origini del Labour Day sono remote nel tempo ed anche per questo, come spesso accade per le feste “ritualizzate”, finiscono per perdersi nella memoria collettiva. Non sarà forse del tutto inutile ricordare che la data è associata alle lotte e ai diritti dei lavoratori e delle lavoratrici perché legata alla rivendicazione universale della riduzione dell'orario di lavoro alle “otto ore”. Il 1° maggio del 1886, a Chicago, furono organizzati uno sciopero e una manifestazione per rivendicare le otto ore, una manifestazione repressa nel sangue, dalla polizia, dopo giorni di mobilitazione, e per la quale, l'anno successivo, furono condannati a morte quattro operai, quattro sindacalisti e quattro anarchici.

Quest'anno, a Belgrado come in tutta la Serbia, il 1° maggio è stato però il giorno della Pasqua Ortodossa, che, come sempre per la Pasqua Cristiana, non ha una data fissa, ma variabile di anno in anno: la Pasqua viene infatti celebrata la prima domenica dopo il primo plenilunio di primavera,  calcolato, secondo la tradizione ortodossa, in base al calendario giuliano, a differenza delle chiese cattoliche e riformate che, com'è noto, fanno riferimento al calendario gregoriano. La differenza fa sì che, mentre la pasqua cattolica viene normalmente celebrata tra fine marzo e fine aprile, la pasqua ortodossa può essere celebrata tra i primi di aprile e la prima settimana di maggio: quest'anno proprio il 1° maggio. Inutile, in questa sede, tornare sul significato della Pasqua per i cristiani.

Meno inutile, e degno di qualche considerazione, registrare la circostanza della doppia ricorrenza nella capitale della Serbia, Paese dalla forte e profonda tradizione cristiano-ortodossa, Belgrado. Dove, per effetto della singolare coincidenza e degli effetti della lunga transizione post-jugoslava (le due circostanze hanno più di una superficie di contiguità), il risultato è che della Festa dei Lavoratori praticamente non ci si è neanche accorti, tale è stato il “peso” della ricorrenza pasquale e tale è ormai diventato lo svuotamento del significato del lavoro, con decine di esercizi commerciali, soprattutto bar, ristoranti, chioschi turistici, aperti, talvolta l'intera giornata, praticamente come se nulla fosse. 

L'effetto specifico della Pasqua è stato che, se usualmente la sinistra e il sindacato organizzano in occasione del 1° Maggio una manifestazione e un corteo per le zone del centro della capitale, essenzialmente Terazije e, ovviamente, Piazza della Repubblica, luogo dei raduni politici per eccellenza, quest'anno non se n'è vista neanche l'ombra, se non fosse stato per un corteo auto-gestito da organizzazioni militanti di base, radicale o antagonista, con un centinaio di persone. Non si è vista né una autentica organizzazione né una efficace mobilitazione popolare, pochissimi cittadini hanno mostrato interesse alla "parada", solo i turisti si fermavano a fare riprese e scattare fotografie.

La Pasqua ha finito per sussumere, in qualche modo, l'intera gamma dei significati della festa: la celebrazione, la ricorrenza, la pausa dal lavoro, per chi se la è potuta consentire, magari l'uscita fuori porta e la passeggiata per parchi e musei; tutti i significati della festa, tranne uno: quello di ricordare e fare avanzare i diritti e le conquiste di tutti i lavoratori e di tutte le lavoratrici e farlo, magari, in coerenza con i presupposti della celebrazione stessa, vale a dire quella di unire tutti i lavoratori e le lavoratrici del mondo (si perdoni la semplicità, è proprio così) in una battaglia comune per una serie di diritti universali, tra i quali, appunto, quello della riduzione dell'orario di lavoro e di condizioni di lavoro più sicure, giuste e dignitose. In questo 1° Maggio a Belgrado, insomma, si è visto tutto, tranne che la politica, in una delle feste che eravamo abituati a considerare tra le più cariche di politica dell'intero calendario e tra le più attese e meglio organizzate dalle forze progressiste.

Cosa c'entra tutto questo con la lunga transizione post-jugoslava? A questo punto non dovrebbe essere difficile dire: la fine del socialismo, della autogestione e della “fratellanza ed unità” ha comportato anche la fine dei miti fondativi e l'emersione di nuove narrazioni sostitutive. Tra queste, in particolare in Serbia, il sostrato profondo della lunga durata nazionale e religiosa, emerge ancora e profondamente, caratterizzando questa lunga transizione e facendo sorgere nuovi interrogativi. Per quanti di noi si impegnano per la trasformazione costruttiva dei conflitti e per il progresso delle ragioni della pace e della giustizia (meglio: della pace con giustizia, della "pace positiva"), come negli auspici del progetto PRO.ME.T.E.O., una nuova, esigente, occasione di impegno, sul terreno dei tessuti sociali e della costruzione di condivisione, delle memorie sociali e collettive per l'avvenire.