domenica 19 agosto 2018

Kosovo: la tentazione della separazione etnica?

Monumento NEWBORN, per il decennale della indipendenza, Prishtina

I luoghi comuni si moltiplicano, in un agosto in cui i cosiddetti “Balcani Occidentali” sembrano avere riguadagnato la scena; e, in questa cornice, il Kosovo in particolare. La cancelliera tedesca Angela Merkel è stata l’ultima, in ordine di tempo, proprio intorno alle giornate di Ferragosto, ad intervenire sulla questione più sensibile, che pure sembra affermarsi anche nei circoli diplomatici e nelle osservazioni degli analisti: una inedita partizione, magari nella forma di uno «scambio di territori», tra la Serbia ed il Kosovo, per giungere finalmente ad un accordo risolutivo tra le parti.
 
«Per la Germania la ridefinizione dei confini è una questione chiusa, quindi come andare contro questa posizione? È ovvio che ci vorrà molto più tempo di quanto si sarebbe potuto immaginare. Ciò che qualcuno può aver pensato, che un accordo possa essere raggiunto nel giro di due o tre mesi, è qualcosa da dimenticare». Così ha sintetizzato i termini della questione il presidente serbo, Aleksandar Vučić, che pure era sembrato, negli ultimi tempi, caldeggiare questa ipotesi.
 
Ma cosa si intende per “ridefinizione dei confini”? Mascherata dietro il linguaggio diplomatico e coperta, di volta in volta, da sinonimi ed eufemismi, sia in alcuni passaggi con la stampa, sia in una recente presa di posizione pubblica a Šid, nel nord della Serbia, non distante dalla Croazia, la proposta è stata più volta ribadita, non solo da Vučić, ma  anche da alcuni alti ufficiali del governo serbo; ed è rimbalzata a Prishtina, dove sembra avere trovato alcuni tra i leader albanesi kosovari, e in primo luogo il presidente stesso della regione separatista, Hashim Thaçi, non contrari.
 
Qualche tempo fa, la premier serba Ana Brnabić, in una presa di posizione pubblica, aveva precisato quale dovrebbe essere il carattere di fondo di una soluzione di compromesso equilibrata, capace di spianare la strada ad un accordo tra Belgrado e Prishtina: tutti dovranno poter ottenere qualcosa, ciascuno dovrà cedere qualcosa. È impensabile un accordo in cui l’una o l’altra delle due parti possa ambire ad ottenere il 100% di ciò che pretende. È da lì che sia il presidente serbo, sia, in maniera più netta, la leadership albanese kosovara, hanno iniziato a porre l’accento sull’esistenza di «linee rosse», dei limiti invalicabili, o conditio sine qua non, nel quadro delle trattative in corso.
 
Una piena indipendenza “di fatto”, senza il riconoscimento ufficiale della sovranità del Kosovo, è il punto di vista di Belgrado. Riconoscimento pieno dello stato kosovaro e adesione a tutte le organizzazioni internazionali, secondo, invece, il punto di vista di Prishtina. Mediati dall’alto rappresentante per la politica estera dell’Unione Europea a Bruxelles, i dialoghi diplomatici tra serbi e albanesi kosovari non stanno dando, tuttavia, i frutti sperati; anzi, gli ultimi incontri nel mese di luglio, prima dei prossimi, forse già a settembre, sono stati definiti i più difficili degli ultimi tempi.
 
I «luoghi comuni» non sono finiti, se è vero che, in una recente conferenza presso l’Hotel Moskva, nel cuore della capitale, Belgrado, il ministro degli esteri serbo, Ivica Dačić, ha sottolineato come proprio un certo cambio di atteggiamento da parte dell’amministrazione statunitense sia stato tra i presupposti dell’apertura della nuova opzione, quella relativa alla “ridefinizione dei confini”: gli Stati Uniti hanno sempre considerato “chiusa” la questione kosovara con la proclamazione dell’indipendenza (dieci anni fa, il 17 febbraio 2008); adesso sembrano più propensi a disinnescare il «pilota automatico» e più aperti ad una soluzione alternativa raggiunta direttamente da Belgrado e Prishtina.
 
Purché non sia una soluzione che scoperchi per l’ennesima volta il «vaso di Pandora»: lo scambio di territori cui si sta guardando rischia di essere pericoloso e minaccia di scatenare una reazione a catena di portata regionale. Si tratta, infatti, di uno scambio di territori per linee etniche: i confini sarebbero ritracciati in modo che rientrerebbero sotto la piena sovranità serba i distretti a maggioranza serba del Kosovo settentrionale (tra Leposavić, Zvečan, e Zubin Potok, fino a Kosovska Mitrovica), mentre al Kosovo verrebbe assegnata l’estrema parte sud-orientale della Serbia, la zona, a maggioranza albanese, della valle di Preshevo, con le municipalità di Bujanovac, Medvedja, e la stessa Preshevo.
 
D’altra parte, come ha scritto Gordana Filipović, «due decenni dopo la disintegrazione della ex Jugoslavia, nel conflitto più sanguinoso dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, riscrivere i confini rischierebbe di destabilizzare una regione ancora alle prese con gravi tensioni tra i vari gruppi», serbi, albanesi, croati, bosniaci, macedoni. La Republika Srpska potrebbe rivendicare la separazione dalla federazione croato-musulmana cui è “unita” nel contesto, anche questo nato da una riscrittura post-bellica dei confini, della Bosnia Erzegovina. La Macedonia, ancora alle prese con la disputa con la Grecia sul proprio nome, è popolata da una forte componente albanese, non insensibile al richiamo separatista. 
 
Perfino la parola “guerra” sembra, purtroppo, tornare in auge. Contrario all’apertura mostrata da Thaçi nei confronti della proposta sui confini, il premier albanese kosovaro, Ramush Haradinaj, si è spinto al punto da dichiarare che la guerra ha sancito questi confini, e solo una nuova guerra potrà definirne di nuovi. Nessuno sembra o vuole ricordare che un accordo di principio tra le due capitali è già stato siglato: risale al 19 aprile 2013, lascia intatti i confini, definisce lo status del Kosovo senza un suo riconoscimento ufficiale ed esplicito da parte della Serbia, prevede, all’interno dei confini kosovari, la formazione di una comunità dei comuni serbi, sulle dieci municipalità a maggioranza serba della regione, dunque non solo i distretti del Nord del Kosovo, dotata di sostanziale autonomia. 

Potrebbe essere il viatico per risolvere la questione in maniera costruttiva, nel senso che, citando Daniel Serwer della John Hopkins University, «se la Serbia e il Kosovo vorranno essere stati democratici e membri dell’UE, dovrebbero lasciare le loro minoranze nazionali entro i confini esistenti». Ed ovviamente, impegnarsi lungo la strada di un accordo reciprocamente accettabile, e nella tutela dei diritti di tutti, in particolare delle minoranze nazionali. Dovremmo davvero lasciarci alle spalle gli incubi degli “stati etnici”. Ma non sembra sia ancora, purtroppo, arrivato il momento. 

Linkto: ildialogo.org
 

sabato 4 agosto 2018

Contro il revisionismo e il negazionismo. Il caso Nedić

I «Tre Pugni», simbolo del notevole Memorial Park di Bubanj, a Nis, nel sud della Serbia,
in memoria dei caduti negli eccidi nazisti in Serbia tra il 1942 e il 1944
e della Lotta di Liberazione della Jugoslavia
(Foto di Gianmarco Pisa, Missione in Serbia, 09-20 Luglio, 2018)

L’Alta Corte di Belgrado, con una decisione assunta lo scorso 11 luglio, ma resa pubblica solo alla fine di luglio, ha respinto la richiesta di riabilitazione che avrebbe dovuto, nelle intenzioni dei proponenti, portare all’annullamento del decreto delle autorità jugoslave dell’epoca, in base al quale Milan Nedić fu dichiarato «nemico del popolo» e conseguentemente privato dei diritti politici e delle proprietà private. Si tratta del decreto assunto dalle autorità della Jugoslavia post-bellica, che si incamminava lungo il cammino del socialismo jugoslavo, un esperimento che si sarebbe poi rivelato interessante ed inedito nella storia del socialismo realizzato, e che aveva conquistato la propria libertà a seguito di una eroica lotta di resistenza partigiana, una delle più impressionanti in Europa, contro gli occupanti nazisti e i collaborazionisti locali. 

I proponenti avevano avanzato la richiesta di riabilitazione riferendosi alle decisioni delle autorità jugoslave come «infondate» dal punto di vista giuridico e amministrativo, ritenendo, di conseguenza, che la condanna del generale collaborazionista sarebbe stata decisa esclusivamente in forza di una decisione politica e per ragioni eminentemente ideologiche. Insomma, nella domanda era contenuto, implicitamente, anche il tentativo di una riabilitazione revisionistica, che puntasse a fare passare Milan Nedić come “vittima”, ingiustamente privato della libertà e sottoposto a processo politico. Peraltro, la decisione della corte giunge ad esito di un iter giudiziario lungo ed articolato, se è vero che il procedimento per la riabilitazione di Nedić è stato avviato, ormai, dieci anni fa, nel 2008, e che le udienze innanzi alla corte, alla presenza del pubblico, hanno avuto inizio solo verso la fine del 2015, trovando, peraltro, subito eco sulla stampa nazionale.

Non c’è dubbio, per la forma e per la tempistica, che l’intera operazione rappresenti un tentativo di riabilitazione postuma e si inscriva nel contesto di «revisionismo diffuso» nel dibattito e nella letteratura storiografica dei Paesi della ex Jugoslavia dopo la fine dell’esperienza socialista e la disgregazione della federazione multinazionale. Non si tratta peraltro di un caso isolato, non solo nell’Europa dell’Est, quando il venire meno delle esperienze di democrazia popolare e di provenienza antifascista, unito alla generale trasformazione che quei Paesi andavano affrontando e all’affievolirsi della memoria pubblica intorno agli eventi della resistenza, della liberazione e delle trasformazioni sociali post-belliche, ha dato nuova linfa a tentativi di ridefinizione delle memorie e riscrittura della storia, spesso ad uso e consumo delle nuove élite.

Lo stesso Milan Nedić è stata una delle figure più controverse della storia serba contemporanea: politico e generale, già nel 1941 fu nominato presidente del cosiddetto “Governo di Salvezza Nazionale” della Serbia, vale a dire il «governo fantoccio» delle autorità naziste d’occupazione del Paese, che avrebbe dovuto allineare il governo e l’amministrazione del Paese alle decisioni dell’Asse, sostenendone in particolare lo sforzo bellico, le campagne di occupazione e di aggressione, le deportazioni e lo sterminio. Ciononostante la sua figura è divenuta paradossalmente controversa negli anni Novanta e in particolare nel corso degli anni Duemila, quando nel dibattito pubblico sono comparse anche posizioni inclini a considerare Nedić non tanto un «nemico del popolo», criminale o traditore, quanto piuttosto un patriota, che ha difeso l’integrità della Serbia e ha combattuto per gli interessi del popolo serbo sotto occupazione della Germania nazista.

È ovviamente, come capo del governo serbo nel corso dell’occupazione, corresponsabile di attività legate alla Shoah, all’istituzione di campi di concentramento e della persecuzione di ebrei, comunisti e antifascisti. Né di poco conto il fatto che, all’indomani della liberazione della Serbia, si ritirò con i Tedeschi in Austria, cercando di organizzare anche una resistenza nazionalista alla nuova Jugoslavia socialista. Arresosi agli Alleati, fu consegnato alle nuove autorità jugoslave; condotto in arresto nel gennaio del 1946, si è suicidato, il 4 febbraio, prima che fosse aperto il processo per collaborazionismo, crimini di guerra e contro l’umanità.

Il direttore del Centro Simon Wiesenthal, Efraim Zuroff, a tal proposito, ha ricordato che il ruolo svolto da Nedić, come primo ministro dello “stato quisling” che ha servito gli interessi del Terzo Reich in Serbia, è di per sé una ragione sufficiente per respingerne la riabilitazione. Secondo quanto ha riportato la stampa, «l’inerzia di fronte all’esigenza di salvare serbi ed ebrei è una prova evidente della sua gravissima responsabilità nell’aver accettato di guidare un “governo fantoccio” che ha tradito i cittadini della Serbia» e ha servito gli interessi del Reich. 300.000 i serbi uccisi, 80.000, tra questi, nei campi di concentramento, nel corso della guerra mondiale e della occupazione della Serbia. Non meno di un milione e mezzo i morti jugoslavi nel corso della guerra, almeno 300.000 i partigiani di Tito caduti per la liberazione del Paese.