UTOPIJA, Mikser Festival Belgrado, 2014: Foto di G. Pisa |
Nel caldo di agosto, il Kosovo torna, ancora una volta e significativamente, sulla scena. Non ha suscitato particolare eco sulla stampa nostrana, ma è diventata uno dei topic salienti del confronto regionale nei Balcani, soprattutto tra Belgrado, Prishtina e Tirana, la recente iniziativa del presidente serbo, Aleksandar Vučić, di lanciare un inedito “dibattito nazionale” sulla questione kosovara e sul futuro del Kosovo.
Una iniziativa inedita, per le modalità, prima ancora che per i contenuti, che pure non hanno mancato di destare sorpresa e reazioni. Il Kosovo resta, infatti, se non più il centro della vita politica e del dibattito pubblico in Serbia, una questione tuttavia cruciale, che investe, a sua volta, una notevole quantità di implicazioni: la sopravvivenza dei serbi kosovari e la possibilità della riconciliazione tra serbi e albanesi; l’emersione dalla povertà e dalla disoccupazione e le prospettive di sviluppo e di cooperazione nell’area; la questione dello status, il rispetto della risoluzione 1244 del 1999, il percorso di adesione alla UE.
Ora, per la prima volta, con un lungo e ambizioso scritto su Blic, il 24 luglio scorso, Vučić riporta il Kosovo al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica, non per proporre una soluzione (della quale non c’è, ragionevolmente, traccia nel suo articolo), ma per impostare il tema: ragionare su una soluzione della questione kosovara che «se per un verso non può basarsi nei miti e nei conflitti, per l’altro non può nemmeno risolversi nel cedere su tutti i nostri interessi statali e nazionali» e che richiede «un approccio serio e responsabile, coraggioso e realistico nello stesso tempo, con lo sguardo rivolto al futuro».
Le reazioni non sono mancate. I primi a “dissodare” nel merito la proposta e affacciare prime ipotesi di contenuto sono stati il vicepremier serbo e il ministro degli esteri dell’autogoverno kosovaro. Ivica Dačić ha precisato, lo scorso 13 agosto, un suo precedente intervento, chiarendo che la proposta da lui avanzata per una soluzione sostenibile della questione kosovara «non consiste nella partizione, ma nella demarcazione»: si tratta di «un compromesso tra diritti storici e nazionali, che comporta una precisa demarcazione o delimitazione (delineation in inglese, razgraničenje in serbo) di ciò che è serbo e ciò che è albanese».
Alla precisazione per la quale ciò non comporterà, in alcun caso, da parte della Serbia, un riconoscimento formale della indipendenza auto-proclamata del Kosovo, sebbene implicherà la rinuncia a rivendicazioni della Serbia sulla regione, hanno fatto seguito le dichiarazioni di Enver Hoxhaj, secondo il quale è destinato al fallimento ogni dialogo che non comporti alla fine, in ogni caso, il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo. Non solo: «le idee della Serbia sul cambiamento dei confini sono pericolose e inaccettabili».
Ovviamente, non si può che guardare con favore a ogni tentativo che muova nella direzione del dialogo e del negoziato, che si basi su principi di verità e di giustizia e guardi prima di tutto ai bisogni e al benessere di tutti quanti vivono in Kosovo, senza distinzioni di appartenenza etnica, linguistica, religiosa. E forse, proprio per questo, la prospettiva più salutare da cui leggere questa dinamica è quella di rispettare la forma, oltre che i contenuti, di questo rinnovato dialogo: quella cioè, così com’è stata avanzata e potrà svilupparsi, di un dibattito interno e aperto, di e tra serbi e albanesi, senza, si spera, ingerenze e condizionamenti esterni.
È anche un tentativo, del resto, per rilanciare gli sforzi di un negoziato che stenta a prendere quota, complici anche le recenti elezioni in Serbia e in Kosovo, dove, in particolare, ad oltre due mesi dalle ultime elezioni politiche, non è stato ancora eletto il presidente del parlamento e non si è ancora potuto insediare un governo, la formazione della cui maggioranza parlamentare appare, per di più, delicata e problematica.
Dopo quello di febbraio, infatti, si è svolto un solo incontro a Bruxelles tra le leadership della Serbia e del Kosovo, ai primi di luglio, e non sono stati fatti passi avanti nell’implementazione di quello che, ad oggi, è la base del percorso negoziale, gli accordi del 19 aprile 2013 e del 25 agosto 2015, che fondano la Comunità dei Comuni a maggioranza serba del Kosovo, ne riconoscono l’autonomia nel quadro legale kosovaro, ne individuano le competenze nei settori dello sviluppo economico, istruzione, sanità, pianificazione urbana e pianificazione rurale, istituiscono un comando di polizia regionale per il Kosovo del Nord (a maggioranza serba) e una divisione della Corte d’Appello a Mitrovica Nord, l’area serba della città divisa di Mitrovica.
Difficile prevedere sviluppi ed esiti di tutto questo, al netto di ciò che vogliono le cancellerie occidentali («la Germania ha riconosciuto il Kosovo, la Serbia no», disse lapidariamente, qualche anno fa, Angela Merkel); com’è stato più volte ribadito, incamminarsi lungo una strada nella quale si possano, legittimamente, costruire le condizioni della trasformazione positiva e del mutuo beneficio, è senza dubbio un primo passo.
Una iniziativa inedita, per le modalità, prima ancora che per i contenuti, che pure non hanno mancato di destare sorpresa e reazioni. Il Kosovo resta, infatti, se non più il centro della vita politica e del dibattito pubblico in Serbia, una questione tuttavia cruciale, che investe, a sua volta, una notevole quantità di implicazioni: la sopravvivenza dei serbi kosovari e la possibilità della riconciliazione tra serbi e albanesi; l’emersione dalla povertà e dalla disoccupazione e le prospettive di sviluppo e di cooperazione nell’area; la questione dello status, il rispetto della risoluzione 1244 del 1999, il percorso di adesione alla UE.
Ora, per la prima volta, con un lungo e ambizioso scritto su Blic, il 24 luglio scorso, Vučić riporta il Kosovo al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica, non per proporre una soluzione (della quale non c’è, ragionevolmente, traccia nel suo articolo), ma per impostare il tema: ragionare su una soluzione della questione kosovara che «se per un verso non può basarsi nei miti e nei conflitti, per l’altro non può nemmeno risolversi nel cedere su tutti i nostri interessi statali e nazionali» e che richiede «un approccio serio e responsabile, coraggioso e realistico nello stesso tempo, con lo sguardo rivolto al futuro».
Le reazioni non sono mancate. I primi a “dissodare” nel merito la proposta e affacciare prime ipotesi di contenuto sono stati il vicepremier serbo e il ministro degli esteri dell’autogoverno kosovaro. Ivica Dačić ha precisato, lo scorso 13 agosto, un suo precedente intervento, chiarendo che la proposta da lui avanzata per una soluzione sostenibile della questione kosovara «non consiste nella partizione, ma nella demarcazione»: si tratta di «un compromesso tra diritti storici e nazionali, che comporta una precisa demarcazione o delimitazione (delineation in inglese, razgraničenje in serbo) di ciò che è serbo e ciò che è albanese».
Alla precisazione per la quale ciò non comporterà, in alcun caso, da parte della Serbia, un riconoscimento formale della indipendenza auto-proclamata del Kosovo, sebbene implicherà la rinuncia a rivendicazioni della Serbia sulla regione, hanno fatto seguito le dichiarazioni di Enver Hoxhaj, secondo il quale è destinato al fallimento ogni dialogo che non comporti alla fine, in ogni caso, il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo. Non solo: «le idee della Serbia sul cambiamento dei confini sono pericolose e inaccettabili».
Ovviamente, non si può che guardare con favore a ogni tentativo che muova nella direzione del dialogo e del negoziato, che si basi su principi di verità e di giustizia e guardi prima di tutto ai bisogni e al benessere di tutti quanti vivono in Kosovo, senza distinzioni di appartenenza etnica, linguistica, religiosa. E forse, proprio per questo, la prospettiva più salutare da cui leggere questa dinamica è quella di rispettare la forma, oltre che i contenuti, di questo rinnovato dialogo: quella cioè, così com’è stata avanzata e potrà svilupparsi, di un dibattito interno e aperto, di e tra serbi e albanesi, senza, si spera, ingerenze e condizionamenti esterni.
È anche un tentativo, del resto, per rilanciare gli sforzi di un negoziato che stenta a prendere quota, complici anche le recenti elezioni in Serbia e in Kosovo, dove, in particolare, ad oltre due mesi dalle ultime elezioni politiche, non è stato ancora eletto il presidente del parlamento e non si è ancora potuto insediare un governo, la formazione della cui maggioranza parlamentare appare, per di più, delicata e problematica.
Dopo quello di febbraio, infatti, si è svolto un solo incontro a Bruxelles tra le leadership della Serbia e del Kosovo, ai primi di luglio, e non sono stati fatti passi avanti nell’implementazione di quello che, ad oggi, è la base del percorso negoziale, gli accordi del 19 aprile 2013 e del 25 agosto 2015, che fondano la Comunità dei Comuni a maggioranza serba del Kosovo, ne riconoscono l’autonomia nel quadro legale kosovaro, ne individuano le competenze nei settori dello sviluppo economico, istruzione, sanità, pianificazione urbana e pianificazione rurale, istituiscono un comando di polizia regionale per il Kosovo del Nord (a maggioranza serba) e una divisione della Corte d’Appello a Mitrovica Nord, l’area serba della città divisa di Mitrovica.
Difficile prevedere sviluppi ed esiti di tutto questo, al netto di ciò che vogliono le cancellerie occidentali («la Germania ha riconosciuto il Kosovo, la Serbia no», disse lapidariamente, qualche anno fa, Angela Merkel); com’è stato più volte ribadito, incamminarsi lungo una strada nella quale si possano, legittimamente, costruire le condizioni della trasformazione positiva e del mutuo beneficio, è senza dubbio un primo passo.