Sarajevo, Tuzla, Žepa, Goražde, Bihać. E Srebrenica.
Sebbene sembrino quasi punti dispersi sulla mappa frastagliata della Bosnia Erzegovina e nulla paiano rievocare, salvo i nomi di Sarajevo, città dei mille mondi e delle mille culture, capitale multiculturale e ponte tra l’Oriente e l’Occidente d’Europa, e di Srebrenica, cui resta associata la memoria della pulizia etnica e degli eventi tragici della primavera-estate del 1995, intorno a queste sei località si sono sostanzialmente consumati i destini della Guerra di Bosnia (1992-1995).
Oggi tendiamo a dimenticare il prima, il durante e, forse ancora più sorprendentemente, il dopo del conflitto bosniaco: lo associamo a poche immagini e pochi luoghi, la memoria degli eventi tragici della guerra tende a schiacciare lo sfondo nello schema bipolare “buoni” contro “cattivi”, il ricordo della guerra finisce per condensarsi in una sequenza asettica, in cui svanisce il nesso di causa-effetto, aumenta la difficoltà nel darsi conto di fatti e motivazioni, si continua a violare, inconsapevolmente, la memoria delle vittime. Di tutte le vittime, come è inevitabile in un conflitto «etno-politico».
A Sarajevo, Tuzla, Žepa, Goražde, Bihać, e a Srebrenica, le Nazioni Unite avevano istituito le cosiddette “aree protette”. Ma i fatti si sarebbero incaricati di dimostrare la pratica impossibilità di proteggere effettivamente quelle aree, le città e i loro abitanti, e in questa pratica impossibilità finì per consumarsi l’ultima tappa, nell’estate del 1995, della pulizia etnica, con la distruzione delle comunità, le vittime di tutte le parti occorse negli attacchi, nelle provocazioni e nelle ritorsioni, scatenate da un capo all’altro del fronte, e dell’urbicidio, con la devastazione di intere città e villaggi.
Una pratica impossibilità, determinata da una cacofonia di cause e da un precipitare di interessi, quasi mai limpidi, spesso non dichiarati. Erano state le Nazioni Unite a istituire le aree protette con la risoluzione 824, dichiarando (art. 3) «che Sarajevo e altre zone sotto minaccia, in particolare le città di Tuzla, Zepa, Gorazde, Bihac, come pure Srebrenica, e i loro circondari, siano trattate come aree protette [safe areas] ... e siano libere da attacchi armati e ogni altro atto ostile».
A questa altezza, tra aprile e maggio 1993, la missione ONU (UNPROFOR) si mantiene, ancora per poco, entro i limiti del peace-keeping, vale al dire del tradizionale “mantenimento della pace”, legato al controllo delle linee del fronte e dei canali umanitari, e alla protezione delle zone e dei loro cittadini, chiedendo cooperazione a tutte le parti coinvolte (art. 5) e dichiarandosi pronta a intraprendere ulteriori misure (art. 7) per assicurare il pieno rispetto della risoluzione.
Un mese dopo, il 4 giugno 1993, però, il profilo della missione cambia, e da peace-keeping con compiti di prevenzione e di protezione, senza il ricorso diretto alla forza, si trasforma in un peace-forcing di fatto, un tentativo di imposizione degli accordi raggiunti in ambito internazionale, decidendo, con la risoluzione 836, di «estendere il mandato della UNPROFOR … a compiti di deterrenza nei confronti degli attacchi condotti contro le aree protette» (art. 5) e di «assumere tutte le misure necessarie, compreso l’uso della forza», specificando, tuttavia, di «agire in auto-difesa» (art. 9).
Dall’inverno 1992 alla primavera 1993, è lunga la lista di villaggi serbi ove si erano consumati massacri ad opera delle milizie bosniaco-musulmane: Bjelovac, Loznica, Siljkovici, Skelani. E Kravica, dove si sarebbe consumato uno degli episodi più tragici, per di più in occasione della celebrazione del Natale Ortodosso. Né le Nazioni Unite avevano, anche per la concomitanza dell’impegno militare intrapreso dalla NATO, possibilità concreta di tutelare le “aree protette”.
Per attuare il mandato della risoluzione 836, le Nazioni Unite disponevano di non più di ottomila uomini; erano almeno cinquemila gli uomini delle forze bosniaco-musulmane nella zona di Srebrenica; cinque carri armati e alcune centinaia di soldati serbi si presentarono nel luglio 1995 alle porte della città. Le Nazioni Unite, che avevano stimate necessarie almeno 60 mila unità per provvedere ai compiti previsti dal Consiglio di Sicurezza, si ritrovarono, in quello stesso luglio 1995, impotenti di fronte ai compiti loro assegnati, nel difendere l’enclave con poche centinaia di soldati olandesi.
Srebrenica cadde indifesa e la sua caduta segnò la conferma della nuova ripartizione etnica della Bosnia post-conflitto. Le milizie bosniaco-musulmane avevano abbandonato la città; le forze serbo-bosniache vi entrarono sorprendentemente indisturbate. «La verità è che gli Americani e Izetbegović avevano tacitamente ammesso che la preservazione di queste enclavi isolate in una Bosnia divisa non aveva alcun senso» avrebbe riferito, anni dopo, Carlos Martins Branco, già Osservatore Militare delle Nazioni Unite e poi vice-direttore dell’Istituto di Difesa Nazionale (IDN) del Portogallo.
Srebrenica rimane non l’unica, ma la più lampante testimonianza della distruzione della Bosnia, della crudele tragicità del conflitto etno-politico, delle pesanti responsabilità delle grandi potenze, ben al di là del ruolo svolto dalle Nazioni Unite sul campo, nella pulizia etnica e nella divisione della Bosnia. Una testimonianza da mantenere in vita, al di là della vulgata banalizzante, diffusa in Occidente, dei “buoni” contro i “cattivi”, per rendere il dovuto tributo alla memoria di tutte le vittime, di ogni lato del fronte, e per ricostruire la speranza in un futuro di pace e di convivenza.
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