Bo Yaser (Opera propria) [CC BY-SA 3.0] attraverso Wikimedia Commons |
«Il lavoro delle Nazioni Unite per raggiungere un accordo solido e stabile sul Governo [in Libia] è ancora in pieno svolgimento. Abbiamo bisogno di una soluzione equilibrata e duratura. Solo a quel punto potremo valutare - sulla base della richiesta di un governo legittimato - un impegno italiano, che comunque avrebbe necessità di tutti i passaggi parlamentari e istituzionali necessari. Dunque questo non è il tempo delle forzature, ma della prudenza, dell'equilibrio e del buon senso».
Così scrive il presidente del consiglio nella sua e-news del 5 marzo. Non sono d'accordo, perché non basta; e di fronte all'orribile precipizio della guerra, dire che non basta, equivale a dire che non va bene. Non è sufficiente una soluzione equilibrata, prudente, eventualmente - solo formalmente - legittima. È necessario impegnarsi a non intervenire militarmente, a ribadire in tutte le sedi che l'azione militare non è un'opzione percorribile, che non si può rispondere al caos (esacerbato dalle nostre guerre) con la guerra (con la quale si pretende di porre argine al caos).
Ricordate la notevole relazione di Carlo Galli a “Cosmopolitica”?: in primo luogo, «il compito della sinistra oggi è convivere con il conflitto per superarlo; con una volontà di pace che non entri nella logica, obsoleta e ipocrita, della “guerra giusta” e che non cerchi di “esportare la democrazia” con la guerra, sapendo che è la giustizia che previene e neutralizza la guerra»; in secondo luogo, «noi vogliamo essere la sinistra che fa passare il “caos” in “cosmo”, il disordine in ordine, con la politica, in modo che si possa dire, con il Poeta, che nell'immensa città del sole, il caos, finalmente cosmo, con l'umana compagnia, gli uomini, “tutti fra sé confederati”» (G. Leopardi, “La Ginestra”).
Abbiamo il compito, allora, di attenerci rigorosamente e di pretendere altrettanto rigoroso rispetto dell'art. 11 della Costituzione Repubblicana; respingere l'idea e la pratica della “pacificazione”, l'imposizione di un ordine o di una pace decisa o pretesa da noi; rispettare senza deroghe la autodeterminazione, la libera scelta dei popoli in ordine alle forme del loro sviluppo e del loro progresso. Dunque, prendendo ancora spunto da quella relazione, vi è bisogno di una “grande politica”: e nello scenario internazionale, di diplomazia, cooperazione, convergenza tra i popoli.
Non occorre, come pure è stato detto e scritto, una forza "che imponga il cessate il fuoco a tutte le parti in lotta"; si tratterebbe a tutti gli effetti di una operazione di "peace-enforcing": una misura controversa, secondo una parte consistente del dibattito internazionale al di fuori della legalità internazionale, in ogni caso con un chiaro carattere assertivo e di ingerenza. Diverso sarebbe il caso di un intervento di polizia internazionale, ma deve essere richiesto dalle autorità locali legittime, vedere l'esplicito consenso delle parti in causa e prevedere una cornice stabile di legalità internazionale; quest'ultima può essere prevista solo dalle Nazioni Unite.
Ribadire: ONU, non NATO. Per la sua composizione, per il suo comando e per la sua dottrina, la NATO è un dispositivo di aggressione a tutti gli effetti. Esattamente ciò di cui non abbiamo bisogno in questo scenario e, aggiungo, ciò di cui semmai dovremmo richiedere il superamento.
La "Dichiarazione Universale dei Diritti Umani" non obbliga ad alcun intervento di pacificazione dall'esterno, viceversa stabilisce, sin nel Preambolo, che i diritti umani siano protetti da "norme giuridiche" e conferma, all'art. 22, che la realizzazione dei diritti può avvenire solo "attraverso le sforzo nazionale e la cooperazione internazionale ed in rapporto con l'organizzazione e le risorse di ciascuno Stato".
I principi fondamentali dell'ordinamento internazionale restano quelli di auto-determinazione, sovranità popolare, non-ingerenza, non-discriminazione, e come dice l'art. 11 della Costituzione Repubblicana, rifiuto (anzi, perfino "ripudio") della guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali e, prima ancora, come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli.
Per questo, se si tratta di un dovere repubblicano e di un cimento politico, allora è necessario che tutte le articolazioni repubblicane dicano all'unisono “no alla guerra”: respingendo la guerra e l'aggressione e rivendicando con forza la politica e la pace. Il 9 Marzo è in calendario la discussione in Parlamento sulla Libia. Mobilitiamoci. Costruiamo iniziativa, azione, sensibilizzazione. Stendiamo documenti, volantini, ordini del giorno. Diamo una chance alla politica e alla pace.
Così scrive il presidente del consiglio nella sua e-news del 5 marzo. Non sono d'accordo, perché non basta; e di fronte all'orribile precipizio della guerra, dire che non basta, equivale a dire che non va bene. Non è sufficiente una soluzione equilibrata, prudente, eventualmente - solo formalmente - legittima. È necessario impegnarsi a non intervenire militarmente, a ribadire in tutte le sedi che l'azione militare non è un'opzione percorribile, che non si può rispondere al caos (esacerbato dalle nostre guerre) con la guerra (con la quale si pretende di porre argine al caos).
Ricordate la notevole relazione di Carlo Galli a “Cosmopolitica”?: in primo luogo, «il compito della sinistra oggi è convivere con il conflitto per superarlo; con una volontà di pace che non entri nella logica, obsoleta e ipocrita, della “guerra giusta” e che non cerchi di “esportare la democrazia” con la guerra, sapendo che è la giustizia che previene e neutralizza la guerra»; in secondo luogo, «noi vogliamo essere la sinistra che fa passare il “caos” in “cosmo”, il disordine in ordine, con la politica, in modo che si possa dire, con il Poeta, che nell'immensa città del sole, il caos, finalmente cosmo, con l'umana compagnia, gli uomini, “tutti fra sé confederati”» (G. Leopardi, “La Ginestra”).
Abbiamo il compito, allora, di attenerci rigorosamente e di pretendere altrettanto rigoroso rispetto dell'art. 11 della Costituzione Repubblicana; respingere l'idea e la pratica della “pacificazione”, l'imposizione di un ordine o di una pace decisa o pretesa da noi; rispettare senza deroghe la autodeterminazione, la libera scelta dei popoli in ordine alle forme del loro sviluppo e del loro progresso. Dunque, prendendo ancora spunto da quella relazione, vi è bisogno di una “grande politica”: e nello scenario internazionale, di diplomazia, cooperazione, convergenza tra i popoli.
Non occorre, come pure è stato detto e scritto, una forza "che imponga il cessate il fuoco a tutte le parti in lotta"; si tratterebbe a tutti gli effetti di una operazione di "peace-enforcing": una misura controversa, secondo una parte consistente del dibattito internazionale al di fuori della legalità internazionale, in ogni caso con un chiaro carattere assertivo e di ingerenza. Diverso sarebbe il caso di un intervento di polizia internazionale, ma deve essere richiesto dalle autorità locali legittime, vedere l'esplicito consenso delle parti in causa e prevedere una cornice stabile di legalità internazionale; quest'ultima può essere prevista solo dalle Nazioni Unite.
Ribadire: ONU, non NATO. Per la sua composizione, per il suo comando e per la sua dottrina, la NATO è un dispositivo di aggressione a tutti gli effetti. Esattamente ciò di cui non abbiamo bisogno in questo scenario e, aggiungo, ciò di cui semmai dovremmo richiedere il superamento.
La "Dichiarazione Universale dei Diritti Umani" non obbliga ad alcun intervento di pacificazione dall'esterno, viceversa stabilisce, sin nel Preambolo, che i diritti umani siano protetti da "norme giuridiche" e conferma, all'art. 22, che la realizzazione dei diritti può avvenire solo "attraverso le sforzo nazionale e la cooperazione internazionale ed in rapporto con l'organizzazione e le risorse di ciascuno Stato".
I principi fondamentali dell'ordinamento internazionale restano quelli di auto-determinazione, sovranità popolare, non-ingerenza, non-discriminazione, e come dice l'art. 11 della Costituzione Repubblicana, rifiuto (anzi, perfino "ripudio") della guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali e, prima ancora, come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli.
Per questo, se si tratta di un dovere repubblicano e di un cimento politico, allora è necessario che tutte le articolazioni repubblicane dicano all'unisono “no alla guerra”: respingendo la guerra e l'aggressione e rivendicando con forza la politica e la pace. Il 9 Marzo è in calendario la discussione in Parlamento sulla Libia. Mobilitiamoci. Costruiamo iniziativa, azione, sensibilizzazione. Stendiamo documenti, volantini, ordini del giorno. Diamo una chance alla politica e alla pace.
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