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La questione della tutela e della promozione dei
diritti umani, nella sua declinazione contemporanea, è stata sempre, a
partire almeno dalla fine della seconda guerra mondiale e dall'immane
tragedia segnata dalla Shoah, al tempo stesso, motivo di impegno e
apprensione per i difensori dei diritti e gli operatori di pace e
fonte di discussioni e diatribe in merito a politicizzazioni
e strumentalizzazioni a riguardo.
Per non farla troppo lunga, parto da uno spunto di
“riflessione” stimolato dai contenuti di un recente comunicato di
Amnesty International sulla Serbia e i Balcani, pubblicato il 17
Giugno scorso col titolo, molto impegnativo, «Serbia: l'adesione
all'Unione Europea è la chiave per porre fine all'impunità per i
crimini di guerra», provando ad articolare il contenuto di alcuni
interrogativi - nel verso di chiederci che senso possa avere una
riflessione più attenta e complessiva sui temi sollevati dal
comunicato e quale valore aggiunto possa rappresentare, tra gli altri
media, il cinema dei diritti umani come fonte di
pluralizzazione e conoscenza.
Articolando, di conseguenza, una possibile
riflessione in tre punti, apparentemente contraddittori, se non
mutuamente escludenti, ed invece molto legati, sostanzialmente, tra
di loro.
Il primo: essere d'accordo sull'"effettività",
"efficacia" ed "intensità" della ricerca,
dell'individuazione e della consegna alla giustizia dei perpetratori
di gravi crimini del diritto internazionale o di gravi violazioni di
diritti umani, fondamentali e universali, dunque per questo naturali
e indivisibili, è ovvio e rasenta la banalità, sebbene non possa
darsi, in ogni caso, per scontato o acquisito.
D'altro canto, un modo meno ovvio di affrontare la
vicenda sarebbe quello di condurre una indagine più approfondita su
tutte le violazioni più gravi e significative (la gravità e la
rilevanza, poi, in base a quali parametri, qualitativi e/o
quantitativi?... anche qui il discorso ci porterebbe lontano ed anche
la letteratura sull'argomento potrebbe non essere granché di aiuto),
occorse in "tutti" i Paesi e per responsabilità di "tutte"
le autorità politiche e militari (una cosa è un Paese, una cosa un
popolo, un'altra cosa ancora una sua leadership politico-militare)
attivamente impegnatesi nei conflitti a cavallo tra la "guerra
dei dieci giorni" del 1991 (Slovenia) e gli "scontri dei
valichi" tra il Luglio e il Novembre 2011 (Kosovo).
Si verrebbe, in pratica, a delineare una geografia
dell'ignoto. Qualcuno ricorda, ad esempio, Karlovac (1991-1992), i
massacri della Sava e di Bijelijna (1992), i fatti di Medak Pocket
(1993), il massacro di Ahmići (1993), la strage di Markale (1994),
l'assedio di Knin (1995), la strage di Niš (1999) e il massacro di
Krushë (1999), fino ai pogrom del 17 Marzo 2004 e gli scontri
dell'autunno 2011 (Kosovo)?... Si tratta, come si vede, di un intero
ventennio, ma solo così, con gli strumenti ed i linguaggi opportuni,
si può dare minimamente la portata di ciò che è accaduto e, per
alcuni versi e nelle loro conseguenze, continua ad accadere nei
"Balcani".
Il secondo: mettere sul "banco degli imputati"
di volta in volta questo o quel Paese è un'operazione sempre poco
convincente, molto povera dal punto di vista storico-culturale, come
dimostra la nostra, peraltro superficialissima, “geografia
dell'ignoto”, e, soprattutto, sempre passabile di essere sospetta
(e, di conseguenza, di venire strumentalizzata) in termini
"anti-qualcuno" o "anti-qualcosa". La Serbia, per
altri aspetti la Bosnia, oggi anche, in una certa misura, il Kosovo,
sembra essere sempre, costantemente, sotto la luce dei riflettori, "a
prescindere", come direbbe qualcuno, dal fatto che al governo vi
siano gli eredi (socialisti) di Milošević, quelli (liberali) della
“Buldog Revolucija” o quelli (nazionalisti) del SRS che fu di
Šešeli.
Ecco che, allora, dei tentativi, peraltro
controversi e contraddittori, oltre che problematici ed elefantiaci,
di riforma interna del sistema giudiziario, della procedura legale e
della rule of law neanche si parla, e si finisce per
richiamare, ogni volta, dall'esterno, pressantemente, ai "compiti
a casa da svolgere" e alle riforme da "attuare
prontamente".
Il tema delle riforme diventa allora, troppo spesso,
un pretesto, ed è questo il terzo punto: proprio nel momento in cui
il dossier negoziale per l'adesione europea viene aperto a Bruxelles,
si inaugura una nuova campagna mediatica, questa volta a New York,
sui criminali di guerra e le violazioni dei diritti umani. Con tanto
di corollario: «fare come in Croazia».
Peccato, anche in questo caso, che dei crimini di
guerra si finisca per parlare solo a senso unico, e quando in Croazia
la "politica" liscia il pelo alle sollevazioni per
divellere le targhe in cirillico, a Vukovar e non solo, neanche una
parola. Giustizia a senso unico e, come si vede dalla scelta delle
circostanze, giustizia ad orologeria. Tutt'altro di ciò che la causa
della difesa di diritti, universali ed indivisibili, a pensarci bene,
richiederebbe.
Si tratta allora di moltiplicare strumenti ed
occasioni ed è (anche) per questo che, come nella precedente
edizione, anche i "lavori in corso" della prossima edizione
del Festival del Cinema per i Diritti Umani affronteranno la sfida di
trattare del Mediterraneo e, in particolare, dei Balcani, del nesso
tra diritti (di tutte le generazioni) e violazioni (di tutti i tipi)
raccogliendo una istanza di libertà ed una occasione di conoscenza.
Qui più che altrove il cinema per i diritti umani si fa,
concretamente, "cartografia del possibile".