Trump «Peace Plan», Map Attached, Public Domain |
Raggiunto, finalmente, l’accordo in Israele, dopo tre estenuanti campagne elettorali, per un governo di “unità nazionale” che, presentato come «governo di emergenza nazionale», rischia di trasformarsi invece in un vero e proprio «governo di emergenza democratica». L’accordo tra i due partiti maggiori, il Likud del premier uscente Benjamin Netanyahu (che alle ultime elezioni aveva ottenuto il 29% dei voti e 36 seggi), il partito più consistente nel variegato schieramento della destra nazionale israeliana, e il Kahol-Lavan o «Blu-Bianco», dell’ex capo di stato maggiore della difesa, Benny Gantz (che nell’ultima tornata elettorale aveva ottenuto il 27% e 33 seggi) non corrisponde, infatti, semplicemente, alla volontà di intercettare un’ampia base parlamentare a sostegno del governo, ma, più profondamente, ai desiderata di ampia parte dell’establishment israeliano per una soluzione utile a portare i due partiti maggiori ad una corresponsabilità nelle scelte del governo e ad una sostanziale conservazione degli equilibri politici e istituzionali, in una parola, dello status quo.
Lo ha dimostrato, alla vigilia dell’accordo, tra le altre cose, la scelta del presidente della repubblica, Reuven Rivlin, di non concedere un prolungamento del mandato esplorativo per la formazione del nuovo governo a Benny Gantz, ma di rimettere la scelta alla Knesset, in modo da sollecitare i parlamentari a individuare una soluzione, nel termine dei 21 giorni previsti dalla legge. E infatti, in una lettera, indirizzata a Gantz, riportata dai media israeliani, così Rivlin motivava il rinvio alla Camera: «alla luce della situazione che la terza tornata elettorale ha prodotto, nella quale nessuno dei candidati gode del sostegno della maggioranza dei membri della Knesset […], ed essendo obbligato dalla Legge Fondamentale del 2001 a realizzare il più presto possibile un governo che goda della fiducia della Knesset, non vedo altra possibilità che affidare il compito alla Knesset» augurandosi al contempo che i deputati «riescano a formare una maggioranza tale da dare vita a un governo il più presto possibile e impedire una quarta tornata elettorale».
Se è vero che la quarta tornata elettorale consecutiva è stata evitata, è altrettanto vero che la soluzione trovata conferma alcuni dei peggiori timori della vigilia: intanto, si concretizza ancora una vera e propria conventio ad excludendum ai danni di uno dei vincitori delle ultime elezioni, la Lista Congiunta (con Balad, Ta’al, la Lista Araba e i comunisti di Hadash) che, con il suo 13% e i 15 seggi ottenuti, è la terza forza dello spettro politico israeliano.
E poi, l’alleanza è tesa a costruire un rinnovato blocco nazionale, che, se da una parte conferma l’«orientamento a destra» dell’intero quadro politico israeliano (l’accordo non solo si regge sul compromesso tra la principale forza della destra, il Likud, e un partito centrista, come Blu-Bianco, ma prevede anche l’ingresso al governo di altre forze moderate, come quella parte del Labour, dello storico partito laburista israeliano, che, al prezzo di una severa discussione interna e a rischio di una nuova lacerazione, deciderà di accettare di fare parte dell’esecutivo, o conservatrici, come i partiti religiosi, lo Shas e l’Ebraismo Unito della Torà, mentre anche al partito di destra Yamina è stato proposto di fare parte della compagine di governo), dall’altra scarica tutti i suoi costi, come diversi osservatori hanno messo in luce, sulla pelle del popolo palestinese sotto occupazione. Uno dei temi dell’accordo, di carattere generale, è stata la decisione di concentrare la gestione dell’emergenza legata alla diffusione della pandemia da coronavirus in una sorta di vero e proprio «gabinetto di vertice», sotto la direzione sostanzialmente monocratica dei due leader, Netanyahu e Gantz, anche con l’obiettivo di approvare una legge di bilancio, come si apprende, mirata a «garantire la stabilità e la ripresa dell’economia dopo la crisi dell’epidemia da coronavirus».
Nell’ambito dell’alternanza al potere prevista dall’accordo, in base alla quale Netanyahu avrà l’incarico di primo ministro per la prima metà e Gantz lo stesso incarico nella seconda metà della legislatura, Gantz sarà vice primo ministro di Netanyahu nei primi 18 mesi, Netanyahu sarà vice primo ministro di Gantz nei secondi 18 mesi, mentre i 32 ministeri saranno ripartiti tra i due partiti maggiori, con una quota riservata ai laburisti (Amir Peretz all’Economia e Itzik Shmuli al Welfare). Ma il tema di maggiore sofferenza dell’accordo riguarda, ancora una volta, la vita e i diritti del popolo palestinese: nella sua parte di premierato, infatti, Netanyahu proporrà, a nome del governo, alla Knesset un piano per un accordo con gli Stati Uniti finalizzato alla annessione di parti della Cisgiordania (nel linguaggio israeliano, come «implementazione della sovranità israeliana su parti della Cisgiordania»). Così, il nuovo governo di Israele nasce sotto la stella dell’incredibile «Piano Trump», respinto dai palestinesi e dalle diplomazie di mezzo mondo, radicalmente fuori e contro la giustizia e il diritto internazionale. Un pessimo inizio, che rischia di annunciare, non solo per i palestinesi, un giorno ancora peggiore.
Lo ha dimostrato, alla vigilia dell’accordo, tra le altre cose, la scelta del presidente della repubblica, Reuven Rivlin, di non concedere un prolungamento del mandato esplorativo per la formazione del nuovo governo a Benny Gantz, ma di rimettere la scelta alla Knesset, in modo da sollecitare i parlamentari a individuare una soluzione, nel termine dei 21 giorni previsti dalla legge. E infatti, in una lettera, indirizzata a Gantz, riportata dai media israeliani, così Rivlin motivava il rinvio alla Camera: «alla luce della situazione che la terza tornata elettorale ha prodotto, nella quale nessuno dei candidati gode del sostegno della maggioranza dei membri della Knesset […], ed essendo obbligato dalla Legge Fondamentale del 2001 a realizzare il più presto possibile un governo che goda della fiducia della Knesset, non vedo altra possibilità che affidare il compito alla Knesset» augurandosi al contempo che i deputati «riescano a formare una maggioranza tale da dare vita a un governo il più presto possibile e impedire una quarta tornata elettorale».
Se è vero che la quarta tornata elettorale consecutiva è stata evitata, è altrettanto vero che la soluzione trovata conferma alcuni dei peggiori timori della vigilia: intanto, si concretizza ancora una vera e propria conventio ad excludendum ai danni di uno dei vincitori delle ultime elezioni, la Lista Congiunta (con Balad, Ta’al, la Lista Araba e i comunisti di Hadash) che, con il suo 13% e i 15 seggi ottenuti, è la terza forza dello spettro politico israeliano.
E poi, l’alleanza è tesa a costruire un rinnovato blocco nazionale, che, se da una parte conferma l’«orientamento a destra» dell’intero quadro politico israeliano (l’accordo non solo si regge sul compromesso tra la principale forza della destra, il Likud, e un partito centrista, come Blu-Bianco, ma prevede anche l’ingresso al governo di altre forze moderate, come quella parte del Labour, dello storico partito laburista israeliano, che, al prezzo di una severa discussione interna e a rischio di una nuova lacerazione, deciderà di accettare di fare parte dell’esecutivo, o conservatrici, come i partiti religiosi, lo Shas e l’Ebraismo Unito della Torà, mentre anche al partito di destra Yamina è stato proposto di fare parte della compagine di governo), dall’altra scarica tutti i suoi costi, come diversi osservatori hanno messo in luce, sulla pelle del popolo palestinese sotto occupazione. Uno dei temi dell’accordo, di carattere generale, è stata la decisione di concentrare la gestione dell’emergenza legata alla diffusione della pandemia da coronavirus in una sorta di vero e proprio «gabinetto di vertice», sotto la direzione sostanzialmente monocratica dei due leader, Netanyahu e Gantz, anche con l’obiettivo di approvare una legge di bilancio, come si apprende, mirata a «garantire la stabilità e la ripresa dell’economia dopo la crisi dell’epidemia da coronavirus».
Nell’ambito dell’alternanza al potere prevista dall’accordo, in base alla quale Netanyahu avrà l’incarico di primo ministro per la prima metà e Gantz lo stesso incarico nella seconda metà della legislatura, Gantz sarà vice primo ministro di Netanyahu nei primi 18 mesi, Netanyahu sarà vice primo ministro di Gantz nei secondi 18 mesi, mentre i 32 ministeri saranno ripartiti tra i due partiti maggiori, con una quota riservata ai laburisti (Amir Peretz all’Economia e Itzik Shmuli al Welfare). Ma il tema di maggiore sofferenza dell’accordo riguarda, ancora una volta, la vita e i diritti del popolo palestinese: nella sua parte di premierato, infatti, Netanyahu proporrà, a nome del governo, alla Knesset un piano per un accordo con gli Stati Uniti finalizzato alla annessione di parti della Cisgiordania (nel linguaggio israeliano, come «implementazione della sovranità israeliana su parti della Cisgiordania»). Così, il nuovo governo di Israele nasce sotto la stella dell’incredibile «Piano Trump», respinto dai palestinesi e dalle diplomazie di mezzo mondo, radicalmente fuori e contro la giustizia e il diritto internazionale. Un pessimo inizio, che rischia di annunciare, non solo per i palestinesi, un giorno ancora peggiore.