Fitim Selimi [CC BY-SA 3.0] via Wikimedia Commons |
Una giornata gravissima per il Kosovo, quella dello scorso 28 Maggio, quando una escalation di violenza e scene di vera e propria guerriglia hanno riportato la regione a un punto di tensione e di conflitto che non si vedeva dal luglio 2011, all’epoca della cosiddetta “crisi dei valichi”. E, per alcuni aspetti, le modalità dell’intervento e il carattere dell’escalation, nei due casi, sembrano mostrare talune similarità e analogie.
In quelle giornate estive, del luglio 2011, le unità speciali della polizia kosovara (ROSU) innescarono un blitz, all’epoca con un coinvolgimento degli elicotteri della missione NATO nella regione (KFOR), allo scopo di prendere il controllo dei valichi amministrativi del Nord, lungo la linea di amministrazione che delimita il Kosovo Settentrionale dalla Serbia Centrale.
Come in altre circostanze, la reazione delle popolazioni serbe, che sono larghissima maggioranza nelle municipalità del Nord (Kosovska Mitrovica, Zvečan, Leposavić e Zubin Potok), si espresse con il “boicottaggio” e la “non collaborazione” e si manifestò con blocchi e barricate erette lungo le strade di collegamento. L’escalation precipitò nuovamente il Kosovo oltre la soglia del “conflitto congelato” e nuove tensioni e barricate fecero la loro comparsa sul ponte centrale di Mitrovica.
Lo spettro del “conflitto congelato” è stato evocato dallo stesso presidente serbo Aleksandar Vučić, ma prima, non dopo, l’ultima escalation di tensione che ha nuovamente interessato il Kosovo: un particolare, questo, fatto acutamente notare, per i contenuti di quelle affermazioni e la strettissima successione degli eventi, da diversi osservatori internazionali.
In una sessione speciale del parlamento serbo, a Belgrado, che si è svolta appena lunedì scorso, il 27 Maggio, il giorno prima della nuova escalation, Vučić aveva dichiarato, in un lungo e impegnativo discorso, trasmesso in diretta dalla televisione serba e che non aveva mancato (e continua a non mancare) di suscitare commenti e reazioni, che la situazione del Kosovo deve essere risolta con il negoziato e il compromesso.
Ed ancora: che non vi è alternativa tra una situazione nuova frutto di un accordo tra Belgrado e Prishtina e la prospettiva inquietante di mantenere la regione nella situazione di un conflitto congelato, puntualmente sensibile a nuove escalation e a nuovi precipizi, e che l’opinione pubblica serba deve abituarsi a pensare che il Kosovo non è più sotto il controllo serbo, a parte per le funzioni amministrative che lo stato serbo continua ad esercitare nei comuni e nelle enclavi serbe (la sanità e la scuola, essenzialmente) e quindi, di conseguenza, senza una soluzione capace di superare lo status quo, la reazione, da parte della leadership nazionalista della maggioranza albanese, sarà quella di colpire i serbi.
Appena un giorno e una nuova violenza agita il Kosovo. Il 28 Maggio una “operazione anti-crimine” dà corpo ad un vero e proprio raid nelle municipalità del Nord, in particolare nel comune di Zubin Potok, quando, alle prime luci dell’alba, il raid sconvolge la regione del Nord, gli scontri degenerano in un vero e proprio conflitto a fuoco, numerose persone (19 persone, secondo le prime ricostruzioni fornite dalla polizia kosovara, 23 persone, secondo le dichiarazioni ufficiali serbe) vengono arrestate: undici serbi, quattro albanesi e quattro bosniaci. Si susseguono scontri a fuoco e cinque poliziotti kosovari e sei civili serbi vengono feriti.
Le barricate e i blocchi eretti in auto-difesa dai residenti serbi vengono distrutti e smantellati dalle forze speciali kosovare; la tensione cresce e il Kosovo ripiomba nuovamente tra le pagine peggiori della sua storia recente. Alle agenzie internazionali, ripetendo in qualche modo il copione del 2011, le forze della NATO in Kosovo (KFOR) non trovano di meglio che dichiarare che si è trattato «solo» di una «operazione di polizia», conseguenza di una serie di «mandati di arresto» per una «indagine sulla corruzione».
La presenza delle forze speciali della ROSU nel Kosovo Settentrionale a maggioranza serba resta una questione spinosa e controversa. L’Accordo di Principio, l’unico testo di portata complessiva scaturito dal dialogo diplomatico tra le due capitali, il 19 Aprile 2013, prevede, salvaguardando l’unitarietà del Kosovo e la volontà della Serbia di non riconoscerlo, una ampia autonomia dei Serbi del Kosovo e la costituzione di una Comunità dei Comuni Serbi, per un totale di dieci comuni, tra cui i quattro del Nord, K. Mitrovica, Leposavić, Zvečan e Zubin Potok.
Gravissimo anche il fatto che, negli ultimi scontri, due funzionari della missione delle Nazioni Unite in Kosovo (UNMIK) siano stati arrestati e, tra questi, un diplomatico russo. Il Kosovo è uno stato «di fatto», ma non è riconosciuto dalla comunità internazionale; sono circa ottanta i Paesi che non lo riconoscono e, tra questi, cinque membri UE (Spagna, Romania, Slovacchia, Grecia e Cipro).
Tutto ciò succedeva il 28 Maggio, 2019. Avremmo preferito ricordare questa giornata come la vigilia del 29 Maggio, 2019: la giornata mondiale dei peacekeeper delle Nazioni Unite, istituita, appunto, per richiamare tutti gli stati e le persone all’importanza del ruolo delle Nazioni Unite, nel contesto della difesa della sicurezza internazionale e del diritto internazionale, ai fini del mantenimento della pace, e per sollecitare impegni concreti, nel senso della prevenzione delle cause della violenza e della estinzione dei bacini della violenza, per risolvere i conflitti in maniera costruttiva e generare nuovi spazi per la pace e la pace positiva.
Istituita con la Risoluzione 57/129 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2003, essa richiama l’importanza del peacekeeping come strumento – chiave per il mantenimento della pace e della sicurezza a livello internazionale e rende omaggio alla memoria di quanti sono caduti per la causa della pace. Riflettendo sulle ambasciate di pace, uno degli strumenti dei corpi civili di pace per la prevenzione dei conflitti armati e la costruzione della pace positiva, in un testo dei Berretti Bianchi (1994), si legge: «L’ambasciata di pace è uno strumento della diplomazia dei popoli. […]
«In quanto diplomazia dei popoli, l’ambasciata di pace deve essere autonoma da tutti i governi. L’ambasciata di pace è uno strumento della società civile e delle popolazioni e da queste sole deve trarre le sue linee di lavoro e di finanziamento. […] I suoi compiti sono: aprire e consolidare le comunicazioni tra i popoli; […] aiutare le popolazioni che, in seguito a guerre, esodo forzato, embargo, epidemie o disastri ambientali, si trovano in stato di bisogno; […] essere uno strumento di supporto logistico ed organizzativo per tutte le ONG che intendano contribuire alla pace».
È forse il caso di concludere ricordando le parole di uno tra i maestri italiani della peace-research che più si sono impegnati ai fini della prevenzione della violenza e del superamento del conflitto in Kosovo. Alberto l’Abate, nel suo studio dedicato a «Il contributo di Johan Galtung alla teoria e alla pratica della pace e della nonviolenza», in “Inchiesta” (24 novembre 2013), ricordava quanto fosse importante la «sottolineatura di Galtung dei tre principali compiti dei professionisti di pace che lui si augura … si diffondano in tutto il mondo:
1) la riconciliazione, e cioè il curare gli effetti della violenza passata;
2) la costruzione della pace, e cioè lo studio e l’azione per prevenire la violenza futura;
3) la trasformazione del conflitto, e cioè la ricerca di metodi per mitigarli (ad esempio passando da una lotta armata ad una lotta di tipo nonviolento), oppure nell’aiuto ai contendenti a trovare soluzioni di mutuo beneficio (attraverso la mediazione). […]
«In questo campo, il suo «triangolo del conflitto» è formato, da un lato, dagli atteggiamenti (odio, rancore, diffidenza etc., che possono essere superati attraverso l’apprendimento dell’empatia); in un altro angolo, dal comportamento (che può passare, anche grazie ad un buon lavoro dell’operatore di pace, da violento a nonviolento); e, infine, dalle contraddizioni, e cioè dagli obiettivi contrapposti dei due contendenti, che possono tuttavia essere superati grazie alla creatività e alla ricerca di obiettivi di mutuo beneficio».
A margine degli eventi drammatici di questo 28 Maggio, in Kosovo, il capo della missione UNMIK, Zahir Tanin, non ha mancato di fare sentire la propria voce, richiamando tutti al rasserenamento della situazione e alla de-escalazione del conflitto. Non bastano tuttavia gli appelli e le dichiarazioni, se il compito è, come a questo punto appare, quello di prevenire ogni ulteriore possibile escalation e di avviarsi con decisione, a differenza di quanto è stato sin qui fatto, verso la definizione di un percorso diplomatico autentico e la costruzione di solide condizioni per la «pace con giustizia» (pace positiva).
Richiamando quanto scritto, recentemente, da Rocco Altieri, infatti, nella sua interezza «il Movimento per la Pace ha oggi di fronte a sé il compito di acquisire, così come aveva auspicato nel 1992 l’Agenda per la Pace di Boutros-Ghali, capacità funzionali alternative agli eserciti e agli armamenti nel compito della difesa, della gestione delle crisi internazionali e della costruzione della pace, prevedendo un’azione di confidence building (un’opera cioè di “diplomazia preventiva”), un’azione di peace-making, peace-keeping e peace-building post-conflitto. Si affacciava per la prima volta, nelle più alte organizzazioni internazionali, l’ipotesi di un’azione civile di prevenzione e interposizione non armata nei conflitti, da affidare a corpi non militari, corpi civili di pace».
In Kosovo la tensione resta alta, in un epicentro del conflitto nel cuore dell’Europa, proiettato sullo scenario complesso e turbolento del Mediterraneo. Oggi giunge la notizia del rilascio, da parte delle autorità kosovare, dei civili serbi arrestati. Non deve, tuttavia, venire meno l’attenzione e l’impegno, perché si cominci a esplorare, finalmente, una strada nuova, di distensione, e, in definitiva, di pace e di giustizia.
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