Silar, CC BY-SA 4.0, commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=93671816 |
Uno degli aspetti su cui più si sta dibattendo, ma su cui manca ancora una riflessione più approfondita e meno reattiva, è senza dubbio la polemica in corso, alimentata soprattutto dalla grande stampa e da alcuni opinionisti, che ha preso di mira i pacifisti e le pacifiste, le organizzazioni impegnate nella lotta, per dirla nei suoi termini più generali, «contro la guerra e per la pace», in definitiva, il movimento pacifista nel suo complesso.
Una polemica stucchevole, nel senso proprio del termine, per cui da una parte suscita noia, dall’altra allestisce uno spettacolo francamente sgradevole. Se non la si razionalizzasse nei termini della “polarizzazione”, della dinamica classica “amico-nemico” e della logica di schieramento che (inevitabilmente?) la guerra porta con sé, finirebbe per risultare a dir poco sorprendente. Ma come – verrebbe da dire – proprio nel momento in cui la guerra è in corso, quando tutti esprimono sconcerto di fronte alla guerra e tutti levano la voce per dire basta con le ostilità, si colpiscono proprio quelli e quelle, operatori e attivisti, operatrici e attiviste, che da sempre si battono contro la guerra, si impegnano in campagne contro la guerra e per la pace, si attivano in ricerche e iniziative, sperimentazioni e progetti a salvaguardia della pace e a difesa dei diritti umani per tutti e per tutte?
Eppure, è proprio quello che sta succedendo, e sembra evidente che tale meccanismo possa rientrare a pieno titolo nel clima di propaganda di guerra che anche in questo caso la guerra (inevitabilmente?) porta con sé. Alcuni aspetti di questo dibattito non sembrano meritare più di tanto tempo e inchiostro: bollare i grandi eventi della storia come frutto di follie deliranti o pulsioni individuali significa in sostanza non riuscire a ricostruirne la storia e il contesto; immaginare che la ragione e il torto si dividano radicalmente, tutta la ragione solo da una parte (dal punto di vista prevalente in Occidente, la parte degli Stati Uniti, della NATO e del governo ucraino) e tutto il torto solo dall’altra (secondo lo stesso punto di vista, la Russia, e, con accenti e sfumature diverse, la Cina); ritagliare su misura del “dittatore” di turno (oggi Putin, ieri Assad, ieri l’altro Milošević) una perfetta «immagine di nemico» può soddisfare le ragioni della schematizzazione, della banalizzazione o della propaganda di guerra, certo non soddisfa quelle dell’analisi e della comprensione degli eventi e degli scenari.
Altri aspetti di questo dibattito, meno condizionati dalle contrapposte propagande, meritano invece alcuni rilievi. A partire dalla questione dell’ambiguità di una parola d’ordine che pure si sente risuonare: l’ormai noto né-né, come ieri né con la NATO né con Milošević, così oggi né con la NATO né con la Russia. Il né-né, purtroppo, non funziona: è una facile soluzione che, proprio per la sua comodità, non aiuta ad approfondire la questione e non sollecita un’iniziativa politica che sia, al tempo stesso, rigorosa ed incisiva. Anche perché, nello specifico del conflitto che oppone la NATO e la Russia in Ucraina, rischia di tramutarsi in banalità: ovviamente non si può essere, dal punto di vista di chi sostiene le ragioni della pace con giustizia sociale, dalla parte della NATO, con tutto il suo portato di espansionismo e di militarismo; così come, per le stesse ragioni, non si può essere dalla parte del governo russo, di quell’establishment che esprime, sul piano politico e istituzionale, le ragioni del capitalismo nazionale e delle oligarchie politico-economiche dello sterminato Paese euro-asiatico.
Tanto è vero che una recente presa di posizione del Partito Comunista della Federazione Russa ha chiaramente messo in evidenza che «il PC è guidato dalle idee di storica amicizia e fratellanza dei nostri popoli, ha esposto l’essenza fascista dell’ideologia banderista, e ha dimostrato la natura antidemocratica del regime di Kiev. Abbiamo difeso il diritto del popolo del Donbass alla vita e alla dignità, alla lingua russa e alla sua cultura, e al riconoscimento della sua giovane statualità. [...] Il Partito ha inviato 93 convogli di aiuti umanitari nel Donbass» e ha espresso l’auspicio che «in queste condizioni di crescenti minacce esterne la leadership della Federazione Russa prenda la strada della “sicurezza nazionale omnicomprensiva”. Nella nostra convinzione, essa può essere garantita solo da un cambiamento radicale del corso socio-economico». L’idea è di superare il nazionalismo, lo sciovinismo e il militarismo a partire dal superamento del modello economico basato sulla esasperazione della competizione, sullo sfruttamento della forza lavoro e sull’accumulazione dei profitti che sono tra le più potenti spinte alla guerra. Del resto è noto, alle forze di progresso, l’antico monito di Jean Jaurès, cui si deve la celebre affermazione per cui «il capitalismo porta la guerra come le nuvole portano la tempesta»
Superare la logica del né-né significa sforzarsi di comprendere l’articolazione e la dinamica delle ragioni e delle responsabilità. Il contesto del conflitto attuale non è definito dagli ultimi mesi, ma semmai dagli ultimi anni, a meno di fingere che il golpe di Maidan non vi sia stato, che il collaborazionista nazista Stepan Bandera non sia oggi eroe nazionale in Ucraina, che l’adesione alla NATO non sia oggi addirittura principio costituzionale del Paese. La stessa guerra in Donbass, a partire dal 2014, è praticamente “scomparsa dai radar” di certa stampa. Come giustamente è stato detto, se, dal punto di vista militare, la responsabilità della campagna in corso è della Russia, dal punto di vista politico e strategico, le responsabilità di USA, UE e NATO, spintasi fin sotto i confini della Russia e ben dentro il territorio di quella che era l’Unione Sovietica, difficilmente, ad uno sguardo lucido, possono essere sottaciute o diminuite.
Per quello che riguarda questa parte del mondo, sarebbe bene soffermarsi sull’irrazionalità di una posizione che pretende di costruire la pace inviando armi e alimentando guerra (qualcuno ricorderà gli ossimori, dalla «esportazione della democrazia» alla «guerra umanitaria», tutti di conio occidentale, peraltro), e concentrarsi piuttosto sul «preparare la pace attraverso la pace», sostenendo gli sforzi diplomatici per una soluzione politica, positiva e di mutuo beneficio. Per quanto riguarda i pacifisti, poi, dopo tutte queste polemiche, al netto di ogni altra considerazione, un elemento sembra essere finalmente acquisito: ben difficilmente, alla vigilia del prossimo conflitto, si potrà ancora dubitare della loro presenza.