Kralijevo, in memoria dei caduti delle guerre del 1991-1999 (Foto G. Pisa) |
L’aggressione della NATO contro la Jugoslavia, la Repubblica Federale di Jugoslavia, ventuno anni fa (24 Marzo 1999), è stata un vero e proprio crimine contro la pace e, nel suo complesso, ha rappresentato di fatto un crimine contro l’umanità: l’attacco è stato condotto senza approvazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, al di fuori di qualunque mandato di legittimità internazionale, facendo strame della giustizia internazionale, e in violazione della Carta delle Nazioni Unite, riportando la guerra nel cuore dell’Europa.
Lo svolgimento e gli esiti della campagna hanno costituito un precedente inquietante: prima l’aggressione a un Paese indipendente e sovrano, quindi la successiva militarizzazione del Kosovo; e ancora l’istituzione dell’ insediamento militare di Bondsteel, una delle più grandi basi militari statunitensi nel mondo, e infine l’inadempienza nei confronti della risoluzione del Consiglio di Sicurezza 1244 (1999), fino ai riconoscimenti dell’auto-proclamata indipendenza kosovara, rappresentano precedenti gravi, sia perché contribuiscono a mettere in scacco il sistema di sicurezza internazionale, sia perché sono di fatto una violazione della pace.
Preceduta da una lunga vicenda di conflitto, che aveva impegnato in ampia parte del 1998 ed inizio 1999 le forze di polizia e militari serbe, da un lato, e le milizie della guerriglia separatista albanese, dall’altro, l’aggressione fu preparata anche da una consistente campagna propagandistica internazionale: la montatura, legata alla manipolazione degli eventi, nella circostanza, tragica, dell’eccidio di Račak; la demonizzazione della figura di Milošević, della Serbia e dei Serbi; la sapiente campagna mediatica orchestrata, tra le altre, da agenzie di stampa e pubbliche relazioni, con funzionari che dichiaravano, in interviste, che sebbene «nessuno capiva cosa succedeva in Jugoslavia, in un colpo solo potevamo presentare una situazione con “buoni e cattivi”.
«Ci fu un cambiamento nel linguaggio della stampa con l’uso di termini ad alto impatto emotivo, come pulizia etnica, campi di concentramento, il tutto evocante la Germania nazista, le camere a gas di Auschwitz»; fino a dichiarazioni che, in alcuni casi, si spingevano a paventare cinquecentomila vittime (su due milioni di abitanti) della polizia e delle milizie serbe nella regione; tutto servì a preparare l’opinione pubblica e creare le “condizioni di ammissibilità” dell’aggressione NATO. Del resto, come ha ricordato, tra gli altri, Andrea Catone, il generale Clark avrebbe poi scritto, nel suo libro Modern Warfare, che la pianificazione della guerra «era ben avviata già a metà giugno 1998» e sarebbe stata completata entro l’autunno di quello stesso anno.
La primavera successiva, il 24 Marzo, furono inaugurati i 78 giorni di guerra (che ovviamente si voleva fare passare per «intervento umanitario») il cui numero totale di vittime, peraltro, non è mai stato determinato. Si stima siano state uccise 2.500 persone (secondo altre fonti, il totale di morti fu di 4.000), con 89 bambini, e più di 12.500 persone ferite, con un danni materiali totali stimati in decine di miliardi di dollari. Una stima ha computato il danno di guerra complessivo in 100 miliardi di dollari. Oggi, ventuno anni dopo, è appena il caso di notare, l’intero PIL della Serbia, a parità di potere d’acquisto, è di circa 105 miliardi di dollari.
Il ministro degli esteri dell’epoca, Lamberto Dini, avrebbe poi ammesso che le condizioni poste alla Serbia al tavolo negoziale, precedente il confitto, di Rambouillet, in Francia, erano semplicemente inaccettabili: ricordate la proposta della NATO di totale e incondizionata libertà di movimento per uomini e mezzi della NATO sull’intero territorio jugoslavo? La propaganda occidentale si soffermava sull’ostinazione di Milošević e della leadership serba al tavolo negoziale, la realtà delle circostanze si sarebbe incaricata di ricostruire il senso della “proposta-capestro” avanzata dalle cancellerie occidentali, in primis gli USA, in Francia.
Quasi nessuna città in Serbia ha potuto evitare di essere presa di mira o di essere colpita durante la guerra. I bombardamenti, secondo recenti stime, hanno distrutto o danneggiato 25.000 unità abitative, 470 chilometri di strade e 600 chilometri di binari ferroviari; e poi 14 aeroporti, 19 ospedali, 20 centri sanitari, 18 scuole materne, 69 scuole, 176 monumenti culturali, 44 ponti danneggiati; i ponti furono uno dei bersagli privilegiati della guerra, evidentemente “umanitaria”: 38 furono i ponti completamente distrutti. Durante l’aggressione, furono effettuati 2.300 attacchi aerei su 995 strutture in tutto il Paese; furono sganciati 420.000 missili per complessivi 22.000 tonnellate; e ancora, sempre per restare in tema di intervento “umanitario”, 37.000 “bombe a grappolo”, e furono anche usate munizioni, vietate da tutte le convenzioni internazionali, con uranio impoverito. Il danno da contaminazione continuerà a mietere vittime nel corso delle generazioni.
In questi giorni di fine Marzo dunque, 21 anni fa, i primi attacchi contro la Jugoslavia, nel cuore dell’Europa. Il 3 Aprile sarebbero stati inaugurati i bombardamenti contro la capitale, una delle grandi capitali d’Europa, Belgrado. È stata, si è detto, l’applicazione di un vero e proprio «paradigma»: del conflitto etno-politico, delle campagne mediatiche di costruzione del nemico, dell’imperialismo umanitario; della messa in scacco delle Nazioni Unite, prima, e di un controverso state - building, dopo. Ogni volta che sentiremo evocare linguaggi e approcci militaristi, richiami alla “patria in armi”, agli “eroi al fronte” e alle “guerre da vincere”, ricordiamoci di cos’è la guerra e cosa fu quel 24 Marzo: quando, insieme con la pace, la verità stessa fu messa in ombra.