Ami Ventura, Arbel dal Lago di Tiberiade, CC BY-SA 3.0, Wikimedia Commons |
Lo scorso 29 dicembre ha ottenuto la fiducia alla Knesset e si è dunque insediato, nel pieno delle proprie funzioni, il nuovo governo di Israele, il sesto guidato da Benjamin Netanyahu e soprattutto, dato politicamente più rilevante e preoccupante, il più radicalmente a destra nella storia di Israele. Al di là delle forze politiche che compongono la maggioranza e delle personalità che formano la compagine governativa, infatti, sono proprio i contenuti politici e gli orientamenti programmatici a indicare questa traiettoria, a segnare, cioè, quella che intende essere la direzione del prossimo gabinetto.
Nel suo discorso per la fiducia alla Knesset, il primo ministro Netanyahu ha indicato i tre «obiettivi nazionali» del nuovo governo che, insieme con gli accordi di coalizione con i partiti della maggioranza, delineano la base politica e la traiettoria ideologica dell’esecutivo: proseguire e rafforzare la strategia e le misure volte a impedire che l’Iran possa dotarsi di dispositivi nucleari; progettare e realizzare una infrastruttura ferroviaria di alta velocità capace di unire da un capo all’altro l’intero territorio di Israele; ampliare il numero di Paesi arabi coinvolti negli accordi bilaterali sul modello degli «Accordi di Abramo»; insieme con questi, altri due obiettivi messi in luce sono quelli di rafforzare la sicurezza, con un vero e proprio programma securitario, e impegnarsi per ridurre il costo della vita e migliorare la qualità della vita in Israele.
Un programma che non nasconde, letto con altri documenti e dichiarazioni, carattere e intenzioni del governo, tanto è vero che il nuovo portavoce della Knesset, il presidente del parlamento, Amir Ohana, è intervenuto nel suo discorso proprio sul tema dei diritti delle minoranze, sottolineando che il nuovo governo «non colpirà un solo bambino o una singola famiglia», cercando così di placare il dibattito, aperto nel Paese, circa i timori di possibili interventi da parte del governo contro i diritti delle comunità LGBT e delle minoranze su iniziativa delle forze più oltranziste, ultraortodosse e della destra estrema.
Una preoccupazione più che fondata, se è vero che persino il capo dello stato, il presidente israeliano Isaac Herzog, è intervenuto per sottolineare che «una situazione in cui i cittadini in Israele si sentano minacciati a causa della loro identità o del loro credo mina i valori democratici fondamentali dello Stato di Israele». «I commenti bigotti ascoltati nei giorni scorsi contro la comunità LGBT e contro gruppi e settori diversi della popolazione israeliana sono fonte di preoccupazione», aggiungendo di essere pronto a «fare tutto quanto in proprio potere per prevenire siano colpiti i diversi segmenti della popolazione».
Un governo, insomma, sul quale esercitare una vera e propria vigilanza democratica, come emerso anche da altri interventi dalle forze dell’opposizione. Non a caso, la scintilla che ha fatto esplodere la protesta, che pure era viva, ben conoscendo storia e orientamento delle figure più discusse entrate a fare parte del nuovo governo, è stata una recente dichiarazione di Orit Strock, secondo la quale addirittura «se a un medico viene chiesto di prestare un qualsiasi tipo di trattamento a qualcuno, che violi la sua fede religiosa, se c’è un altro medico disposto a farlo, allora non puoi costringerlo a fornire cure»; inoltre «le leggi contro la discriminazione sono giuste quando creano una società giusta, equa, aperta e inclusiva, ma c’è una certa deviazione, a causa della quale la fede religiosa viene calpestata, e vogliamo correggere questo aspetto».
Orit Strock è oggi ministra delle Missioni Nazionali e componente di Sionismo Religioso, insieme con Otzma Yehudit (Potere Ebraico) una delle formazioni estremiste più oltranziste che compongono il governo. Quanto alla composizione complessiva, sui ventisette dicasteri di cui il governo è formato, quindici sono appannaggio del Likud, il partito del primo ministro, che, proprio con Netanyahu, sempre più si è spostato su posizioni di «destra-destra»; quattro sono appannaggio dello Shas e uno di Giudaismo Unito della Torah; a Sionismo Religioso tre ministeri, tra cui quello delle Finanze per il suo leader, Bezalel Smotrich, e altri due, assai delicati, all’Immigrazione e, appunto, alle Missioni Nazionali; a Potere Ebraico tre ministeri, tra cui quello strategico alla Sicurezza Nazionale per il suo leader, Itamar Ben Gvir, e altri due, pure strategici, a Gerusalemme e allo sviluppo delle periferie, del Negev e della Galilea. Per quanto riguarda l’altro aspetto, legato alla sicurezza nazionale, il governo si propone, in base agli accordi di coalizione, di «rafforzare le forze di sicurezza e garantire sostegno a soldati e agenti di polizia nel combattere e sconfiggere il terrorismo».
È ancora il Jerusalem Post a fare riferimento agli accordi di coalizione che delineano gli orientamenti del governo: «La nazione di Israele ha diritto naturale alla terra di Israele. Alla luce della fede in tale diritto, il primo ministro formulerà e promuoverà politiche nel cui quadro la sovranità sarà applicata a Giudea e Samaria»; il governo ha inoltre promesso di rafforzare lo status di Gerusalemme, sottolineando l’importanza di preservare e sviluppare una Gerusalemme unita quale capitale sovrana di Israele, aspetto, tuttavia, in violazione del diritto internazionale, secondo il quale, come ribadito dalla Corte Internazionale di Giustizia (2004), sono territori occupati tutti i territori tra la Linea Verde e il Giordano (compresa Gerusalemme Est), in relazione ai quali Israele è definita «potenza occupante» e viene ribadito il regime previsto dalla IV Convenzione di Ginevra.
Come ha ricordato (2020) anche il Relatore Speciale sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967, «gli insediamenti israeliani sono considerati dal Consiglio di Sicurezza nella Risoluzione 2334 una «flagrante violazione del diritto internazionale». Violano la IV Convenzione di Ginevra e sono un presunto crimine di guerra ai sensi dello Statuto di Roma del 1998. Gli insediamenti sono anche fonte significativa di violazioni dei diritti umani e un serio ostacolo al diritto dei palestinesi all’autodeterminazione».