Adam Jones, Ph.D. [CC BY-SA 3.0] via Wikimedia Commons |
Forse, per la prima volta da più di cinque anni a questa parte, la città di Mitrovica, luogo simbolo del conflitto del Kosovo e della separazione tra Serbi e Albanesi, tornerà ad essere effettivamente attraversabile e il suo ponte centrale, anziché un paradossale luogo di divisione e di separazione, riguadagnerà la sua funzione naturale, di transito e di passaggio, di connessione e di comunicazione. Si tratta di una vicenda dai forti risvolti simbolici, molto concreta, tuttavia, nelle sue implicazioni.
Era stata annunciata, per il 20 gennaio scorso, la riapertura del ponte centrale di Mitrovica, dopo i lavori di risistemazione e di riqualificazione, decisi nelle tornate negoziali e nel dialogo bilaterale a cavallo tra il 2015 ed il 2016, che avrebbero dovuto dare una configurazione definitiva alla zona e consentire, al tempo stesso, la riqualificazione urbanistica delle aree adiacenti, quella meridionale, non distante dal Municipio di Mitrovicë, il settore cittadino, abitato da oltre 70.000 persone, a larga maggioranza albanese, e quella settentrionale, che dà sulla strada Kralja Petra, una delle arterie principali di Kosovska Mitrovica, il settore cittadino, abitato da ca. 30.000 persone, a maggioranza serba, capoluogo del Kosovo del Nord, abitato, con alcune altre zone dell'interno, dai Serbi.
Tuttavia, iniziati da diversi mesi, i lavori non sono ancora giunti a conclusione: solo nelle prossime settimane si arriverà ad una sistemazione definitiva e solo negli ultimi giorni sono stati definiti i particolari della risistemazione urbanistica del settore Nord che dovrebbe servire insieme a garantire la libertà di circolazione pedonale da una parte all'altra del ponte e a creare una zona pedonalizzata, interdetta al traffico veicolare, a Nord, nella zona tra il ponte ed il viale: un modo per consentire la libera circolazione delle persone e, al tempo stesso, evitare il passaggio di veicoli a motore; riaprire il ponte e prevenire possibili incursioni o provocazioni a sfondo estremista o nazionalista.
Quella che, da un capo all'altro del ponte, ancora dopo la guerra del '99, era la zona cuscinetto tra il settore serbo ed il settore albanese, ha continuato ad essere, anche negli anni successivi e sino ad oggi, una zona estremamente sensibile del Kosovo post-conflitto, perché confine di fatto tra i due settori, luogo al tempo stesso di comunicazione e di scambio, come nel settore di Bosniack Mahala, il cosiddetto quartiere bosniaco di Mitrovica, ma anche di dissidio e di rivendicazioni contrapposte, su cui si è esercitata, e continua ad esercitarsi, tutta l'iconografia del conflitto serbo-albanese, ivi compresa la contrapposizione dei monumenti, di Isa Boletini a Sud e del Principe Lazar, a Nord: l'uno, leader della guerriglia albanese anti-ottomana e anti-serba d'inizio '900, l'altro, comandante delle forze serbe e cristiane nella epica battaglia di Kosovo Polje, contro gli ottomani, del 1389.
Un conflitto, non solo di simboli ed iconografie, ma, in alcune circostanze, segnato da violenze e devastazioni: dal ponte di Mitrovica, con la notizia, purtroppo strumentalizzata, dell'annegamento di due ragazzi albanesi nelle acque dell'Ibar, partirono, il 17 marzo 2004, gli scontri a sfondo etnico più gravi dell'intero dopoguerra kosovaro, un vero e proprio pogrom ai danni dei Serbi, protrattosi per più giorni ed esteso all'intera regione, che ha finito con il vedere case e villaggi a ferro e fuoco, luoghi simbolo della cristianità serbo-ortodossa profanati e vandalizzati, uno su tutti la Chiesa di “Nostra Signora di Ljeviš” (1307), a Prizren, nel sud Kosovo, patrimonio mondiale dell'UNESCO.
Il bilancio di quegli scontri è catastrofico: secondo alcune fonti, 32 vittime, tra Serbi ed etnie non albanesi; 900 case attaccate ed incendiate; 35 chiese e monasteri distrutti o profanati; quattromila serbi costretti a lasciare le loro case. Anche a Mitrovica, da quel momento, la tensione inter-etnica è venuta a caricarsi di nuovi, gravi, significati: dal 2011 il versante settentrionale del ponte è stato letteralmente barricato, a cavallo del 2014 un “peace park”, un giardino con piante, è stato installato sullo stesso versante, in sostituzione delle precedenti barricate, con la medesima finalità: prevenire scorribande e provocazioni, “materializzare un confine” che, in realtà, non dovrebbe esserci.
Così, quando nel dicembre scorso la riqualificazione urbanistica del versante nord si è materializzata in un muro di contenimento alto due metri, la paura è tornata a concretizzarsi e la tensione ha ripreso ad affiorare. Un nuovo muro nel cuore dell'Europa, la paura e la diffidenza che tornano ad alimentare trincee e separazioni. I lavori sono ripresi quando il muro, alcune settimane fa, è stato abbattuto e il progetto di riqualificazione finalmente illustrato: il versante nord darà su una piazza circolare, con al centro un giardino, aperta ai pedoni, con un muretto di contenimento, prima del viale, alto 70 cm. e profondo 120 cm. E forse, una inedita occasione per riorganizzare, finalmente, non più la diffidenza e la paura, ma l'apertura e la comunicazione, in un Kosovo per tutti e per tutte.