È stato inaugurato lo scorso venerdì 3 marzo, a Trieste, il ciclo seminariale sul tema «Guerre&Lavoro», tenuto presso la Casa del Popolo di Ponziana e curato dalla Associazione Culturale Tina Modotti, con un seminario sulle questioni del «conflitto/conflitti», a partire dalla presentazione del libro Fare pace, Costruire società. Orientamenti di base per la trasformazione dei conflitti e la costruzione della pace, pubblicato dalla associazione editoriale Multimage, Firenze, 2023. Un’occasione preziosa, aperta dall’acuta introduzione di Gianluca Paciucci, per riflettere, a partire da osservazioni teoriche, esempi concreti e casi di studio, alla presenza di un pubblico nutrito e partecipe, sul tema del conflitto e dei conflitti, nelle loro varie e diverse articolazioni, di fronte alle questioni dell’attualità e alle sfide di un presente sempre più segnato dal caos e dalla contraddizione.
Una riflessione che può consentire, anche al di là dello svolgimento del seminario, una serie di rimandi e di interrogativi, almeno, su due piani di riflessione e di intervento, o, per recuperare una essenziale prospettiva metodologica, di educazione-intervento e di ricerca-azione: la questione cruciale del conflitto, la sua dinamica e il suo svolgimento, nei più diversi e complessi ambiti nei quali si dipana; e la questione della responsabilità delle persone, cittadini e cittadine, operatori e operatrici, intellettuali e attivisti, di fronte al conflitto e, in particolare, di fronte a quella sua specifica declinazione, la guerra, vale a dire la dinamica di svolgimento del «conflitto, in forma armata e con il ricorso alla violenza, tra soggetti organizzati, quali entità, istituzioni, Stati». Quale responsabilità, quale impegno per contrastare la guerra e costruire «pace con diritti umani e giustizia sociale»?
Se la guerra, infatti, può essere evitata e prevenuta, il conflitto può essere visto come «la situazione di incompatibilità tra due o più soggetti derivante dall’esistenza di ragioni, interessi, bisogni, obiettivi e finalità contrastanti»; tale condizione è determinata, quindi, proprio dall’esistenza di tali differenze e, di conseguenza, è una dinamica di relazione legata alla presenza di diversità, divergenze o incompatibilità. In questo senso, il conflitto è una condizione normale della vita sociale: una forma fondamentale di interazione sociale che sorge nel momento stesso in cui tale interazione si svolge e che può comportare, se ben intercettato e attraversato, abitato e gestito, un passo avanti nella comprensione dell’altro/degli altri, e un avanzamento della relazione.
La questione dunque non è il conflitto (che è inevitabile, perché legato alla normale dinamica di relazione tra soggetti portatori della loro specifica soggettività, con le loro specificità, peculiarità, visioni), ma la gestione del conflitto (che varia a seconda di diversi fattori) e, possibilmente, la trasformazione del conflitto. Ed è per questo che, così come il conflitto non è un evento, dunque non “scoppia”, bensì un processo, con il suo sviluppo, le sue fasi, i suoi tempi, così la pace è una dinamica e va costruita: la pace non indica cioè l’assenza del conflitto o l’annullamento delle contraddizioni, ma, viceversa, la realizzazione di una serie di condizioni, tra cui l’assenza di violenza e di traumi diffusi all’interno della società e la presenza di condizioni di equilibrio, a partire dalla riduzione delle diseguaglianze e delle ingiustizie, e di armonia, inclusione e cooperazione, nelle relazioni sociali.
La pace non è dunque l’opposto del conflitto: è, invece, l’opposto della guerra, come indica la sua stessa radice etimologica, dal latino pax da cui pactum, «patto», accordo, l’idea, cioè, di una condivisione, di una coesistenza, di un vivere bene e vivere insieme, che disegna la qualità delle relazioni sociali e prospetta l’esigenza di attivare «tutti i diritti umani per tutti e per tutte», nessuno escluso: diritti di libertà, quali i diritti civili e politici; diritti materiali, quali i diritti economici, sociali e culturali; diritti dei popoli e dell’ecosistema; diritti digitali. Siamo, dunque, all’opposto della guerra; e siamo, soprattutto, in un campo di responsabilità, in cui tutti e tutte siamo chiamati, ciascuno sulla base delle proprie possibilità e a partire dalla propria vocazione, a dare il proprio contributo, a impegnarsi per costruire la pace, ad attivarsi, in generale, nella lotta contro la guerra e per la pace.
Un tema, peraltro, “di diritto”: la stessa Risoluzione sui Difensori dei Diritti Umani (risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite 53/144 del 1999) riconosce che «tutti hanno il diritto, individualmente e in associazione con altri, di promuovere e lottare per la protezione e la realizzazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali a livello nazionale e internazionale». Allo stesso modo, «tutti hanno diritto, individualmente e in associazione con altri, di protestare contro le politiche e le azioni di singoli funzionari e organi governativi con riferimento a violazioni dei diritti umani e delle libertà fondamentali, tramite petizione o altri mezzi appropriati».
Parla, tutto questo, alla nostra attualità? Si contano, al 2022, ben 59 conflitti armati, di cui quello che oppone la Russia alla NATO in Ucraina è quello che emerge nelle prime pagine di tutti gli organi di informazione. Proprio in questi giorni è tornata d’attualità la richiesta di una nuova “Agenda per la Pace”; vale la pena richiamare allora quello che l’attuale “Agenda per la Pace”, il report del Segretario Generale delle Nazioni Unite del 1992 richiedeva ai fini della prevenzione della guerra e della costruzione della pace: la diplomazia preventiva per prevenire l’escalation con mezzi diplomatici; il peace-making, vale a dire la ricerca di accordi tra le parti in conflitto; il peace-keeping, vale a dire l’interposizione, legittima, e con il consenso delle parti in conflitto, tra i contendenti; il peace-building, vale a dire il superamento delle ragioni del conflitto e il ripristino della convivenza. Un lavoro che riguarda tutti e tutte e, in fondo, nel tempo della minaccia nucleare, il destino stesso dell’umanità.
Una riflessione che può consentire, anche al di là dello svolgimento del seminario, una serie di rimandi e di interrogativi, almeno, su due piani di riflessione e di intervento, o, per recuperare una essenziale prospettiva metodologica, di educazione-intervento e di ricerca-azione: la questione cruciale del conflitto, la sua dinamica e il suo svolgimento, nei più diversi e complessi ambiti nei quali si dipana; e la questione della responsabilità delle persone, cittadini e cittadine, operatori e operatrici, intellettuali e attivisti, di fronte al conflitto e, in particolare, di fronte a quella sua specifica declinazione, la guerra, vale a dire la dinamica di svolgimento del «conflitto, in forma armata e con il ricorso alla violenza, tra soggetti organizzati, quali entità, istituzioni, Stati». Quale responsabilità, quale impegno per contrastare la guerra e costruire «pace con diritti umani e giustizia sociale»?
Se la guerra, infatti, può essere evitata e prevenuta, il conflitto può essere visto come «la situazione di incompatibilità tra due o più soggetti derivante dall’esistenza di ragioni, interessi, bisogni, obiettivi e finalità contrastanti»; tale condizione è determinata, quindi, proprio dall’esistenza di tali differenze e, di conseguenza, è una dinamica di relazione legata alla presenza di diversità, divergenze o incompatibilità. In questo senso, il conflitto è una condizione normale della vita sociale: una forma fondamentale di interazione sociale che sorge nel momento stesso in cui tale interazione si svolge e che può comportare, se ben intercettato e attraversato, abitato e gestito, un passo avanti nella comprensione dell’altro/degli altri, e un avanzamento della relazione.
La questione dunque non è il conflitto (che è inevitabile, perché legato alla normale dinamica di relazione tra soggetti portatori della loro specifica soggettività, con le loro specificità, peculiarità, visioni), ma la gestione del conflitto (che varia a seconda di diversi fattori) e, possibilmente, la trasformazione del conflitto. Ed è per questo che, così come il conflitto non è un evento, dunque non “scoppia”, bensì un processo, con il suo sviluppo, le sue fasi, i suoi tempi, così la pace è una dinamica e va costruita: la pace non indica cioè l’assenza del conflitto o l’annullamento delle contraddizioni, ma, viceversa, la realizzazione di una serie di condizioni, tra cui l’assenza di violenza e di traumi diffusi all’interno della società e la presenza di condizioni di equilibrio, a partire dalla riduzione delle diseguaglianze e delle ingiustizie, e di armonia, inclusione e cooperazione, nelle relazioni sociali.
La pace non è dunque l’opposto del conflitto: è, invece, l’opposto della guerra, come indica la sua stessa radice etimologica, dal latino pax da cui pactum, «patto», accordo, l’idea, cioè, di una condivisione, di una coesistenza, di un vivere bene e vivere insieme, che disegna la qualità delle relazioni sociali e prospetta l’esigenza di attivare «tutti i diritti umani per tutti e per tutte», nessuno escluso: diritti di libertà, quali i diritti civili e politici; diritti materiali, quali i diritti economici, sociali e culturali; diritti dei popoli e dell’ecosistema; diritti digitali. Siamo, dunque, all’opposto della guerra; e siamo, soprattutto, in un campo di responsabilità, in cui tutti e tutte siamo chiamati, ciascuno sulla base delle proprie possibilità e a partire dalla propria vocazione, a dare il proprio contributo, a impegnarsi per costruire la pace, ad attivarsi, in generale, nella lotta contro la guerra e per la pace.
Un tema, peraltro, “di diritto”: la stessa Risoluzione sui Difensori dei Diritti Umani (risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite 53/144 del 1999) riconosce che «tutti hanno il diritto, individualmente e in associazione con altri, di promuovere e lottare per la protezione e la realizzazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali a livello nazionale e internazionale». Allo stesso modo, «tutti hanno diritto, individualmente e in associazione con altri, di protestare contro le politiche e le azioni di singoli funzionari e organi governativi con riferimento a violazioni dei diritti umani e delle libertà fondamentali, tramite petizione o altri mezzi appropriati».
Parla, tutto questo, alla nostra attualità? Si contano, al 2022, ben 59 conflitti armati, di cui quello che oppone la Russia alla NATO in Ucraina è quello che emerge nelle prime pagine di tutti gli organi di informazione. Proprio in questi giorni è tornata d’attualità la richiesta di una nuova “Agenda per la Pace”; vale la pena richiamare allora quello che l’attuale “Agenda per la Pace”, il report del Segretario Generale delle Nazioni Unite del 1992 richiedeva ai fini della prevenzione della guerra e della costruzione della pace: la diplomazia preventiva per prevenire l’escalation con mezzi diplomatici; il peace-making, vale a dire la ricerca di accordi tra le parti in conflitto; il peace-keeping, vale a dire l’interposizione, legittima, e con il consenso delle parti in conflitto, tra i contendenti; il peace-building, vale a dire il superamento delle ragioni del conflitto e il ripristino della convivenza. Un lavoro che riguarda tutti e tutte e, in fondo, nel tempo della minaccia nucleare, il destino stesso dell’umanità.
* A dispetto di quanto erroneamente indicato nella pagina https://multimage.org/info/chi-siamo, l'autore non ricopre alcun incarico all'interno della Associazione Editoriale Multimage.